protocollo farfalla – il ministro ammette l’esistenza di un accordo tra Sisde e Dap

Giustizia: Dossier “Farfalla”, il ministro ammette l’esistenza di un accordo tra Sisde e Dap

 

 

di Silvio Messinetti

Il Manifesto, 11 dicembre 2013

La farfalla volava basso, si mimetizzava nelle celle di massima sicurezza, volteggiava indisturbata tra i penitenziari di mezza Italia. Si nascondeva nelle barbe finte degli uomini dei servizi a caccia di informazioni nei colloqui riservati con i detenuti sottoposti al regime del 41 bis.

Ma lemme lemme la nebbia fitta comincia a diradarsi e la farfalla a intravedersi.

Il manifesto se ne occupa fin dal 2006 (cfr. Matteo Bartocci, “il carcere delle spie” 31 maggio 2006). Ma ora è uno dei tanti misteri d’Italia che l’audizione della Commissione parlamentare antimafia, che ha avviato ieri a Reggio Calabria la sua attività d’indagine, sta scoperchiando dal pentolone delle trame occulte e dei segreti irrisolti. È stato il guardasigilli in persona, Annamaria Cancellieri, ad ammettere l’esistenza di questo rapporto.

Nome in codice “Farfalla”, appunto. Racconta di un patto segreto tra i servizi di intelligence e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che in passato, ma chissà forse ancora oggi, ha permesso agli spioni di far visita ai detenuti (‘ndranghetisti e mafiosi) al 41 bis. Per raccogliere informazioni? Ancora non è dato sapere. “Soprattutto ci chiediamo se sia ancora operativo” incalza Claudio Fava (Sel), vicepresidente dell’Antimafia. “È una questione pesante a cui, noi come Commissione e il procuratore capo della Dna, Roberti, chiediamo venga data risposta al più presto. Siamo di fronte non al dubbio ma alla certezza che vi sia stato e vi sia un protocollo operativo che all’epoca era stato istituito fra il Sisde e il Dap.

Di questo ha reso testimonianza di fronte all’autorità giudiziaria il numero due del Dap, Sebastiano Ardita, spiegando che di questo protocollo lui sapeva l’esistenza ma non i contenuti. È un protocollo che in sostanza prevede la collaborazione fra la struttura penitenziaria che si occupa dei detenuti al 41 bis e i servizi di sicurezza.

Naturalmente abbiamo la necessità come commissione di sapere cosa contenga questo protocollo, quali fossero le possibilità di accesso alle strutture carcerarie dei nostri servizi di sicurezza. Anche perché supponiamo che il protocollo all’epoca sviluppato dal Sisde sia stato ereditato anche dall’Aisi. Mi è sembrato abbastanza insolito che il ministro della Giustizia non ne fosse a conoscenza. Quanto meno ai tempi in cui il protocollo è stato sviluppato, il Viminale deve essere stato informato e l’informazione deve essere messa a disposizione di chi viene dopo. La ministra ci ha detto che riferirà e noi aspettiamo. Ma la domanda resta.

Quale funzione hanno avuto i servizi in questi anni? Indurre alla collaborazione i detenuti al 41 bis? Intercettare comunicazioni verso l’esterno?”. Domande inquietanti, ma che diventano ancor più urgenti alla luce anche del ruolo “non di totale limpidezza”, sottolinea Fava, che nella storia d’Italia hanno avuto i servizi. “Pensiamo a quello che è accaduto 20 anni fa, ai silenzi che hanno accompagnato la stagione delle stragi e presumibilmente al ruolo anche di una parte degli apparati”, ma soprattutto della possibilità “di una nuova recrudescenza con il rischio di una nuova stagione stragista” come paventato giorni fa dal ministro Alfano.

A lanciare l’allarme, rivela Fava, sono stati i magistrati di Palermo che hanno ventilato l’ipotesi che “la mano e l’intenzione non sia riferibile soltanto a Cosa nostra”. Ma nasconda altri interessi non ancora definiti, ma che potrebbero non escludere – secondo Fava – un coinvolgimento della ‘ndrangheta e non solo. “La procura di Reggio questa preoccupazione l’ha esposta nitidamente. Vi è un punto di interesse condiviso sicuramente per quanto riguarda interessi passati e vecchi progetti stragisti. Questa collaborazione c’è stata in passato e c’è ragione di temere che si ripeta in futuro.

Questo è anche un contesto inquinato e vischioso in cui è facile che si possa realizzare un progetto che chiama in causa soggetti diversi da quelli delle stesse organizzazioni criminali”. Il pericolo, avverte il vicepresidente dell’Antimafia, non è solo legato alla criminalità calabrese. “Si è parlato molto anche di massoneria, come camera di compensazione all’interno della quale si possono incontrare interessi non solo riconducibili alle ‘ndrine, ma anche a borghesia d’affari e professioni. Al riparo da sguardi indiscreti possono costruire alleanze e progetti solidi”. In questa situazione di confusione sociale e di crisi economica, c’è il rischio che la palude collosa di interessi eversivi si allarghi. Coinvolgendo pezzi deviati dello Stato e criminalità organizzata. Dalla città dei “boia chi molla” di quarant’anni fa, e nel pieno delle giornate dei forconi inclusi proclami para golpisti, il messaggio che arriva è inquietante.

http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/giustizia-dossier-qfarfallaq-il-ministro-ammette-lesistenza-di-un-accordo-tra-sisde-e-dap

SERVIZI SEGRETI NELLE CARCERI PER FARE COSA?

I servizi segreti sono degli elefanti fuori controllo. Possiedono armi, soldi, perfino delle flotte aeree, il tutto fuori da ogni controllo pubblico.

In Italia, prima il Copaco e dal 2007 il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica avrebbe dovuto esercita tale controllo. Di fatto, tali strutture si sono limitate di dare una copertura “democratica” a politiche e operazioni illecite e arbitrarie.

Ma non c’è solo questo. Sorgono strutture clandestine in ambienti particolari come le carceri.

Nel quotidiano Il Manifesto del 31 maggio 2006 c’è a notizia che nel settore carcerario è stato varato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) un ordine di servizio che istituisce una rete d’intelligence interna alle carceri per sorvegliare i detenuti, i loro rapporti con l’esterno e gli agenti.

In sostanza, si tratta di una sorta di superservizio segreto carcerario, una rete che opera al di là d’ogni gerarchia interna, senza un atto pubblico che ne regoli finalità, modus operandi, organismi di e quantità di forze assegnate

Il protocollo farfalla

  Quasi contemporaneamente alla diffusione di questa notizia, a San Giovanni Vesuviano avviene un’esplosione in una farmacia.

   C’è qualcosa di strano in quest’esplosione. Il clan predominante, quello dei Fabbrocino, è così potente che non aveva bisogno di fare la guerra ai farmacisti, tanto meno a uno solo di loro.

Dalle intercettazioni del telefono del farmacista emerge che l’attentatore è un vecchio appartenente alla Nuova Camorra Organizzata, Antonio Cutolo, parente alla lontana del più famoso Raffaele.

La Nuova Camorra Organizzata era nata nelle carceri (e legata a doppio filo con i servizi segreti) negli anni ’70 e ’80. Vincenzo Casillo, il numero due di Cutolo, aveva in tasca la tessera dei servizi quando accendendo il motore d’avviamento della sua macchina, accese senza accorgersene anche l’esplosivo che aveva sotto il seggiolino.

Quando viene perquisita l’abitazione di Antonio Cutolo, accanto a lui, si trova suo fratello, che avrebbe dovuto essere all’ospedale moribondo. Ma c’è una cosa molto strana, Antonio Cutolo era stato condannato all’ergastolo e avrebbe dovuto essere in prigione, invece è a San Giuliano Vesuviano a mettere bombe ai farmacisti e a condurre summit di Camorra.

Ma le sorprese non sono finite. Si presenta al magistrato che sta conducendo le indagini, la Di Monte, il colonnello Raffaele Del Sole, il capo del SISDE della Campania.[1] Egli afferma che Antonio Cutolo è uno che tramite il DAP passa delle informazioni confidenziali. Inoltre, fa parlare la Del Sole con un altro magistrato, Salvatore Leopardi, che viene presentato come un dirigente di un ufficio investigativo, di polizia giudiziaria che opera dentro il circuito carcerario. Quest’ufficio era stato voluto da Giovanni Tinebra. Tinebra e Leopardi avevano lavorato alla Procura di Caltanissetta durante gli anni del grande falso: l’inchiesta della strage di Via D’Amelio che ha portato in carcere undici innocenti, di cui sette condannati all’ergastolo. Tinebra quei tempi aveva il ruolo chiave di procuratore capo e Leopardi quello di sostituto procuratore.

C’è un altro aspetto strano di questa faccenda, Leopardi che è un magistrato, non va dal Procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli ma va dai servizi e si presenta solo quando viene arrestato un suo informatore.

   Ricapitoliamo, c’è un ergastolano libero fa il bombarolo, che per liberarlo si muovono un ufficiale dei servizi e un dirigente di una struttura misteriosa del DAP.

Il termine protocollo Farfalla viene per la prima volta usato nel 2012 da Nino Di Matteo, il sostituto procuratore palermitano, durante l’interrogatorio dell’ex dirigente del DAP Sebastiano Ardita, nel processo contro Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per il mancato arresto di Provenzano. È il magistrato a pronunciare questo termine, egli conferma di sapere dell’esistenza di un protocollo chiamato in quel modo, ma essendo coperto dal segreto di Stato non ne ha mai preso visione.

Quello che si sa è che si tratta di un protocollo di poche cartelle su carta intestata del SISDE firmato da Salvatore Leopardi, poco dopo il suo arrivo alla direzione dell’Ufficio ispettivo, e dal direttore del SISDE di allora, il prefetto Mario Mori. Questo protocollo dovrebbe disciplinare l’attività di cooperazione tra il DAP e il SISDE.

I punti salienti di questo protocollo sono preceduti da una serie di premesse che ricordano le funzioni legalmente attribuite al SIDE e al DAP, e preannunciano vaghe iniziative comuni che potrebbero essere prese in futuro come la condivisione all’accesso delle rispettive banche dati, iniziative reciproche di formazione del personale ecc., tutte attività generiche. Poi il documento alluderà, in modo più o meno esplicito, a iniziative comuni per l’analisi e il monitoraggio della situazione carceraria, il che significa la creazione di una centrale di ascolto che dovrà operare, sia dentro che fuori le carceri, con finalità che non si limitano più all’attività carceraria, ma si allargarono a possibili attività “terroristiche” (in sostanza quello che è spacciato per terrorismo) o anarco-insurrezionalistiche.

Quello che si sa di questo protocollo, lo è grazie ad un articolo dell’Il Manifesto e dai documenti allegati a un’interrogazione parlamentare con i deputati Mascia e Migliore.

Da questi documenti emerge che nel Protocollo Farfalla c’è una clausola molto particolare che estende il segreto non solo alle strutture del SISDE (che essendo un servizio segreto potrebbe apparire logico)[2] ma anche alle strutture del DAP coinvolte in quest’accordo. In sostanza tutte le informazioni che passano dalle carceri e che sono raccolte dalla struttura delle intercettazioni che opera al DAP non saranno mai trasmesse all’autorità giudiziaria.

In questo comma si annida un’oggettiva violazione all’obbligo che la polizia giudiziaria ha di trasmettere all’autorità competente il più rapidamente possibile ogni notizia di reati in cui venga in possesso. La polizia penitenziaria e il GOM fanno parte a tutti gli effetti della polizia giudiziaria. Quale ragione di Stato può imporre l’esclusione dei magistrati dalle carceri? Teniamo conto che questo protocollo dovrebbe essere seguito dai diversi soggetti che operano nelle carceri: direttori del carcere, educatori, ispettori penitenziari, personale del GOM, ecc.

Se un detenuto (comune o in 41bis) avesse l’intenzione di collaborare con la magistratura o in ogni modo volesse, trasmette delle informazioni significative ai magistrati, in tutti questi casi il protocollo prevede che siano aggirate le strutture e le gerarchie amministrative istituzionali e che sia attivata immediatamente una comunicazione diretta con il capo dell’Ufficio ispettivo, mantenendo la segretezza ed evitando, nel modo più assoluto, di informare i terminali dell’autorità giudiziaria dirottando invece il flusso delle informazioni al DAP che a sua volta le comunicherà al vertice del SISDE (ora AISI). Dunque il carcere sarebbe sottratto al controllo dell’autorità giudiziaria e finirebbe nelle mani del SISDE che in questo modo opererebbe in maniera segreta e senza controllo.

Non bisogna essere dei dotti giuristi per capire che tutto ciò è anticostituzionale. La Costituzione non afferma che le carceri debbano essere consegnate ai servizi segreti.

Ma non è tutto. Le competenze di questa struttura e conseguentemente delle intercettazioni, non sarebbero limitate alle carceri ma potrebbero estendersi fuori di esse in qualsiasi settore della vita civile (quello sindacale per esempio).

   C’è da chiedersi qual è l’oggetto di questo segreto e di questa rete di spionaggio, qual è la sua necessità.

Non potrebbe che l’oggetto del segreto possa essere la cosiddetta trattativa Stato-Mafia ma soprattutto la gestione del carcere nei confronti dei detenuti sottoposti a 41 bis?

   Che quest’ipotesi non sia sballata, lo rende evidente l’ostacolo che i GOM fecero a un’inchiesta, che ha visto indagati alti magistrati e agenti, aperta dalla Procura di Roma.

Queste indagini nascevano da un’inchiesta precedente su mafiosi incarcerati (guarda caso). In quest’inchiesta si era scoperto il tentativo di orientare le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia da parte di “strani personaggi”. Tra gli avvicinati c’era il pentito Nino Giuffrè che aveva fatto il nome di politici importanti e del loro collegamento con Cosa Nostra.

Ora i magistrati vogliono sapere se gli uomini del GOM abbiano segnalato i nomi di chi stava pensando di pentirsi. Anche l’ufficio di Pio Pompa (il personaggio che fu coinvolto in diversi scandali inerenti il SISMI),[3] redige per il SISMI un appunto su Giuffrè.[4] Stando al SISMI attorno a Giuffrè si stava organizzando “la verosimile predisposizione di un ulteriore iniziativa mediatico-giudiziaria in pregiudizio del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e dell’Onorevole Dell’Utri”.

Per questo motivo l’ufficio di Pompa comincia a monitorare i magistrati che avevano a che fare con i mafiosi che si dissociavano. Nel 1996 tre senatori meridionali del CCD avevano presentato un progetto di legge sulla dissociazione dei mafiosi, che consisteva che dopo un periodo di “riabilitazione” il mafioso riacquistava la libertà e conservava il patrimonio (in sostanza faceva bingo).

Uno degli aspetti chiave di quest’inchiesta è la genesi del pentimento di Giuffrè, essa punta a capire gli scopi dell’ufficio ispettivo.

Sull’operato di quest’ufficio Alessandro Margara, uno “storico” della magistratura di sorveglianza in un’intervista dice:

D. Procedure di quel tipo le sembrano legali?

R. Assolutamente no. Ci sono sempre stati forti sospetti, se non timori, che controlli e intercettazioni di qualche genere si estendessero a tutto l’ambito penitenziario, compresa l’alta sorveglianza dove ci sono molti reclusi per reati mafiosi. Ma il controllo dei detenuti o di determinati ambienti già oggi è possibile con strumenti che possono ben prescindere da quelli descritti negli ordini di servizio da voi resi noti. E comunque usare strumenti tecnologici di tipo “americano” ha bisogno di una giustificazione che venga da fonti ben più alte di quella di un particolare dirigente di un determinato ufficio”.[5]

C’è da chiedersi, cosa intende Margara quando parla di strumenti tecnologici di tipo “americano”? E cosa ne sa del possibile utilizzo? E perché tace?.

Una cosa sottintende, che dietro ci sia un’operazione politica molto più vasta di quanto si possa intendere.

E che questa struttura sia tuttora operante nelle carceri si può dedurre dall’esposto denuncia fatto da Paolo Dorigo contro Alberto Fragomeni + altri e ignoti, scritto tra marzo e maggio del 2004, mandato al Dr. Guariniello Sost. Procuratore della Repubblica di Torino, dove si denuncia la presenza nelle carceri dei servizi quali la DIA, il SISDE, il SISMI, il CESIS e altri, attraverso personale con doppio stipendio, trasformando così le carceri, in particolare quelle del circuito di massima sicurezza 41bis, in strutture di regime dipendenti dai ministeri degli interni e della difesa, stile “segrete.[6]

Un’altra prova dell’esistenza di una Gladio carceraria è emersa dall’inchiesta

sulla Dssa: una polizia parallela operante “ufficialmente” su più fronti:

monitoraggio degli ambienti extracomunitari per individuare gli eventuali estremisti

islamici, caccia ai militanti (e anche agli ex militanti) della sinistra rivoluzionaria

(come Cesare Battisti) fino ad arrivare a occuparsi della protezione del Papa.

A capo di questo servizio, è Gaetano Saya, fondatore del nuovo MSI. Si

dichiara agente coperto e quando lo arrestano a Firenze per associazione per

delinquere, rifiuta di rispondere all’interrogatorio con la motivazione di non tradire

“il segreto Nato”. Infatti, tra il “personale professionista fidato e selezionato”

vantato dalla Dssa, è risultato che oltre che dalle forze di polizia (sia agenti in

servizio che in congedo).

La fretta con cui il ministro degli interni quando annunciò da Roma che era

stata liquidata una “banda di pataccari”, tradiva le reali intenzioni di coprire tutto.

E’ risultato che gli uomini della Dssa avevano le chiavi per entrare liberamente nel

centro elaborazione del Viminale, oltre a disporre di placche e pass che davano loro

libero accesso in questura come in altre sedi, usando auto di servizio. Non solo: il

materiale illustrativo della Dssa circolava liberamente all’interno dei vari corpi,

dove avveniva il reclutamento, specialmente tra i GOM della penitenziaria.

Il grado di operatività della Dssa, si può rilevare in un servizio del 20 maggio 2004 comparso su News Settimanale[7] originato dalla pubblicazione di diversi fotogrammi di un video girato a Baghdad, dove Fabrizio Quattrocchi era ritratto

nella sua attività non di “body guard da discoteca”, ma di “agente contractor” nel

corso di “missione coperta” volta a “combattere i terroristi”, si è presentato la Dssa

come “una rete invisibile contro il terrore”, definita nel gergo dei mercenari come La

Dottoressa, presente in Iraq in operazioni ad alto rischio con “mezzi in dotazione alle

forze militari presenti in quel teatro” e “permessi governativi” rilasciati dal

“dipartimento della Difesa degli Stati Uniti”.

Che ci troviamo di fronte alla stessa struttura, lo si può dedurre dalle testimonianze di Fabio Piselli ex parà della Folgore e come si diceva prima di Paolo Dorigo. Fabio Piselli in un suo articolo rintracciabile nel Link http://fabiopiselli.com/2008/01/11-spionaggio-elettronico-e-falange.htm  racconta

che la è stata tutta una serie di operazioni, che gli operatori della Falange Armata

avevano competenze nelle attività di captazione elettronica, di mascheramento, di

intercettazione e di penetrazione di sistemi elettronici, oltre alla specifica

competenza nel terreno dell’azione psicologica. Interessante quando racconta la

storia di un giovane paracadutista di carriera accusato di rapina e perciò finito in

galera: “C’è stato, nell’autunno del 1986, un giovane paracadutista di carriera che aveva compreso che alcune efferate rapine compiute da una banda in Emilia Romagna (formata da ex parà e non quella della uno bianca che sarebbe stata attivata poco dopo)[8] avevano caratteristiche militari comuni al suo addestramento, il quale si è rifiutato di partecipare a talune attività, il quale nel 1986 denunciato da un transessuale, povero soggetto debole gestito e manipolato da un operatore istituzionale. Quest’ultimo ha sviluppato in oltre un anno, una informativa, non inviata immediatamente alla AG ma utilizzata ai fini di pressione contro il giovane parà che una volta preso atto della sua inutilità è stata inoltrata causandone l’arresto nel 1988, accusato di rapina è finito perciò in galera, rovinato socialmente e professionalmente e soprattutto screditato di fronte ai propri colleghi eventualmente capaci di rendere testimonianza, perché l’isolamento all’interno di un reparto d’azione avviene non per cause legate a fatti violenti, ma per il timore di essere accumunati ad un collega che “dicono” di essere mezzo “frocio”, amante di transessuali oppure mezzo pazzo, descrizione che è stata applicata in ogni fatto di cronaca che ha riguardato un paracadutista. Il paradosso e la magnificenza dell’operazione falange armata è stato proprio quello di utilizzare quello stesso paracadutista, posto in un supercarcere per 77 giorni, come un operatore idoneo per penetrare le celle di terroristi e trafficanti di armi e piazzare i sistemi di captazione dei colloqui ambientali, il quale pur se sottoposto a continue vessazioni all’interno di una gabbia, sia dalle guardie che dai detenuti, posto in un carcere civile e non militare perché chirurgicamente a posto poche settimane prima, pur se ingiustamente arrestato proprio a causa dei colleghi , pur se cosciente di essere stato sostanzialmente depersonalizzato ha comunque condotto positivamente il proprio lavoro, accettandone gli elevati rischi di ritorsione da parte di questi soggetti attenzionati, con i quali condivideva la prigionia”.

Personalmente non credo molto che il giovane paracadutista sia stato incastrato, ma che abbia fatto parte di un’operazione d’infiltrazione all’interno del carcere. Infiltrazione che riguardava soprattutto gli ambienti politici.

L’infiltrazione in carcere negli ambienti politici non è certamente una novità:

Ronald Stark, cittadino statunitense, arrestato a Bologna nel 1975 con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. Durante la detenzione Stark entra in rapporto con militanti delle Brigate Rosse tra i quali Curcio (che non denunciò mai questa situazione) conquistandone la fiducia e di altre formazioni politiche. Ebbene, durante

la prigionia tenne continui rapporti con il consolato USA, con funzionari della polizia

italiana e con un funzionario libico.

In seguito Stark si mise in contatto un militante di Azione Rivoluzionaria, una

formazione anarcosituazionista, Enrico Paghera. Ebbene sarà questo Paghera, che si

“pentì” e collaborando permise l’arresto dei militanti di Azione Rivoluzionaria.

Paghera in un’intervista a Panorama del giugno 1988[9] sostenne di essere stato

arruolato da Stark in carcere e di avere avuto dall’amerikano l’indicazione di un

numero del Viminale cui fare riferimento. Quando nel 1978 alcuni militanti

di Azione Rivoluzionaria furono arrestati, furono trovate alcune piantine di un

campo di addestramento sito in località Ball Beck, nei pressi del villaggio libanese di

Taibe, corredate con indirizzi di funzionari libici con cui prendere contatto in caso di

bisogno. Autore di questo prontuario era proprio Stark. Poche settimane dopo Stark

fu scarcerato con provvedimento dell’11 aprile 1979, effettuato da Giorgio Floridia,

giudice istruttore del tribunale di Bologna, con la motivazione, basata su un’impressionante serie di prove scrupolosamente elencate, che il medesimo era

un agente della CIA e che in tale veste aveva operato.[10]

Ora parliamo di quella che si potrebbe definire “l’operazione Sacchetti”.

Marino Sacchetti ex carabiniere,[11] cittadino italo – svizzero e capo delle guardie del

“principe di Seborga” e amico della famiglia antesignana dei Savoia, i conti di Aosta

divenne il capo della Legione Brenno.

La Legione Brenno, il cui nome si rifà al leggendario capo dei Galli e che

s’ispira ai cavalieri templari, era stata fondata da alcuni ex carabinieri nei primi anni ’90 per sostenere le formazioni croate dell’Hos, ossia, il Partito fascista al potere in Croazia.

La Croazia con l’esplodere della guerra civile nella Repubblica Federale

Jugoslava (che divenne un terreno di scontro dei vari imperialismi) divenne il luogo

dove s’intrecciarono il traffico di stupefacenti, che arrivavano attraverso la rotta

balcanica controllata dalla mafia turca e quello delle armi. In Croazia arrivarono combattenti da paesi diversi. Secondo il Corriere della sera del 24.11.1997[12] Fiore il capo di Forza Nuova sarebbe uno dei coordinatori della rete nera che converge intorno a un misterioso “Gruppo dei quaranta”: una sorta di “soccorso nero” che raccoglie i resti di formazioni come i Nar, Ordine nuovo, Terza posizione. Scrive G: Olimpio in quest’articolo: “I neofascisti puntano all’ampliamento di una rete europea di sostegno all’eversione di destra con agganci nel mondo nel mondo dei Servizi segreti occidentali, quello tenebroso dei mercenari e delle formazioni paramilitari”.[13] Sempre secondo il Corriere il gruppo ha operato in scenari di guerra come quello dell’ex Repubblica Federale Jugoslava. Perciò Sacchetti e la Legione Brenno operavano dentro il quadro dell’Internazionale nera e dei servizi segreti.

Sacchetti, pur classificato detenuto EIV nel 2001, recandosi per l’appello a

Venezia, fu assegnato ad una sezione di transito del carcere di Verona, luogo di non

massima sorveglianza, anziché degli istituti deputati a questo genere di assegnazioni

temporanee, Belluno (dotato di braccetto speciale) e Vicenza (dotato di sezione AS).

Paolo di questo periodo ha un ricordo (che è anche una denuncia) molto pesante, nell’aprile 2001in un volantino da un detenuto politico molto noto fece circolare nel movimento dove Sacchetti e Giuseppe Mastini (conclamato collaboratore di giustizia) furono spacciati come compagni. Questo detenuto (come altri) protegge Sacchetti (giunto a Biella da Nuoro, dove direttore, era guarda caso Fragomeni), per questo Paolo lo rimprovera perché lui sapeva e taceva. Qui comincia un aspetto inquietante, dopo che Paolo durante la socialità pensa a un’aggressione verso Sacchetti (che per altro l’avrebbe rivendicata come azione proletaria contro i collaborazionisti nelle galere) comincia la tortura. Una tortura che da anni denuncia.

Le denunce di Paolo significa che questa gladio carceraria usa gli strumenti

per la tortura elettronica. Tutto ciò è illegale e anticostituzionale. A tutti quelli che

appaiono increduli su questa forma di tortura, bisognerebbe che chiedano come mai

tutte le carceri sono interconnesse via satellitare al Ministero di Giustizia.

Questo sistema torturatorio si è sviluppato ed esteso dopo l’11 settembre, pensiamo solamente a Guantanamo.

L’UFFICIO PER LA GARANZIA PENITENZIARIA

  Centrale per questo discorso è l’Ufficio per la garanzia Penitenziaria (U.Ga.P)

   Con l’ordine di servizio n. 610 del 6 luglio 1993, a firma del Direttore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria Adalberto Capriotti, si ristruttura il servizio di Segreteria Generale del Dipartimento, considerando, tra le altre, la necessità di istituire una sezione per il coordinamento delle attività operative di Polizia penitenziaria.

Si è trattato, di fatto, di istituzionalizzare (in altre parole di rendere evidente e ufficiale qualcosa è già operativo) una specificità operativa particolare, la cui peculiarità è stata la gestione detentiva di appartenenti alle organizzazioni mafiose (Cosa Nostra, Sacra Corona Unita, Camorra, ‘Ndrangheta e relativi gruppi contrapposti), quella dei primi collaboratori di giustizia, la collaborazione sinergica con le varie autorità giudiziarie e le forze di polizia, il monitoraggio delle problematiche attinenti la sicurezza delle sedi penitenziarie sparse in tutto il territorio nazionale.

Il funzionario responsabile della istituenda Sezione V^ (Servizio Coordinamento Operativo) è stato il colonello Enrico Ragosa.

Ragosa non è un personaggio da niente. Genovese, classe ’45, è un alto ufficiale del disciolto corpo militare degli agenti di custodia. È sempre stato l’uomo chiave per svolgere missioni “delicate” e risolvere situazioni di “emergenza” nelle carceri. Collaboratore di Giovanni Falcone, durante il maxiprocesso. E proprio in quegli anni che Ragosa costruì le prime squadre speciali, gli Scop (quelli che oggi sono i GOM), incaricati sia della sorveglianza dei condannati per mafia, che per i momenti critici: rivolte, sequestri, proteste.

Lo SCOP, diretto dal genovese Enrico Ragosa, nel corso degli anni Novanta fu al centro delle inchieste per maltrattamenti avvenuti nelle carceri di Secondigliano (1993) e nell’isola di Pianosa (1992). Dopo questi avvenimenti nel 1997 Ragosa fu stato trasferito (guarda caso) al SISDE. Quando nel febbraio del 1999 il Guardasigilli Oliviero Diliberto istituisce l’U.Ga.P, Ragosa fu chiamato a dirigerla. L’U.Ga.P ha alle sue dipendenze i GOM (gli stessi che nel 2001 si “distinsero” nelle torture a Bolzaneto).

Ragosa è un personaggio che per il ruolo svolto all’interno delle carceri ha sempre suscitato polemiche. “Il generale Ragosa ha una lunga permanenza nell’amministrazione dovuta ai metodi utilizzati dalle squadre speciali da lui dirette negli ann’80 e ‘90” ha protestato la senatrice diessina Ersilia Salvato. “La sua missione ha un unico scopo: gestire i pentiti, organizzando un tam tam all’interno delle carceri” ha dichiarato a Panorama il deputato forzista Franco Frattini. L’ex radicale Francesca Scopelliti attacca “E’ stata adattata una politica di rigore e pressione nei confronti dei detenuti disposti a collaborare per formulare una <certa verità>”.

Ragosa in trent’anni di servizio nella polizia penitenziaria, non ha quasi mai rilasciato interviste. In un’intervista a Panorama risponde a tutte le accuse:

D. A cosa serve l’Ugap?

 R. Ad analizzare i fenomeni e problemi che minano il carcere.

 D. Per esempio?

 R. Da otto mesi stiamo studiando come impiegare al meglio le forze di polizia

     penitenziaria. Il lavoro dell’agente è il più ingrato del mondo, perché deve

     essere allo stesso tempo un educatore, un infermiere e un custode della

     sicurezza. Passa tutto il tempo rinchiuso in una sezione e ottiene pochi

     riconoscimenti del proprio sacrificio.

D.  Cos’altro avete scoperto in carcere?

R. Molti problemi come l’introduzione e il traffico degli stupefacenti, ci vorrebbero

    delle unità specializzate e soluzioni tecnologiche più avanzate.

D. Teme che scoppieranno delle rivolte?.

R. In carcere ci sono 17 mila detenuti extracomunitari. Non sappiamo chi sono e,

    soprattutto, non sappiamo chi siano i Totò Riina fra i cinesi, gli albanesi o gli

    slavi. Fra loro ci sono elementi legati alle mafie dell’Est. Dobbiamo individuarli

    e applicare lo stesso regime riservato ai nostri mafiosi: il 41 bis.

D. Fra i vostri compiti c’è anche quello di prevenire attentati delle BR?

R. Raccogliamo ogni segnale per l’eventualità di un nuovo fronte delle carceri.

D. Che cosa intende fare per il sovraffollamento?.

R. Non abbiamo carceri sovraffollate, ma solo sottostrutturate, infatti la nostra

    popolazione di detenuti è sulla media europea. Faccio un esempio: se ci sono due

    topi in una gabbia grande, è probabile che non si azzanneranno. Perciò stiamo

    costruendo nuove carceri.

D. La delegazione del Consiglio europeo del Comitato di prevenzione della tortura

    pensa che il regime detentivo del 41 bis sia troppo punitivo. È d’accordo?

R.  Rispetto il lavoro di un organo autorevole come il Comitato, ma non possiamo

    sottovalutare la forza della mafia. La sua capacità genetica di trasformarsi,

    simile a quella dei topi, fa sì che riemerga sempre. Perciò non possiamo

    Abbassare la guardia. Dobbiamo riuscire a eliminare le norme inutilmente

    afflittive, ma anche creare un cordone sanitario intorno ai detenuti pericolosi.

D. In che modo?

R. Con l’impiego permanente dei Gom, che non sono dei piccoli rambo ma solo

    ma operai specializzati nella sorveglianza dei mafiosi e in situazione di

    emergenza.

D. State studiando la possibilità di adottare il braccialetto elettronico per detenuti

    agli domiciliari?

R. Per ciò che ci riguarda, stiamo conducendo uno studio tecnico per valutare

    tutte le possibilità. Abbiamo chiesto anche un parere dell’Agenzia spaziale

    italiana, però ho una perplessità.

D. Quale?

R. Non so se sia giusto pedinare un detenuto che non ha commesso un nuovo reato.

In questa intervista Ragosa fa delle importanti ammissioni, quali la richiesta di avere delle unità speciali tecnologicamente avanzate (molto probabilmente dietro c’era una richiesta di ufficializzare e di rendere legale unità che erano già operative) e soprattutto la richiesta di parere all’Agenzia spaziale italiana, che vuol dire non solo i controlli satellitari dei detenuti semiliberi o agli arresti domiciliari, ma collegamento satellitare tra le varie carceri.

http://marcos61.wordpress.com/2013/06/13/servizi-segreti-nelle-carceri-per-fare-cosa/

Protocollo Farfalla: la Trattativa continua nelle carceri

“Processo allo Stato”, l’inchiesta di Giorgio Mottola e Maurizio Torrealta, oggi ospite ai nostri microfoni.

di redazione
Categorie: Giustizia
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Un accordo tra il dipartimento penitenziario e i servizi segreti per la gestione dei principali detenuti in regime di massima sicurezza, senza che rimanesse alcuna traccia nei registri carcerari. E’ questo il Protocollo Farfalla, descritto nei dettagli e nelle sue conseguenze da Maurizio Torrealta e Giorgio Mottola in “Processo allo Stato” edito con Rizzoli.

Un quadro completo di vent’anni di storia d’Italia, i ventanni della Trattativa Stato Mafia. L’inchiesta porta alla luce documenti inediti e nuove testimonianze essenziali per comprendere le cause delle stragi del 1992-1993, della famosa Trattativa che in quegli anni si è sviluppata e per far luce su uno dei capitoli più oscuri della storia del nostro paese.

Il Protocollo Farfalla, documento oggi coperto dal segreto di Stato, mostra gli interventi dei Servizi Segreti contro le indagini della magistratura e i due autori tramite intercettazioni, indagini insabbiate, morti dimenticate e sospette di funzionari dello Stato che si sono forse avvicinati troppo alla verità, ricostruiscono la storia della  trattativa ma anche sui crimini successivi, commessi per continuare a non far circolare le informazioni.

Sarebbe uno splendido noir, fatto di intrighi e morti misteriose, di accordi sottobanco e di documentazione difficile da reperire e decifrare. Invece l’inchiesta mostra come la Trattativa sia stata perpetuata fino ai giorni nostri, riportando anche nelle sue appendici diverse fonti che supportano la ricostruizione dei fatti.

Il tutto con conseguenze drammatiche: le morti del pm Gabriele Chelazzi e Loris D’Ambrosio (sui cui cadaveri non è stata effettuata l’autopsia), della direttrice del carcere di Sulmona Armida Miserere e del suo compagno,  mostrano come all’interno del nostro sistema carcerario avvengano fatti fuori da quelle che dovrebbero essere i confini democratici. “Ci sono molti motivi per supporre che queste morti siano connesse alle informazioni sul protocollo e la trattativa. Quello che sta succedendo nelle carceri è incredibile” conclude Maurizio Torrealta.

http://www.radiocittafujiko.it/protocollo-farfalla-la-trattativa-continua-nelle-carceri

 

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