Le Donne e i Cavalieri di Nicolò Dell’Abate nella residenza dei Boiardo a Scandiano

Diego Cuoghi

Le Donne e i Cavalieri di Nicolò Dell’Abate nella residenza dei Boiardo a Scandiano

 

Presso la Galleria Estense di Modena sono conservati gli affreschi di Nicolò Dell’Abate staccati dalla Rocca di Scandiano nella seconda metà del secolo XVIII. I più conosciuti sono quelli che facevano parte dei due ambienti denominati Camerino dell’Eneide e Paradiso, dipinti da Nicolò dell’Abate intorno al 1540 per il conte Giulio Boiardo. Vi sono però anche altri frammenti dal soggetto non identificato, attribuiti allo stesso autore e censiti come provenienti da Scandiano [1] , che non sembra abbiano fatto parte della decorazione dei due ambienti più famosi, già oggetto di uno studio precedente [2] . I soggetti di questi dipinti non erano mai stati identificati e moltissime ipotesi erano state avanzate da critici e storici dell’arte.

In anni recenti la critica ha riportato tra gli affreschi non identificati alcuni di quelli che in passato erano stati catalogati come appartenenti alla decorazione pittorica del Camerino dell’Eneide. È apparsa infatti evidente, soprattutto dopo i recenti restauri, la differenza tra un gruppo di sette lunette originali, dai soggetti paesaggistici e dallo stile più uniformi, e due denominate Tre ritratti e Allegoria della pace. [3] Lo stesso catalogo della Galleria Estense, pubblicato nel 1945, descriveva già queste lunette come «rifacimenti» [4] . La prima, che raffigura tre volti che sbucano da un cielo pieno di nubi, risulta evidentemente composta da frammenti di altre raffigurazioni. I tre ritratti infatti presentano strette consonanze con quelli dipinti nell’ottagono del soffitto del Camerino e sembrano ricavati da riquadri esagonali.

Anche la lunetta definita da Walter Bombe Allegoria della Pace [5]  (sotto a sinistra) venne certamente ottenuta da un fregio di tutt’altro genere. Nelle parti laterali appaiono evidentissime le aggiunte, e lo stile della raffigurazione, che si discosta notevolmente da quello delle altre, è simile a quello di un altro dipinto attribuito a Nicolò, intitolato Uomo nudo con scudo dinanzi a una donna che allatta (a destra).

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Della stessa serie fanno parte anche altri frammenti, pubblicati nel 1994 nel catalogo della mostra Signore cortese e umanissimo, viaggio intorno a Ludovico Ariosto [6] . Si tratta di quelli definiti da Pallucchini «frammenti di un fregio a colori» e «frammenti di un fregio a chiaroscuro», affreschi di varie dimensioni, riportati su tela e in stato di cattiva conservazione o addirittura rovinatissimi. Appare evidente l’appartenenza di questi dipinti a due diversi gruppi: il primo è composto da frammenti policromi (altezza intorno a 60 cm e larghezze tra 44 e 117 cm), il secondo è formato da quattro monocromi di piccole dimensioni (altezza intorno a 26 cm e lunghezza 44 o 57 cm) che raffigurano quelle che il catalogo della Galleria Estense definisce Scene di storia romana non identificata [7]

Per quanto riguarda il primo gruppo di affreschi policromi, già nel 1970 durante i restauri vengono ritrovate tracce di una uniforme striscia scura nella parte superiore e in quella inferiore di un ornato a motivi ad anelli [8] che fanno supporre la provenienza da uno stesso ciclo. Silvie Beguin riconosce per questi dipinti una contemporaneità di tempi di esecuzione che giustifica una unità di stile e spirito [9] .

Malgrado l’interesse suscitato da questi frammenti nei lavori di diversi studiosi, nessuno riesce a decodificare i soggetti e la relazione tra le varie scene. Nei monocromi con le Scene di storia romana però Giovanna Paolozzi acutamente nota un motivo conduttore, si tratta infatti, in tutti e quattro i casi, di scene che hanno come protagonisti personaggi femminili, quindi storie di donne. [10] .

L’evidente diversità dei temi e dello stile di questi affreschi da quelli appartenenti al Camerino dell’Eneide mi ha fatto scartare l’ipotesi che potessero essere i frammenti perduti, quelli che secondo le descrizioni si trovavano sul soffitto e che vengono descritti come “medaglioni” e “teste coronate d’alloro” [11] . Ho quindi provato a immaginare quali luoghi della Rocca potessero essere affrescati con altri cicli narrativi.

Il cortile

Il primo storico che propone uno studio sugli affreschi di Nicolò Dell’Abate a Scandiano è Giambatista Venturi che nel 1821 dà alle stampe un grande in folio [12] contenente, oltre alle incisioni realizzate da Antonio Gajani e da Giulio Tomba tratte da disegni eseguiti prima dell’incendio, una descrizione dei dipinti del Camerino e un saggio sull’attività del pittore e sull’opera di diversi altri artisti che hanno rappresentato l‘Eneide.

Di Venturi sono conservati, presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia anche gli appunti e gli schizzi preparatori agli studi sulla Rocca di Scandiano; tra questi un manoscritto dei primi anni dell”800, in cui l’autore descrive il cortile della rocca con vari disegni commentati da brevi annotazioni [13] . Si può fare riferimento a queste descrizioni per raffigurarsi l’aspetto di parte del cortile, soprattutto dei lati nord e est, rimasti in gran parte invariati dall’epoca dei Boiardo. Venturi afferma che in queste pareti affrescate sono rappresentati «in due grandi compartimenti, alcuni dei fatti magici del poema del Boiardo con interposte figure colossali, diversi scudi con le arme delle famiglie alleate di sangue coi Boiardi e altri piccoli quadretti».

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Due disegni in particolare, uno a penna e uno a matita, rappresentano il lato nord, diviso in tre settori separati da colonne binate a piano terra e singole al primo piano. Sotto le finestre corre un fregio con una serie di stemmi, quelli che si afferma essere relativi alle famiglie imparentate con i Boiardo. Le finestre sono sovrastate da trabeazione e timpano triangolare, e a fianco di ognuna si trovano due personaggi contenuti entro nicchie dipinte. Nei due grandi compartimenti a piano terra delimitati dalle colonne, si intravedono altre scene, ma anche queste, come le figure nelle nicchie, sono quasi impossibili da decifrare, a causa dell’ormai totale scolorimento del disegno. Possiamo ricostruire i loro soggetti grazie alla testimonianza di Antonio Boccolari, singolare figura di restauratore che opera presso l’Accademia di Belle Arti di Modena, e che, avendo ideato una particolare tecnica di distacco degli affreschi, si reca nel 1804 a Scandiano per eseguire lo “strappo” di quelli che ancora rimangono. [14] Vengono descritti, dal notaio che lo accompagna nella ricognizione, gli affreschi del lato nord che rappresentano «un guerriero sedente in trono con diversi consiglieri a lato, un militare pure sedente ai piedi del primo, un incendio di fabbricato e una donna colpita da spavento in atto di fuggire con un fanciullo che tiene per mano» e «una statua colossale in nicchia, sottostante al precedente dipinto a color chiaro scuro verde rappresentante una donna che tiene nella mano sinistra una testa per i capelli sopra un vaso e nella mano diritta una sciabola in alto. Ha il capo volto all’indietro in aspetto piuttosto truce» [15] . Questa descrizione risale al maggio del 1804, e già nel luglio dello stesso anno i dipinti vengono staccati; è così possibile datare gli appunti di Venturi ai primissimi anni del diciannovesimo secolo.

Sotto il secondo schizzo, quello a matita ormai quasi illeggibile, un breve commento descrive l’aspetto delle altre parti del cortile: «A mattina continua il medesimo disegno, le tre finestre sono aperte, e così anche al mezzodì. A mattina le pitture sono rovinate, a mezzodì non vi sono che nella metà orientale, la metà occidentale è fabbricata gregia. A ponente nell’alto non vi è mai stato dipinto, nel basso sì ma è rovinato, qui pure sono tre finestre, sempre doppie». Rileva lo studioso che gli affreschi si trovano anche nella facciata sud dove si trova la Galleria, ma che questi non vi sono che nella metà orientale [16] . Nelle fotografie del cortile, riprese prima del recente restauro appaiono ben visibili avanzi degli affreschi che decoravano tutto il cortile, e che, come già aveva riprodotto Venturi nei suoi schizzi, inquadrano le grandi finestre con elementi architettonici quali colonne, trabeazioni, timpani.

Sono inoltre affrescati nel cortile, con una scena rappresentante un “concerto” e un “guerriero gigantesco”, anche la lunetta e lo stipite sottostanti il voltone d’ingresso. Questi dipinti sono citati da Morsiani, che alla metà del secolo XVIII afferma: «si rimirano per dietro alla porta dell’istessa Rocca entrando dal piazzale a man destra, e sono di tre figlioli del Co. Gioan Boiardo che stanno sonando a lumi l’instrumenti da fiato e la dama che suona la spinetta, benchè in aria giovanile è la Giulia Gambara loro madre, (…). Il Guerriero di statura gigantesca vestito di tutt’arma colla spada nuda alla mano in atto di difesa è lo stesso conte Gio. Bojardo» [17] . Anche Antonio Vallisneri nel 1730 ricordava che «dietro la porta maggiore v’è la figura gigantesca d’Orlando, vestito a ferro, con la spada nuda alla mano, in atto di ferire chi entra e di farne difesa» [18] .

Gli stessi affreschi ora perduti, risultano ancora visibili nei primi anni dell’800 quando vengono descritti da Giambatista Venturi che li fa incidere da Antonio Gajani e li pubblica nella sua Storia di Scandiano [19] , in una tavola fuori testo.  È stato ritrovato e pubblicato nel 1969, attribuendolo genericamente a “scuola emiliana”, un disegno preparatorio che risulta perfettamente corrispondente all’incisione ottocentesca della lunetta [20] . Amalia Mazzetti nel 1970 lo attribuisce a Nicolò Dell’Abate [21] e Giovanni Godi nel 1976 mette finalmente in relazione questo disegno con l’affresco della rocca di Scandiano [22] .

La collocazione di questi dipinti è facilmente individuabile confrontando la loro forma come è illustrata nella pubblicazione di Venturi con quella perfettamente corrispondente della lunetta asimmetrica sotto il voltone d’ingresso. Oggi vediamo quella lunetta ricoperta da un intonaco giallino che, nei molti punti sgretolati, rivela tracce di ornati e cornici, e fa ritenere possibile che ancora qualche parte residua degli affreschi originali possa essere rivelata da futuri restauri.

Sulle pareti di questo cortile, come di altri palazzi emiliani, impaginate come frontespizi di un libro, «Nicolò Dell’Abate racconta un mondo mitico e cavalleresco, spasso e recreazione di una classe dirigente che vuole autogratificarsi in un sogno utopico» [23] . I temi rappresentati nel cortile, sembrano dunque essere gli episodi dell’Orlando Innamorato, come affermato da Venturi o del Furioso, come affermato sia da Vedriani [24] che da Tiraboschi [25] . Se è attendibile la datazione riportata nella Cronaca di Geminiano Prampolini, redatta attorno al 1540, secondo il quale Giovanni Boiardo fa «dipingere per eccellenti pennelli il cortile, finito nel 1520, istoriandolo con le invenzioni tolte dal poema del Boiardo» [26] ,  quei dipinti perduti non possono certamente essere attribuiti a Nicolò Dell’ Abate (nato tra il 1509 e il 1512).

Probabilmente, come ipotizza Pirondini i dipinti del cortile nella loro prima esecuzione risultano insufficienti alle esigenze qualitative del nuovo conte Giulio, oppure essendosi rapidamente deteriorati vengono sostituiti da altri, realizzati da Nicolò Dell’Abate [27] . Pirondini prosegue sostenendo la probabilità che Nicolò Dell’Abate semplicemente aggiungesse, nel cortile della Rocca, solo parzialmente dipinto con le storie dell’ Innamorato, le scene del Furioso le quali, data la notorietà ben presto acquisita da Nicolò in Emilia, offuscarono il ricordo delle altre nonchè dell’ignoto autore che, intorno al 1520 le aveva dipinte.

Un autore che sembra aver lavorato a Scandiano prima di Nicolò è un ignoto artista bolognese che ora è chiamato «Johanne bononiensis pictor», ora «Johanne dicto Siboga pictor de Bononia», come riferito da Reichenbach il quale lo segnala operante all’epoca di Matteo Maria Boiardo per almeno dieci anni, dal 1488 al 1497; e da lui dunque, prima che Nicolò Dell’Abate, sale, anditi, gabinetti e cortili della Rocca potrebbero essere stati decorati con scene, il cui soggetto era probabilmente suggerito da Matteo Maria [28] .

Orlando Innamorato

Sappiamo dunque che il cortile era affrescato con le storie di Orlando. Sono davvero tutti perduti questi affreschi? Quella serie di frammenti policromi attribuiti a Nicolò possono ricondursi ai temi illustrati nel cortile, citati dai diversi cronisti?

Nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto non v’è traccia dei soggetti di questi dipinti. Nessun personaggio si presenta nudo davanti ad una porta di un giardino, e nemmeno insegue una donna dalla strana capigliatura proteggendosi con uno scudo. Non si trova neppure una scena con due amanti in una alcova che, con espressioni turbate, si passano una coppa. La donna inseguita nel giardino pareva assomigliare a Medusa ma nel mito classico il personaggio che la affronta con uno specchio è Perseo, che non compare nei due poemi ispirati a Orlando.

La lettura dell’Orlando Innamorato invece si è rivelata fruttuosa: l’intera serie di frammenti policromi conservati alla Galleria Estense è tratta infatti dal poema di Matteo Maria Boiardo, in particolare dalla storia di Prasildo narrata nel canto XII del Libro I. La vicenda raccontata da Boiardo appare come una interpolazione tra la storia del Ramo d’Oro narrata nell’Eneide e quella degli sfortunati amanti Piramo e Tisbe, già ripresa in precedenza da Giovanni Boccaccio in De claris mulieribus e successivamente da Shakespeare in Sogno della notte di mezza estate.

Prasildo, barone di Babilonia, si innamora di Tisbina, che però ama Iroldo. Il barone disperato decide di uccidersi e si reca in un bosco, lamentandosi per la triste sorte. Nascosti, Iroldo e Tisbina ne ascoltano i proponimenti e impietositi decidono di impedire il suicidio. Tisbina fa credere a Prasildo di essere disposta ad amarlo a patto che lui riesca a conquistare un ramo del Tronco del Tesoro, che si trova in un giardino nel paese di Barbaria. Tisbina sa che custode dell’albero è Medusa, il cui sguardo fa dimenticare il passato, e pensa così di guarire il mal d’amore di Prasildo ed essere libera. Prasildo parte per il viaggio verso il giardino di Medusa, e dopo aver attraversato il Mar Rosso arriva ai Monti di Barca, dove incontra un vecchio saggio che gli insegna come riuscire nell’impresa: egli dovrà entrare completamente nudo attraverso la Porta della Povertà, armato solo di uno scudo specchiato, e dovrà poi uscire attraverso la Porta della Ricchezza lasciando parte del ramo a quest’ultima, che è compagna di Avarizia. Prasildo seguendo i consigli del vecchio entra nel giardino e fa fuggire Medusa grazie allo specchio in cui la Gorgone vede riflesso il proprio orribile aspetto. Uscito dal giardino con il Ramo d’Oro si incammina di nuovo verso Babilonia per reclamare da Tisbina la promessa di matrimonio. Iroldo e Tisbina disperati, non vedono altra soluzione che uccidersi con un veleno che ha effetto dopo qualche ora. Tisbina dopo aver bevuto il veleno assieme a Iroldo va da Prasildo e gli dice che avendo conquistato il Ramo d’Oro potrà averla, ma solo per poche ore perché lei non può vivere senza il suo innamorato Iroldo. Prasildo è sconvolto, dice che mai avrebbe voluto che la storia avesse questa conclusione e scioglie Tisbina dalla promessa. La donna, colpita da tanta generosità si dichiara “vinta” e innamorata di un uomo così nobile. Tisbina torna da Iroldo per raccontargli l’inaspettato volgere della sorte, ma cade a terra in deliquio sotto l’effetto della bevanda. Nel frattempo anche Prasildo si dispera per il triste esito di quel grande amore, ma riceve la visita di un medico che gli racconta di aver dato alla cameriera di Tisbina un sonnifero invece del veleno. Prasildo corre a casa di Tisbina e trova Iroldo disperato per non essere già morto come l’amata. Anche Iroldo rimane colpito dalle nobili parole di Prasildo che ha sciolto Tisbina dalla promessa, e decide di andarsene da Babilonia, lasciando Tisbina a chi si era giustamente conquistato il suo amore con cortesia e affrontando gravi pericoli. Quando Tisbina si risveglia trova accanto a sé Prasildo e si arrende al suo amore.


1)        Due pellegrini  in riva al mare(inv. n. 2820; cat. Pall. n. 55)

Prasildo dopo aver attraversato in nave il Mar Rosso approda ai Monti di Barca, dove incontra un vecchio che gli spiega come rubare il ramo d’oro dal Tronco del Tesoro, un albero magico che produce gemme, perle e altri preziosi, e che si trova nel giardino di Medusa.

32.
Quello animoso amante via cavalca
Soletto, o ver da Amore acompagnato.
Il braccio de il mar Rosso in nave varca,
E già tutto lo Egitto avea passato,
Ed era gionto nei monti di Barca,
Dove un palmier canuto ebbe trovato;
E ragionando assai con quel vecchione,
Della sua andata dice la cagione.

 


2)        Un uomo nudo con scudo dinnanzi a una donna seduta che allatta il bimbo(inv. n. 2823; cat. Pall. n. 56)

Prasildo nudo si presenta alla Porta della Povertà, l’ingresso al Giardino, armato solo di uno scudo specchiato con il quale fa fuggire la Gorgone Medusa, terrorizzata dal proprio aspetto che vede riflesso. All’altro capo del Giardino c’è la Porta della Ricchezza, dalla quale Prasildo dovrà uscire dopo aver staccato un ramo d’oro.

37.
Prasildo ha inteso il fatto tutto aperto
Di quel giardino, e ringraziò il palmiero.
Indi se parte e, passato il deserto,
In trenta giorni gionse al bel verziero;
Ed essendo del fatto bene esperto,
Intra per Povertate de leggiero.
Mai ad alcun se chiude quella porta,
Anci vi è sempre chi de entrar conforta.

38.
Sembrava quel giardino un paradiso
Alli arboscelli, ai fiori, alla verdura.
De un specchio avea il baron coperto il viso,
Per non veder Medusa e sua figura;
E prese nello andar sì fatto aviso,
Che all’arbor d’oro agionse per ventura.
La dama, che apoggiata al tronco stava,
Alciando il capo nel specchio mirava.

39.
Come se vide, fu gran meraviglia,
Ché esser credette quel che già non era;
E la sua faccia candida e vermiglia
Parve di serpe terribile e fera.
Lei paurosa a fuggir se consiglia,
E via per l’aria se ne va leggiera;
Il baron franco, che partir la sente,
Gli occhi disciolse a sé subitamente.


3)        Giovane nudo con in mano un ramo d’ulivo che dona a una donna seduta in trono o Allegoria della pace  (cat. Pall. n. 39)

Prasildo per poter uscire dalla Porta della Ricchezza deve donare una parte del ramo d’oro alla Ricchezza, vicino alla quale è seduta Avarizia, che tiene in mano una chiave.

40.
Qinci andò al tronco, poi che era fuggita
Quella Medusa, falsa incantatrice,
Che, de la sua figura sbigotita,
Avea lasciata la ricca radice.
Prasildo un’alta rama ebbe rapita,
E smontò in fretta, e ben si tien felice;
Venne alla porta che guarda Ricchezza,
Che non cura virtute o gentilezza.
41.
Tutta de calamita era la entrata,
Né senza gran romor se puote aprire.
Il più del tempo si vede serrata:
Fraude e Fatica a quella fa venire.
Pur se ritrova aperta alcuna fiata,
Ma con molta ventura convien gire.
Prasildo la trovò quel giorno aperta,
Perché de mezo il ramo fece offerta.


4)        Paesaggio con pellegrino in cammino con un ramo (inv. n. 600; cat. Pall. n. 58)

Prasildo fa ritorno a Babilonia, portando con sé il ramo d’oro, da consegnare a Tisbina.

42.
De qui partito torna a caminare;
Or pensa, cavallier, se egli è contento,
Che mai non vede l’ora de arrivare
In Babilonia, e parli un giorno cento.
Passa per Nubia, per tempo avanzare,
E varcò il mar de Arabia con bon vento;
Sì giorno e notte con fretta camina,
Che a Babilonia gionse una matina.

 

 

 


5)        Coppia sotto l’alcova (inv. n. 583; cat. Pall. n. 59)

Iroldo e Tisbina. I due amanti decidono di morire assieme, bevendo da una coppa il veleno, così da sfuggire alla promessa di Tisbina di andare in moglie a Prasildo se costui avesse superato la prova.

59.
E poi che per mitade ebbe sorbito
Sicuramente il succo venenoso,
A Tisbina lo porse sbigotito.
Lui non è di sua morte pauroso
Ma non ardisce a lei far quello invito;
Però, volgendo il viso lacrimoso,
Mirando a terra, la coppa gli porse,
E de morire alora stette in forse,

 

 


6)        Due personaggi a colloquio, sfondo di paesaggio e castello(inv. n. 599; cat. Pall. n. 57)

Probabilmente raffigura la cameriera di Tisbina che ottiene il veleno dal vecchio medico.
Questo è il frammento peggio conservato, ma si possono identificare un vecchio con un lungo abito e la testa di una donna.

83.
E ciò te dico, perché stamatina
Me fo veneno occulto dimandato
Per una cameriera de Tisbina.
Or poco avanti me fu racontato
Che qua ne venne a te la mala spina.
Io tutto il fatto ho bene indivinato;
Per te lo tolse, e tu da lei ti guarda:
Lasciale tutte, che il mal fuoco l’arda.

 

 


Il Ramo d’Oro

Il tema del “Ramo d’Oro” pare essere stato molto importante per i Boiardo e per Nicolò Dell’Abate. Nel Canto VI dell’Eneide, raffigurato nel Camerino, si vede infatti in primo piano la stessa vicenda, nella versione originale narrata da Virgilio. La porta degli inferi, alla quale è di guardia Cerbero, ha addirittura la stessa forma ed è caratterizzata dagli stessi grossi blocchi di pietra di quella del Giardino di Medusa nella scena dell’Orlando Innamorato.

Enea, in questa più conosciuta e classica versione, per raggiungere il padre morto deve attraversare l’entrata di una grotta per entrare nel Tartaro, una oscura selva dove si trova la palude Stigia e scorre il fiume Acheronte. Per riuscire nell’impresa dovrà prima cogliere il Ramo d’Oro, consacrato a Giunone, per offrirlo a Proserpina, spaventosa divinità degli inferi. Enea guidato da due colombe trova il Ramo d’Oro e, grazie a questo “talismano”, riesce a superare diverse prove, tra cui affrontare le Gorgoni, incontrare le anime dei morti, attraversare lo Stige e passare la Porta dell’Averno custodita da Cerbero, fino a raggiungere il padre.

La versione del Ramo d’Oro raccontata da Matteo Maria Boiardo nell’Orlando Innamorato sembra invece di tutt’altra fattura. I nomi dei personaggi vengono reinventati, i ruoli cambiati e mescolati con altri provenienti da diverse leggende, i temi mitologici e alchemici vengono usati come semplici elementi favolistici, letterari, senza più alcun rapporto con gli esoterici temi originali.

L’antropologo James Frazer ha intitolato Il Ramo d’Oro il suo famoso studio sui riti magici e religiosi, e un capitolo è dedicato proprio a questo episodio virgiliano [29] . Il Ramo d’Oro è stato inoltre raffigurato in moltissime opere ermetiche, come simbolo della riuscita della “Grande Opera” alchemica. L’illustrazione più famosa è la miniatura contenuta nello Splendor Solis del misterioso Salomon Trimosin (sec. XVI), che raffigura Julio Ascanio, il figlio di Enea, vestito di nero, che si arrampica con una scala sull’Albero Filosofico a raccogliere il Ramo d’Oro per portarlo al padre, vestito di rosso. Il nero rappresenta l’inizio dell’Opera, mentre il rosso il suo compimento, infatti il Ramo d’Oro dovrà proteggere Enea nel corso del suo viaggio attraverso la decomposizione e il fuoco purificatore degli inferi.

L’episodio del Ramo d’Oro fu alla base della fama di “mago” che ammantò Virgilio nel medioevo, e costituisce il modello della stessa Divina Commedia, in cui il poeta latino diventa la guida di Dante nella discesa all’inferno. Nell’Eneide infatti l’eroe troiano riesce ad attraversare da vivo il regno dei morti, penetrando fin nelle viscere della terra, e ad uscirne infine sempre protetto dal Ramo d’Oro, stretto parente della verga aurea di Hermes. E la “rigenerazione” regale conquistata da Enea porterà benefici anche sulla sua dinastia, il futuro ceppo originario della gens Julia, la stirpe fondatrice di Roma secondo la tradizione latina; il cerchio così si chiude: l’immortalità promana dunque sin nel mondo sensibile ove si perpetua per generazioni [30] .

Non bisogna dimenticare a questo proposito che il conte di Scandiano che fa realizzare i cicli di affreschi ispirati all’Eneide e al Ramo d’Oro si chiama Giulio e che suo nonno, lo zio di Matteo Maria, si chiamava come il figlio di Enea, Giulio Ascanio [31] . Giulia si chiamava anche la sorella di quest’ultimo (madre di Pico della Mirandola), e Giulia Gambara era la madre di Giulio Boiardo. Forse non è troppo azzardato supporre che, così come molte altre potenti famiglie (gli Estensi affermavano di discendere, attraverso Ruggiero, da Astianatte figlio di Ettore di Troia, i Massimo dalla gens Fabia), anche i Boiardo cercassero di nobilitare le proprie origini collegando la propria storia a quella delle più antiche stirpi romane.

Storie di donne romane

Se il soggetto della prima serie di affreschi conferma la possibilità che gli stessi facessero parte delle vicende dell’Orlando Innamorato dipinte da Nicolò Dell’Abate probabilmente sulle pareti del cortile, la seconda serie di piccoli monocromi non trova riferimenti tra le storie narrate da Matteo Maria Boiardo nel suo poema. I soggetti a prima vista parevano far parte di un unico racconto, come quelli precedenti, ma a un esame più approfondito appare chiaro che la donna protagonista delle varie scene non è la stessa, e così anche gli altri personaggi di contorno.

Le piccole dimensioni dei dipinti li fanno immaginare come facenti parte di un fregio, probabilmente di una camera dell’appartamento dei Boiardo, e i temi femminili li collegano a quella della contessa Silvia Sanvitale, moglie di Giulio Boiardo. Molti appartamenti muliebri dell’epoca vengono decorati con vicende edificanti di donne virtuose, e così poteva trattarsi anche in questo caso. L’esame delle scene e dei personaggi rivela che si tratta in effetti di “storie romane” e in particolare, storie di donne esemplari.


1)        Incontro di un guerriero e di una donna (inv. n. 2734; cat. Pall. n. 53)

Coriolano, costretto all’esilio dai patrizi romani si mette alla guida dei Volsci e si dirige verso Roma per dare battaglia. Diversi tentativi di dissuaderlo dall’attaccare Roma non hanno esito, così il senato concede alla madre di lui, Veturia, di uscire dalla città per incontrarlo nell’accampamento dei Volsci per provare a fermarlo. A lei si uniscono la moglie di Coriolano, Volumnia, con i figli e un gruppo di matrone romane. La madre affronta il figlio guerriero e lo convince a non combattere contro la propria patria, ma Coriolano, ritenuto a questo punto un traditore dai Volsci, viene ucciso [32] .


2)        Donna che sviene (inv. n. 593; cat. Pall. n. 51.)

Giulia, figlia di Giulio Cesare e moglie di Pompeo, sviene alla vista degli abiti insanguinati del marito. Secondo una fonte il sangue era di un dimostrante ferito in tumulti di piazza, legati alla elezione degli edili [33] . Secondo una diversa versione, Pompeo sacrificando un animale agli dei inavvertitamente si sporca di sangue e incarica i servi di portare i vestiti a casa. Quest’ultima versione appare come una ulteriore variante della favola di Piramo e Tisbe.


3)        L’offerta (inv. n. 2734; cat. Pall. n. 52)

La vestale Tuccia, ingiustamente accusata di aver mancato al voto di castità, chiede la protezione della dea Vesta affinchè l’aiuti a superare la prova imposta per dimostrare la propria innocenza: portare al Tempio l’acqua del Tevere raccogliendola con un setaccio [34] . Il tema è legato ai concetti della virtù femminile (e come tale è stato a volte scelto per decorare cassoni nuziali) e più genericamente a quello della giustizia.


4)        Il sacrificio (inv. n. 2764; cat. Pall. n. 54)

La vestale Emilia che custodisce il fuoco sacro nel tempio di Vesta, lo affida a una giovane e inesperta novizia, che lo lascia spegnare. Una colpa del genere veniva punita con la morte, ma Emilia si rivolge alla dea chiedendo perdono. Dopo la preghiera strappa un lembo della propria veste e lo getta sulla cenere ormai fredda, e in quel momento una grande fiamma divampa, facendo intendere che la dea non la ritiene colpevole [35] . Secondo altre versioni della storia [36] è la giovane vestale a chiamarsi Emilia, ma il verdetto è di condanna [37] .

Storie esemplari di questo genere sono narrate in molti libri di autori dell’antichità, da Tito Livio a Plinio, da Dionigi d’Alicarnasso a Plutarco; in particolare tutte le quattro storie compaiono in Factorum et Dictorum Memorabilia di Valerio Massimo [38] , uno scrittore romano del primo secolo, ma è poco probabile che l’autore degli affreschi si sia ispirato direttamente a quel testo, infatti nei dipinti sono raffigurati molti personaggi che sembrano avere un ruolo nella vicenda, ma che non compaiono nelle brevi narrazioni, a volte di poche righe, dell’autore latino. Più dettagliate sono le stesse vicende narrate da Dionigi d’Alicarnasso, ma nelle cronache di questo autore manca quella relativa a Giulia.

È probabile quindi che le stesse storie siano state narrate anche in racconti di epoca più tarda, probabilmente in versioni ampliate. Un autore che ha scritto storie di donne famose è Giovanni Boccaccio, in De claris mulieribus [39] , ma in questo testo troviamo, delle quattro scene, solo quelle relative a Veturia e Giulia.

Lo strappo degli affreschi

Recenti studi hanno documentato l’attività di Antonio Boccolari, docente presso l’Accademia modenese e attivo come restauratore nei primi anni del diciannovesimo secolo, che avrebbe effettuato il distacco di molti affreschi dalla Rocca di Scandiano nei primi anni del XIX secolo [40] . Dai documenti dell’Archivio Boccolari [41] risulta in particolare che dalla parete nord del cortile e dall’interno dell’ala est, sopra le finestre che guardano nello stesso cortile, nel 1804 vengono staccati da questo “restauratore”, grazie a una particolare tecnica da lui ideata, alcuni frammenti di affreschi che apparivano tra i meglio conservati.

Da Scandiano nel Maggio del 1804, Boccolari scrive che «finalmente, dopo molte inutili ricerche per ritrovare un qualche dipinto in muro per tentare di levarlo, e così maggiormente assicurarmi delle sperienze da me fatte, mi sono portato a Scandiano, e visitatane attentamente il Palazzo, tra qualche ruina di pitture ho ritrovato un qualche pezzolo sul quale mi sembra che il tentar di levarlo non fosse per riuscire vano». Boccolari prosegue dicendo che «tutte le migliori pitture di Nicolò dell’Abate che vi ritrovansi furon depositate a Modena e a Sassuolo, di modo che ora non vi sono che pezzi sconnessi, rovinati, che non potranno giammai servire a cosa alcuna» e chiede alle autorità competenti di poter effettuare il distacco di alcuni di questi frammenti rimasti. Nel giugno dello stesso anno il Prefetto del Dipartimento del Crostolo approva la proposta così che il 3 luglio Boccolari si può recare all’interno della rocca, per un esame più approfondito di questi affreschi rimasti, assieme ad alcune altre persone incaricate dal Municipio di Scandiano, tra le quali figura un notaio che compila una dichiarazione ufficiale.

Secondo quest’ultimo documento «nel piano superiore di essa rocca, nel fabbricato posto a levante e che guarda con due finestre a ponente, nella corte predetta,[…] ad indicazione del cittadino Boccolari si osservarono nel fregio superiore della camera in giorno senza soffitto e ridotta ad uso di granaio, alcune testine dipinte da Niccolò Abbate e diversi altri ornati opera dei di lui scolari, di colore quasi perduto affatto e per la massima parte resi imperfetti dalle intemperie e dalla stagione e dai patimenti notabili causati dall’incuria dei muratori fabbricantivi sopra e che hanno lasciata cadere a grande la calcina sui dipinti stessi» [42] . Successivamente le stesse persone passano a osservare gli affreschi rimasti nella parete nord del cortile, già citati in precedenza. Il giorno 11 dello stesso mese il lavoro di distacco è compiuto e questo risulta essere stato eseguito «senza che il menomo decolorimento di alterazione dei colori e della pittura». È possibile che tra gli affreschi staccati in quell’occasione ci fossero anche quelli che raffigurano le Scene di storia romana  e l’episodio dell’Orlando Innamorato, ma purtroppo nessun documento finora ritrovato ha fornito le descrizioni di questi soggetti. Non si ha notizia nemmeno del luogo dove gli affreschi vengono trasferiti, ma si può presumere come destinazione la stessa Accademia di Belle Arti di Modena, presso la quale Boccolari aveva allestito un personale laboratorio di restauro.

http://xoomer.virgilio.it/dicuoghi/scandiano/Donne_Cavalieri.htm

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