Shostakovich: Symphony No. 5 – Haitink ; Le sinfonie di Shostakovich (I): nell’interpretazione di Bernard Haitink

Le sinfonie di Shostakovich (I): nell’interpretazione di Bernard Haitink

Mentre inizio a scrivere questa recensione, sono passati quasi esattamente venticinque anni da quando sedevo sotto le stelle del Massachusetts ascoltando un concerto a Tanglewood diretto da Mstislav Rostropovich. Mentre la prima metà del concerto si avviava alla conclusione, il soprano Galina Vishnevskaya, avendo cantato la scena del Lettore di Tatiana dall’opera di Ciaikovsky Eugene Onegin, tornò sul palco per eseguire un bis, un’aria profondamente slava, lamentosa da La Sposa dello Zar di Rimsky-Korsakov, che lei cantò senza accompagnamento, quasi immobile, con le braccia strette al petto. C’era senz’altro qualcosa di sbagliato, ma fu soltanto dopo questo brano che il direttore musicale della Boston Symphony, Seiji Ozawa, apparve sul palcoscenico per informarci che Rostropovich aveva ricevuto una telefonata nel primo pomeriggio che lo informava della morte del suo caro amico e collega Dmitri Shostakovich. Rostropovich riuscì in qualche modo a dirigere un’intensa performance della Quinta Sinfonia di Shostakovich, subito dopo baciò lo spartito e vi depose sopra un mazzo di rose che qualcuno gli aveva portato. Questa riedizione, nella serie «Ovation» della Decca, dell’intero ciclo sinfonico di Shostakovich diretto da Bernard Haitink è un ottimo ricordo del compositore, perché alcune delle performance dirette da Haitink, a cominciare dalla Decima Sinfonia nel 1977, sono tra le migliori mai registrate. Benché mi sia incrdibilmente entusiasmato, nel numero di Luglio 1978 diHigh Fìdelity, per l’originale stampa su LP della decima diretta da Haitink, negli anni sono riuscito a perdermi, per una ragione o per l’altra, molte delle altre uscite di questo ciclo, dunque molte delle valutazioni sinfonia-per-sinfonia che seguono rappresentano per il sottoscritto dei primi ascolti.
Sinfonia n. 1 in Fa minore, Op.10
Composta tra il 1924 e il 1925, e presentata come composizione di laurea del compositore presso il Conservatorio di San Pietroburgo, la Prima Sinfonia, a cui si deve la reputazione di Shostakovich fin dalla prima nel 1926, è un bizzarro ibrido che combina affilato umorismo, economia di mezzi neoclassica e, in qualche modo, più di un tocco di profonda anima slava che occasionalmente suscita emozioni pur se leggermente fuori posto nella composizione. Non si riesce mai a capire bene dove Shostakovich voglia andare a parare con questo lavoro; il compositore, più di una volta, dà l’impressione di voler far mancare il pavimento sotto i piedi dell’ascoltatore, in modo più smaccato nello scherzo del secondo movimento, in cui l’intera orchestra improvvisamente si mette da parte per permettere al solo pianoforte di suonare gli accordi più importanti di quel movimento. Strutturalmente, comunque, la Prima offre anche un assaggio di molte delle sinfonie successive, per esempio nel modo in cui Shostakovich utilizza una forma allegro-sonata specchiata nel primo movimento, con il secondo tema che appare per primo nella ricapitolazione. Pure tipico di Shostakovich è il modo in cui un motivetto ribelle che è diventato la figura centrale dei terzo movimento, di gran lunga il più lirico dei quattro che compongono la sinfonia, riappare dal nulla in un assolo di timpano (prepotentemente presente in questa registrazione) appena prima che il movimento finale arrivi alla conclusione. Inoltre Shostakovich passa, senza battere ciglio, da tessiture monofoniche piuttosto semplici a momenti di complesso contrappunto degni di Hindemith. Le interpretazioni della Prima Sinfonia vanno dall’aggressività diretta di direttori quali Arthur Rodzinski (in particolare) e Leonard Bernstein alla raffinatezza più smorzata di direttori quali Eugene Ormandy. Non inaspettatamente, Haitink ricade chiaramente nella seconda categoria, ed il suo approccio funziona particolarmente bene nel primo movimento, al quale egli impartisce una certa eleganza che tuttavia non ignora l’ironia dei movimento. Nel terzo movimento, in cui la musica non si allontana mai da un potente climax, Haitink dimostra una notevole abilità, così come in tutto il ciclo sinfonico, nel definire i pieni in perfetta proporzione al resto della musica. D’altra parte, avrei gradito una maggiore presenza del pianoforte solista, un elemento principale dello spirito di Shostakovich, nel secondo e quarto movimento. E nel quarto movimento, Haitink pare perdere un po’ di interesse fino all’assolo di timpano. Il suono è meravigliosamente pulito, spazioso e ben definito benché, ancora una volta, certi strumenti solisti chiave – non solo il pianoforte, ma anche le campane in un passaggio chiave nel terzo movimento – potrebbero essere maggiormente evidenziate.
Sinfonia n.2 in Si (una specie), Op. 14 («All’Ottobre: una Dedica Sinfonica»)
Scritta come pezzo contestuale e presentata nel Novembre 1927 da Nikolai Malko, che aveva diretto anche la prima della Prima Sinfonia, la Seconda Sinfonia è veramente uno strano lavoro di puro modernismo quantomeno, fino al suo patriottico finale corale, che dovrebbe essere preceduto da un fischio da fabbrica in Fa diesis. I primi dodici-tredici minuti di questa sinfonia in un solo movimento (con parecchie sezioni tipo movimenti) non hanno assolutamente alcuna base tonale, ancorati come sono ad intricate ed ingarbugliate poliritmie, politonalità cromaticamente generate e contrappunto stratificato. La musica riesce a generare un considerevole impeto e, forse a dispetto di se stessa, un certo tasso di drammaticità, particolarmente quando Shostakovich sovrappone più linee strumentali non legate tra loro mentre la sinfonia corre inesorabilmente verso un punto di massima densità prima di collassare in un grande buco nero che inizia con un canone cromatico decrescente in cui gli strumenti entrano a intervalli di sedicesima. Roba divertente, dal punto di vista intellettuale, ma questo lato sperimentale dello spirito creativo di Shostakovich funziona in modo molto più efficace nella sua prima opera, Il Naso, completato l’anno seguente. Il finale corale è abbastanza attraente, e certamente non si abbassa al livello della trita politica del testo cantato, che deve aver fatto impazzire Shostakovich. Egli presenta anche in questa sinfonia, particolarmente nella sezione corale, un tema apparentemente ispirato, se questa è la parola più adatta, dal vedere un giovane ucciso da un colpo di fucile per strada, che egli riprenderà nel finale della sua Dodicesima Sinfonia. Ascoltate attentamente la fine della parte strumentale della sinfonia e sentirete qualcosa che sembra proprio un frammento usato in seguito nel finale della Quinta Sinfonia. Haitink si trova eccezionalmente a suo agio nella parte precorsale di questa «Dedica all’Ottobre». La sua abilità nel delineare e chiarire le tessiture strumentali non sarà mai usata meglio che in questa composizione. In più, Haitink rende in effetti la lenta, stranamente meditativa sezione che segue tutta la presentazione orchestrale e precede l’arrivo del coro un po’ meno tetra e più interessante che nella maggior parte delle altre versioni. D’altra parte, egli non sembra proprio essere stato capace di trovare la giusta ispirazione per la musica corale, che arranca abbastanza malamente sotto la sua direzione. E sarei, ad un certo punto, tentato di dire al coro tutto inglese: «siete teneri quando cercate di sembrare socialisti». Il suono è espansivo ma, per i miei gusti, un po’ carente nell’estremo acuto.
Sinfonia n.3 in Mi bernolle (una specie), Op.20 («Primo Maggio»)
L’Op.20 di Shostakovich, cmpletata nel 1929 e presentata nel Gennaio dei 1930, è difficile da immaginare. E’ quasi come se il compositore si fosse azzardato a comporre una sinfonia in cui non un singolo tema, motivo o frammento, con forse una o due piccole eccezioni, si ripresenta una volta fatta la sua normalmente fugace apparizione. Tanto breve è infatti la vita della maggior parte di questi frammenti, quanto caleidoscopica è la loro organizzazione e proteiforme la loro natura, che sia ha quasi l’impressione che Shostakovich stesse scrivendo musica per un immaginario film muto. Come la Seconda Sinfonia, la Terza termina con un pezzo di patriottismo corale. Diversamente dalla seconda, comunque, la musica orchestrale – che si divide in effetti in una introduzione, tre quasi-movimenti ed una coda in largo – che precede il finale corale è molto più sostanziale (circa ventisei minuti, rispetto ai tredici della Seconda), ma anche molto meno sperimentale, anche se sempre modernista. In effetti, quasi qualunque nota disparata delle due sezioni in allegro della sinfonia preconizzano lo Shostakovich che avremmo poi conosciuto ed imparato ad amare (lo stesso non si può dire della più selvaggia Seconda), ma in un modo talmente disordinato che è difficile essere rapiti dalla corrente. Cosa interessante, nel breve andante che separa i due allegri, Shostakovich si rifà ad un compositore – Gustav Mahier – al quale era stato presentato dal suo caro amico Ivan Sollertinsky. Ma, se perdonate l’ossimoro, è un Mahler ribelle, difficile, come qualunque altra cosa nella sinfonia, da afferrare. Nessun direttore che io abbia sentito, comunque, offre una lettura migliore della Terza Sinfonia di Bernard Haitink. Benché si accosti alla musica sul suo territorio, Haitink ciononostante sembra anche lavorare su modelli forniti dalle ultime sinfonie, qualcosa di quella intensa, drammatica continuità che caratterizza gli ultimi lavori. L’andante centrale è quasi impossibile da tenere insieme, ma Haitink ed i suoi musicisti ne danno una lettura credibile. Il finale corale, d’altra parte, ribolle di un’energia ed un entusiasmo che probabilmente non merita, benché sia composto di materiale musicalmente più solido che non il finale della Seconda. Il suono, sia quello reso dallo squisito senso di equilibrio strumentale di Haitink, sia quello catturato dagli ingegneri, è quasi perfetto. Sarebbe bello, naturalmente, che la RCA/BMG/chicchessia rimasterizzasse la pionieristica – e superba – registrazione di Morton Gould della Seconda e Terza Sinfonia, l’ingresso attraverso il quale sono entrato nel mondo della critica musicale.
Sinfonia n.4 in Do minore, Op.43
La Quarta di Shostakovich (1935-36), che segna un importante punto di svolta nella sua carriera di sinfonista, venne provata proprio nel periodo in cui Stalin provocò il finimondo con la sua reazione negativa alla seconda opera dei compositore, Lady Macbeth del Distretto di Mtseng, conosciuta anche come Katerina Izmailova. Di conseguenza Shostakovich, decidendo che la discrezione era il modo migliore per aver salva la vita, ritirò dalla circolazione la lunga, complessa, spesso estremamente dissonante e altrettanto spesso arguta sinfonia, che non venne eseguita fino al Dicembre 1961, molto dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953. Con la Quarta Sinfonia, Shostakovich entrò con spirito vendicativo in un regno musicale che aveva assaggiato nella sua Prima Sinfonia e che aveva provato, senza grande successo, a reinventare nella Seconda e Terza. Nei tre movimenti della Quarta Sinfonia, che dura più di un’ora, Shostakovich mette in moto l’intero organico di una grande orchestra sinfonica con tale destrezza e virtuosismo che si sarebbe giustificati nel definire il lavoro un concerto per orchestra. Si noti, in particolare, l’abbagliante toccata per archi che funge da pezzo centrale per il primo movimento. Il lussuoso suono orchestrale con le sue tessiture comunque chiaramente definite preconizzano senza dubbio i successivi capolavori, mentre la struttura è quasi assente. In effetti, il finale passa da episodio ad episodio in un modo che richiama la Terza Sinfonia, ma molto più a grandi linee. Analogamente, il primo movimento sembra tematicamente vago – cioè: finché non lo si analizza da vicino e si scopre che rivela un forma allegro-sonata specchiata incredibilmente complessa. Piena di scroscianti pieni, la Quarta Sinfonia sprofonda anche, in più di un’occasione, nei miasmi della depressione, mai più profondamente che nelle estese misure finali in pianissimo, in cui una figura ossessivamente ripetitiva della celesta pare porre una domanda a cui non viene mai data risposta. A collegare i due massicci movimenti esterni è un breve scherzo mahleriano che si conclude in una specie di grottesca convulsione di morte. Non ero propriamente entusiasta della Quarta di Shostakovich diretta da Haitink nel 1979, quando ne ho recensito l’LP, rimango tutt’ora meno che affascinato da questa performance oggi. Anche se il direttore ottiene una ottima esecuzione dalla London Philharmonic (quali che siano i limiti degli archi, non mi danno fastidio questa volta, forse sto diventando po’ blasé), particolarmente ottoni, egli raramente dà
l’impressione di essere terribilmente coinvolto emotivamente da questa musica che, se non altro, mostra una sovrabbondanza di drammaticità. Come sempre, Haitink mette meravigliosamente a nudo la filigrana degli spazi strumentali di Shostakovich, ed impartisce una solida coesione ai disparati – talvolta alla frammentazione – blocchi musicali della sinfonia. Ma le mie interpretazioni preferite rimangono le due iniziali, quella a lungo irreperibile di Kiril Kondrashin con la Moskow Philharmonic del 1962 e la sontuosa lettura di Eugene Ormandy con la Philadelphia Orchestra del 1964. Tra le versioni più recenti, Vladimir Ashkenazy e la Royal Philharmonic offrono un solido resoconto della musica, e c’è una registrazione live veramente eccellente della Supraphon diretta dal figlio dei compositore, Maxim, con la Prague Symphony Orchestra.
Sinfonia n.5 in Re minore, Op.47
Se, dopo la debole della Lady Macbeth ed il ritiro della Quarta Sinfonia, Shostakovich sentì la necessità di placare i potenti, è difficile rendersi conto di come egli potesse pensare di farlo con la Quinta Sinfonia, che completò nel 1937. Voglio dire, se fossi stato nei suoi panni avrei scritto un’opera colma di motivi popolari e citazioni riguardo la vita ed il periodo del Camerata Stalin. Benché i critici occidentali abbiano considerato per molti anni la Quinta Sinfonia il punto di svolta in una carriera che, nei loro giudizi di parte, era imbrigliata dalla pressione politica, e benché la Quinta Sinfonia riabilitasse in effetti Shostakovich in patria, l’opera, a parte il finale, è appena meno scura della precedente. E, benché basata sulla tonalità (come la Quarta), la Quinta Sinfonia possiede certamente la sua parte di dissonanze, audacia strumentale ed ironia. Si potrebbe anche dire che la Quinta sia la prima di una serie di sinfonie tragiche che avrebbe accompagnato il resto della vita di Shostakovich, in particolare la Sesta, l’Ottava, la Decima, la Tredicesima, la Quattordicesima e, in misura minore, la Quindicesima. La Quinta è, infatti, l’espressione assolutamente logica di tendenze già piuttosto evidenti in molte opere dei compositore, che si tratti della ricca scrittura strumentale della Lady Macbeth e della Quarta Sinfonia o le economie formali neoclassiche della Prima Sinfonia. Spariscono, d’altra parte, gli azzardi tipo fantasia della Seconda e Terza Sinfonia (ma non si tratta di gravi perdite), ed il finale della Quarta. La più grande concessione di Shostakovich, se mai egli ne abbia mai fatte, non fu certo l’abbandono di qualunque altro tentativo di comporre grandi opere drammatiche – balletti e opere in particolare, i quali entrambi lo avevano messo in posizioni difficili – e nel ridefinire il suo ruolo verso quello di compositore di lavori classici secondo i canoni standard: sinfonie, concerti, quartetti d’archi, sonate, ecc., per non citare un’impressionante collana di cicli di canzoni, ed una collana molto meno degna di nota, dopo il suo brillante lavoro per il film muto La Nuova Babi~ Ionib (1928), di colone sonore (fino ad Amleto dei 1964, comunque). A rischio di un’iperbole, vorrei dire che quella di Haitink è l’ideale Quinta di Shostakovich. Tutto pare essere esattamente al proprio posto nella sua interpretazione – tra cui la gloriosa interpretazione della Concertgebouw Orchestra ed il suono ricco, spazioso, stupendamente definito – talmente definito, infatti, che è così che immagino che Shostakovich avrebbe pensato la sua sinfonia. Haitink non corre il rischio preso da altri suoi colleghi – l’affrettato ritmo dei finale di Bernstein, l’impeto da treno dello scherzo di Rodzinski, il finale massicciamente ampio di Maxim Shostakovich. Ma neanche il direttore arretra dinanzi alla drammaticità spesso esasperata del lavoro. Ci sono, infatti, Quinte di Shostakovich che iniziano in modo così fiacco che il resto della performance si perde per strada. Haitink e gli archi della Concertgebouw procedono con la positività di quelle frastagliate battute di apertura e non abbandonano mai la bandiera dell’intensità, anche nei momenti più sotto voce del lavoro, presenti in numero rilevante. Infatti, un altro punto di forza dell’interpretazione di Haitink – un punto di forza aiutato ed esaltato dal suono del CD – è il modo in cui egli è capace di abbassare il livello della musica ad un bisbiglio quasi inaudibile pur mantenendo il fluire. Se vi serve solo la Quinta di Shostakovich, questa è quella che fa per voi.
Sinfonia n.6 in Si minore, Op.54
Dal mio punto di vista, la Sesta Sinfonia del 1939 di Shostakovich, uno dei massimi capolavori della letteratura sinfonica del ventesimo secolo, rimane una specie di enigma. Composta al termine di un periodo ragionevolmente calmo che vide scarsa attività creativa di rilievo a parte la scrittura di un quartetto d’archi (il primo di quello che sarebbe diventato un importante ciclo di quindici) e la nascita del suo secondo figlio Maxim, la Sesta è programmata nelle sale da concerto molto meno spesso della maggior parte delle altre sinfonie, tra cui lavori di minore spessore, e molte delle registrazioni attualmente disponibili di essa – tra cui quelle di Boult, Mravinsky, Reiner e Stokowski classificate come storiche… o quasi. Inizialmente promessa come una sinfonia ‘Lenin’ completa di coro e solisti (Shostakovich lanciava continuamente bocconcini ai commissari politici), la Sesta interamente strumentale finì per essere forse il più convincente dei primi tentativi di ridefinizione della sinfonia effettuati da Shostakovich. L’opera inizia, abbastanza non convenzionalmente, con uno scuro ed esteso largo (dura parecchi minuti in più dei due movimenti finali combinati) che lentamente vaga attraverso la tenebrosa e, spesso, estrema silenziosità di parecchi gruppi di temi sviluppati in un modo che ha poco o niente a che fare con la convenzionale forma allegro-sonata che serve come canovaccio per la maggior parte dei primi movimenti sinfonici. Il seguente, agilissimo scherzo, che ancora non mobilizza realmente la forma standard (forma canzone e trio) usata per tali movimenti, inizia con un’innocenza quasi fanciullesca. Mentre procede attraverso ogni sorta di argute ironie, comunque, il movimento acquisisce un impeto così straripante che potrebbe in certi punti essere definito inquietante. Il finale in qualche modo affrettato, d’altra parte, passa dall’acerba ironia dello scherzo a elevati motti di spirito talvolta maniacali, con più di un cenno di sarcasmo, in una corsa a perdifiato che crea uno dei suoi principali temi attorno alle battute di apertura del finale della Quarantesima Sinfonia di Mozart. Ho sempre colto qualcosa di particolarmente ingegnoso nel modo in cui Shostakovich ha strutturato la Sesta Sinfonia, permettendo all’ascoltatore di inerpicarsi lentamente fuori dall’oscurità del primo movimento per raggiungere infine la giocosità del finale pur non dimenticando mai interamente l’oscurità iniziale. Solo un po’ di distacco dagli umori e dall’ironia dei tre movimenti della sinfonia impediscono alla Sesta di Shostakovich diretta da Haitink di eguagliare la Quinta in eccellenza. Amo in particolar modo il suono degli archi della Concertgebouw Orchestra, che definiscono uno spazio musicale ben più che palpabile nel primo movimento. Come sempre, Haitink mantiene anche gli elementi orizzontale e verticale della musica in perfetto equilibrio, benché lo xilofono, un elemento particolarmente importante dell’ironia dello scherzo, sia tutt’altro che sepolto nella massa dei suono orchestrale. La mia versione preferita della Sesta di Shostakovich è rimasta per un certo tempo la registrazione del 1958, rimasterizzata su un CD Everest ancora disponibile l’ultima volta che ho controllato, con Sir Adrian Boult alla direzione della London Philharmonic. Boult impiega due minuti buoni in più per il primo movimento rispetto a qualunque altro direttore che io conosca, e poi lacrima nello scherzo come se non ci fosse un domani. Ma anche se ciò priva in parte la sinfonia dell’equilibrio che Shostakovich aveva probabilmente in mente, per me la cosa funzionava brillantemente, con Boult che si avventurava in acque molto più profonde, nel primo movimento, di chiunque altro prima o dopo di lui. E la Everest non fa rimpiangere nulla, per la qualità sonora, di incisioni prodotte più di trent’anni dopo. Un’altra eccellente performance è quella diretta da Paavo Berglund con la Bournemouth Symphony in un cofanetto EMI di due CD che contiene molte altre golosità, tra cui un resoconto della Undicesima che vi lascerà senza fiato in alcuni passaggi.
Sinfonia n.7 in Do, Op.60 («Leningrado»)
La Settima Sinfonia, la più lunga di Shostakovich, è diventata una leggenda musicale del ventesimo secolo. Iniziando la sua nuova sinfonia nel Luglio 1941, mentre i nazisti preparavano il devastante assedio della città natale del compositore, rinominata Leningrado, in cui molti sarebbero morti di fame dopo che anche i cani ed i gatti erano fuggiti, Shostakovich lavorò al pezzo quasi letteralmente senza interruzione, al punto di portare il manoscritto con sé sul tetto del Conservatorio di S.Pietroburgo (Leningrado) mentre serviva presso una batteria della milizia territoriale. In seguito sfollato, nonostante le sue proteste, da Leningrado, Shostakovich completò il suo lavoro sulla Settima mentre veniva trasferito continuamente da una residenza all’altra. Presentata nel Marzo 1942, la Sinfonia «Leningrado» attirò una tale attenzione da tutto il mondo che venne contrabbandata fuori dall’URSS su microfilm per performance in varie nazioni occidentali, tra cui gli Stati Uniti, in cui la NBC ottenne i diritti per la prima per Arturo Toscanini, la cui prima trasmessa alla radio è attualmente disponibile come Volume 22 della «Toscanini Collection» della RCA. Musicalmente, una rilevante porzione della notorietà della Settima Sinfonia deriva dal primo movimento, in cui Shostakovich sostituì la normale sezione di sviluppo con un crescendo stile Bolero in cui una banale canzone da taverna tedesca viene trasformata, ripetizione dopo ripetizione, strumento aggiunto dopo strumento aggiunto, in un massiccio ciclone in forma di marcia con ovvie implicazioni programmatiche, benché Shostakovich insistesse sempre sulla «impossibilità di un collegamento letterale tra la musica e qualunque tema specifico», per usare le parole di Laurel Fay in Shostakovich: Una Vita. Nel contesto della situazione bellica l’impatto drammatico di questa musica deve essere stato notevole. Sessant’anni dopo è difficile porsi nel mezzo di quel ciclone senza esserne esasperati, come accade, in effetti, anche con gli altri movimenti della sinfonia. C’è del materiale stupendo, tra cui il tema di base dell’ansioso secondo movimento dall’aspetto di un intermezzo, o il breve scoppio, nel finale, di un episodio degli archi, completo di pizzicati in 7/4. E c’è ben poco di più commovente, nella musica di Shostakovich, del ritorno, verso la fine dei primo movimento, del tema di apertura della sinfonia. Ma per la maggior parte la musica rumoreggia, portandomi a concludere, dopo aver ascoltato la Leningrado (forse per la centesima volta) per questa recensione, che Shostakovich, anche nelle sue più ampie costruzioni sinfoniche, aveva bisogno di un qualche tipo di costrizione formale, molto poco evidente nella Settima. Sotto ogni aspetto, la Settima è il meno convincente degli sforzi di Haitink. Già dall’inizio, quando gli ottoni che rispondono all’esposizione iniziale del tema principale da parte degli archi vengono sommersi nello sfondo, l’incapacità del direttore di penetrare la superficie del terribile dramma esacerba la prolissità della musica. Inoltre, il suono di questa registrazione è più evidentemente digitale di quello della maggior parte delle altre sinfonie, con i cori degli ottoni che, una volta isolati, diventano particolarmente sottili. La mia registrazione in assoluto preferita della Leningrado è quella di Leonard Bernstein che dirige nientedimeno che la Chicago Symphony in un cofanetto Deutsche Grammophon di due CD che offre anche la decente lettura di Bernstein della Prima. La registrazione di Bernstein del 1962 con la sua New York Philharmonic (nella «Royal Edition» della Sony) è pure buona (mi piace in particolare la lettura rallentata del secondo movimento), ma impone il giudizioso taglio operato dal direttore (che non mi ha mai infastidito, devo ammettere) della terza variazione dei tema della marcia.
di Royal S. Brown (pubblicato su “Compact Disc Classics”, n.51, ottobre 2005)

http://heinrichvontrotta.blogspot.it/2007/02/le-sinfonie-di-shostakovich.html

 

Dmitri Shostakovich – Romance – Gadfly Suite

Sinfonia n. 13 in si bemolle minore “Babi Yar”, op. 113 : Dmitri

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