27 luglio 1993 autobombe a milano e roma

 

Via Palestro 1993, i misteri di una strage dimenticata

27 Luglio 1993 Milano. Strage di Via Palestro. Restano uccisi Driss Moussafir, Alessandro Ferrari, Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno. Un cittadino marocchino, tre Vigili del Fuoco e un Vigile urbano: cinque vittime innocenti.

Luca Rinaldi

È l’episodio più oscuro e meno ricordato della stagione dello stragismo mafioso: morirono in cinque

La scena dell’attentato in Via Palestro, a Milano

Tra tutti gli attentati del ’93,  quello di via Palestro, a Milano, è ancora oggi il più oscuro, con una verità giudiziaria monca. Scriverà la Corte d’Assise di Firenze nella sentenza di primo grado:

«L’esecuzione della strage di Milano è rimasta praticamente oscura nelle modalità di esecuzione e, in parte negli autori».

Quella di Via Palestro è una memoria che la Milano di oggi fatica ancora ad associare a quello che a tutti gli effetti è stata una strage di mafia. Solo in occasione del ventennale la targa commemorativa è stata sostituita indicando il “ricatto mafioso”. In quegli stessi, giorni, quattro giorni prima della strage di via Palestro, il 23 luglio, si suicidava Raul Gardini, a capo di un gruppo industriale che il ricatto mafioso lo aveva conosciuto negli anni Ottanta, ma guai a parlarne.

Il ’92-’93 è il biennio delle stragi, delle bombe e degli omicidi eccellenti: nel 1992 nel giro di sette mesi vengono uccisi l’eurodeputato della Democrazia crisitiana Salvo Lima, Giovanni Falcone e la moglie, Paolo Borsellino con gli uomini delle scorte e in ultimo Ignazio Salvo, imprenditore siciliano mafioso e politico democristiano. Nel 1993 cosa nostra sbarca invece “in continente”, e arriva il fallito attentato di via Fauro a Roma, e le bombe al patrimonio artistico culturale italiano: il 27 maggio esplode la bomba in via dei Georgofili, a fianco degli Uffizi a Firenze. Cinque vittime. Due mesi dopo, il 27 luglio del 1993 arriva l’esplosione di via Palestro a Milano. Altre cinque vittime innocenti dopo il botto delle 23:14 nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea (Pac), ma che si sente in tutta Milano. Sono i vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile urbano Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, cittadino del Marocco. La stessa notte a Roma altre due esplosioni danneggiano le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro.

Intervento dei vigili del Fuoco in Via Palestro. Immagine del Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica per la Lombardia pubblicata dal Corriere della Sera

LE DUE ESPLOSIONI 

Sul posto ci sono vigili del fuoco e vigili urbani, arrivati in seguito a una chiamata che riferiva di un’auto da cui usciva fumo dal cofano. Davanti al Padiglione di Arte Contemporanea si sono solo tre pompieri La Catena, Pasotto e Picerno e il vigile urbano Ferrari. Poco più avanti, su una panchina, c’è Driss Moussafir. Per loro non c’è scampo quando alle 23:14 la Fiat Uno da cui usciva fumo dal cofano esplode. Sopravvive la vigilessa di pattuglia con Ferrari, Catia Cucchi, che riceverà beffardamente il sostegno psicologico come vittima venti anni dopo, cioè in questi mesi.
Il Pac è danneggiato, ma è ancora integro. Una seconda esplosione dovuta a un’infiltrazione di gas sotterranea fa crollare il Padiglio di Arte Contemporanea, rischiando di fare altre vittime, alle quattro e mezza di notte.
«In quel momento» ricorda al Corriere della Sera il sostituto commissario Dario Redaelli, in servizio quella notte di luglio «c’è stata la seconda esplosione, provocata da una sacca di gas che s’era creata sotto terra. Anche questa onda d’urto è stata violentissima e mi ha scaraventato in un angolo del cortile. Ero con due colleghi. Qualche attimo di silenzio. Poi ci siamo chiamati a voce alta. Eravamo tutti vivi. Siamo usciti da lì».

LE INDAGINI, LE SENTENZE, E I MISTERI 

Una donna bella, bionda, magra, probabilmente sotto i trent’anni, parcheggia la Fiat Uno in via Palestro e poi si dilegua su un’altra autovettura con due uomini a bordo. L’identikit è lo stesso fornito da altri testimoni sull’attentato di via Fauro a Roma. A Milano sono in due ad averla vista parcheggiare l’auto verso le 22:30. Di quella bionda però non c’è traccia in nessuna sentenza, e mai è stata identificata. Il suo identikit non rientra tra le piste investigative.

Nel giro di poche settimane l’inchiesta passerà da Milano a Firenze: l’esplosivo è lo stesso utilizzato per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio. Tuttavia, nonostante tre sentenze sulle stragi del ’93, su via Palestro rimarrà quell’indelebile riga dattiloscritta, per cui la strage di Milano è un episodio

«praticamente oscuro nelle modalità di esecuzione e, in parte negli autori».

Eppure, le prime immagini della strage arrivano proprio da una videocamera nascosta degli uomini della Direzione Investigativa Antimafia che stanno indagando su un traffico di stupefacenti tra Palermo e Milano. Fuori da una sala da biliardo in prossimità del PAC, subito dopo l’esplosione tutti escono di corsa, tranne un uomo: Robertino Enea, ritenuto capo di cosa nostra a Milano. Tutti si spostano verso il luogo dell’esplosione, lui si dirige con passo svelto nella direzione opposta. Enea non entrerà mai nel processo, ma è possibile che non sapesse nulla della vicenda?

È la Corte di Cassazione, il 6 maggio 2002, a ricostruire i fatti. 

«L’episodio di Milano è stato ricostruito in base alle dichiarazioni di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Carra, unitamente a Lo Nigro che aveva con sé una miccia, aveva trasportato ad Arluno l’esplosivo, che era stato macinato e confezionato da Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano nel rudere di Mangano, consegnandolo il 23 luglio; Lo Nigro e Giuliano si erano poi recati rispettivamente il 26 e il 27 luglio, a Roma, ove Scarano era impegnato nella preparazione degli attentati alle chiese, Scarano aveva appreso da Lo Nigro che quella sera sarebbero successe cose eclatanti in tutta Italia; aveva inoltre sentito Lo Nigro chiedere a Giuliano se aveva lasciato tutto a posto a Milano e quest’ultimo rispondere affermativamente; dopo gli attentati aveva sentito i predetti parlare tra loro e dire che le bombe di Milano e di Roma sarebbero dovute esplodere contemporaneamente a mezzanotte, ma che a Milano lo scoppio era avvenuto un’ora prima del previsto; la sera del 27 luglio, mentre preparavano l’autobomba nel cortile di via Ostiense per le stragi di Roma, Scarano aveva riferito a Di Natale che quella sera sarebbero scoppiate altre bombe anche a Milano; Scarano sollecitato da Di Natale a portare via l’esplosivo da via Ostiense in Roma, aveva risposto di avere pazienza perché doveva accordarsi con altre persone di Milano».

Mentre in precedenza era stata la Corte d’Appello di Firenze ad attribuire le responsabilità:

«La Corte ha giudicato quindi autori materiali della strage di Milano, innanzitutto, giusto il racconto di Pietro Carra, Salvatore Grigoli, Antonio Scarano e Pietro Romeo, le persone da questi espressamente indicate. Vale a dire, Antonino Mangano, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza. Alle persone sopra dette, indicate dai collaboratori, vanno aggiunte Giacalone Luigi, Benigno Salvatore e gli stessi Antonio Scarano e Grigoli Salvatore. Oltre che naturalmente lo stesso Carra».

Il cratere creatosi in seguito all’attentato. Immagine del Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica per la Lombardia pubblicata dal Corriere della Sera

LA VERSIONE DI SPATUZZA: OBIETTIVO MANCATO DI 150 METRI 

Sono le deposizioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, già condannato per le stragi del ’93, a inserire i tasselli mancanti, anche se non tutti. Spatuzza ha ricostruito il commando che avrebbe agito nella preparazione dell’attentato, composto da Giovanni Formoso, Vittorio Tutino e dal fratello Filippo Marcello, l’unico che, secondo il pentito, «si muoveva bene su Milano dove aveva lavorato come imbianchino. È stato lui a guidare l’auto in via Palestro». Oggi Filippo Marcello Tutino è indagato ma a vent’anni dalla strage è stato impossibile trovare prove sufficienti per chiederne l’arresto.

Vittorio Tutino è stato condannato per le stragi di Firenze e Roma. Ma per quella di Milano l’assoluzione è diventata definitiva dopo il verdetto della Cassazione, quindi per i fatti di via Palestro Tutino non è più imputabile. Formoso invece è accusato di essere «l’uomo di Arluno»: il 23 luglio del 1993 avrebbe accolto al casello dell’A4 tra Santo Stefano Ticino e Vittuone il camionista Pietro Carra e Cosimo Lo Nigro, artificiere del gruppo, saliti da Palermo con i 90 chili di tritolo pronti per armare la Fiat Uno. Ad Arluno Spatuzza avrebbe portato l’automobile rubata in via Baldinucci, ma c’è un però: Spatuzza afferma di non aver mai visto nelle fasi preparatorie dell’autobomba Formoso, che attualmente sta però scontando l’ergastolo, condannato per la strage di via Palestro.

È un’altra affermazione di Spatuzza a portare gli inquirenti su strade già battute, ma mai confermate: «A Milano» riferisce Spatuzza nel corso di un interrogatorio «sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri». Se il PAC non era l’obiettivo, allora quale poteva essere? Spatuzza non sa o dice di non sapere, eppure quando si è trattato di individuare il posto preciso dell’autobomba che trucidò Paolo Borsellino e la sua scorta portò gli inquirenti sul punto esatto. E come può Spatuzza dire che l’obiettivo era a 150 metri, per poi dichiarare di non sapere quale fosse il bersaglio dell’autobomba?

Investigazioni più recenti degli uomini dell’antimafia battono la pista del Palazzo dell’Informazione di Piazza Cavour: lì, nei giorni caldi di Tangentopoli e della maxi tangente Enimont, si rende conto del sistema della prima Repubblica che sta colando a picco. Nello stabile si trovavano le sedi de La Stampa, dell’agenzia ANSA e de Il Giorno. Sono altri tre i luoghi finiti sotto la lente degli investigatori o frutto di supposizioni: il primo, frutto di alcuni “si dice”, è il Centro europeo di comunicazione del gran maestro massonico Giuliano Di Bernardo, al civico 6 di via Palestro (a circa 100 metri dal Pac) il secondo, seguito come pista nei giorni successivi l’esplosione è il palazzo di via Senato 14, sede degli uffici di Marcello Dell’Utri. Pista recentemente ripresa dalla procura di Firenze per verificare la tesi della pressione di cosa nostra sullo stesso Dell’Utri e Berlusconi. La terza ipotesi, sicuramente suggestiva, ma già inconcludente, riguarda invece la possibilità che la bomba fosse destinata ai Servizi Segreti, che non lontano da via Palestro avrebbero un loro ufficio milanese.

Visualizza Attentato di Via Palestro, 27 luglio 1993 i

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MAFIA E COLLETTI BIANCHI PER LA STRAGE MILANESE 

Chi ha agito nel quadro della strage di via Palestro è uomo dei Graviano. Sono i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano che orchestrano le mosse di cosa nostra durante le stragi “in Continente”, e gli investigatori li cercano subito dopo gli attentati di Falcone e Borsellino. Li trovano a Milano, nel gennaio del 1994, al ristorante «Gigi il cacciatore» in via Procaccini 45. Dei vecchi mafiosi non hanno nulla e la loro latitanza è dorata, tanto che nei giorni degli attentati del 1993 sono in Versilia con le rispettive fidanzate.

I carabinieri del nucleo operativo di Palermo arrivano ai due fratelli Graviano seguendo Giuseppe d’Agostino, padre del calciatore Gaetano, arrivato a Milano per inserire il figlio nelle giovanili del Milan e prendersi un posto di lavoro all’Euromercato.
Dal soggiorno in Versilia a Milano  sono ancora molti i conti che non tornano sulla latitanza dei Graviano e dei loro finacheggiatori, inevitabilmente toccati da indagini che rientrano nel filone sulla strage di via Palestro. Non è infatti un mistero che anche gli uomini del commando di via Palestro continuarono a frequentare Milano anche dopo la bomba del 27 luglio muovendosi con disinvoltura all’interno di una rete di imprenditori e colletti bianchi vicini ad ambienti mafiosi.

Nelle indagini sui favoreggiatori della latitanza dei Graviano finisce in manette Enrico Tosonotti. È un imprenditore milanese che gestisce una scuderia all’Ippodromo, accusato di aver versato un assegno da 25 milioni di lire per l’affitto della villa a Forte dei Marmi. Gli informatori avrebbero detto alla polizia che Tosonotti sarebbe vicino a Marcello Dell’Utri, così come l’imprenditore messinese Natale Sartori, finito anche in una inchiesta dell’antimafia meneghina sulla ’ndrangheta, e a Milano il fascicolo sulla rete dei Graviano di fatto non si è mai chiuso. Così come le nuove investigazioni a venti anni dalla strage di via Palestro, «strage mafiosa per ricattare lo Stato», recita la nuova targa al posto della precendente «vittime innocenti di un vile attentato».


Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/strage-via-palestro#ixzz2aEduCvXO

QUELLO STRANO DISCORSO DEL CAPO DELLO STATO

http://www.misteriditalia.it/stragi1993/

SOLTANTO UM FIORE E LA BANDIERA TRICOLORE

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