Cesare Molinari Note su Ernani, Victor Hugo Cromwell Préface – La faute à Voltaire (les misérables), cultura

 Scarcerazione non è liberazione. Si esce dalla galera, ma non dalla condanna”. I miserabili” di Victor Hugo

Come non ricordare la brechtiana Mutter Courage, la quale alla notizia della morte del Maresciallo Tilly replica «Per me il momento storico è che hanno ferita la mia figliola».

Non credo siano moltissime le persone che conoscono l’Hernani di Victor Hugo per averne letto il testo nell’originale versione francese o in una qualsiasi delle moltissime traduzioni che ne sono state tratte. Similmente deve essere limitato il numero di quanti hanno avuto occasione di assistere a una messa in scena del dramma – negli ultimi trent’anni Hernani fu rappresentato in Francia soltanto tre volte, una delle quali con la regia di Robert Hossein alla Comédie Française nel 1986. Per l’Italia non ne conosco alcuna. È invece probabile che l’Ernani musicato da Verdi su libretto di Francesco Maria Piave sia noto a un buon numero di cultori del melodramma.

Tutti però, o almeno tutti coloro che hanno qualche cultura storica e letteraria, anche solo scolastica, sanno che c’è stata una “battaglia dell’Ernani”, come documentato da infiniti racconti e testimoniato altresì da un certo numero di quadri e di incisioni

Miticamente questa “battaglia” ha certo avuto il significato simbolico del definitivo affermarsi in Francia della cultura romantica e in questo senso è stato facile paragonarla alla presa della Bastiglia: in entrambi i casi si sarebbe trattato delle conquista di un luogo simbolico – la fortezza dell’arbitrio assolutista e il tempio del teatro classico. Tanto più che la “battaglia dell’Ernani” anticipò di soli cinque mesi le “trois glorieuses” che segnarono il definitivo tramonto della monarchia borbonica anche se solo per portare sul trono di Francia il ramo collaterale degli Orléans (25 febbraio – 25-27 luglio 1830).

Tutti questi fattori confermarono la communis opinio che Hernani, in sé, in quanto opera letteraria e teatrale, avrebbe segnato il radicale rivoluzionamento delle forme e dei contenuti della drammaturgia e dello spettacolo francesi, ossia di quel “liberalismo in letteratura” che costituiva il necessario pendant culturale del liberalismo politico (in realtà si potrebbe dire che con la monarchia di luglio si affermò piuttosto il liberismo economico).

In che cosa consistesse tale “liberalismo” dell’arte, e in particolare della drammaturgia e del teatro, Victor Hugo lo aveva spiegato con grande chiarezza nel famoso Preface con cui, tre anni prima, aveva introdotto l’edizione del suo chilometrico Cromwell (circa 7000 versi). Esso comportava anzitutto il superamento delle “regole” che avevano retto per due secoli la produzione drammaturgica francese, vale a dire almeno due delle tre famose “unità” pseudo-aristoteliche, quella di tempo e quella di luogo: d’ora in poi l’azione di un dramma avrebbe potuto occupare un indeterminato periodo di tempo, seguendo soltanto le esigenze della narrazione, così come avrebbe potuto spostarsi da un ambiente ad un altro, ciò che comportava l’utilizzazione di scenografie diverse; ma soprattutto saltava la netta distinzione dei “generi” drammatici – distinzione difesa ancora nel 1830 dal ministro dell’interno Martignac: commedia e tragedia potevano liberamente fondersi nello stesso testo in cui personaggi di opposto livello sociale avrebbero potuto confrontarsi su uno stesso piano – il buffone e il reietto potevano assurgere al ruolo di protagonisti allo stesso titolo dei principi e degli eroi. Per conseguenza la stessa coerenza stilistica dell’opera veniva messa in discussione: ai toni alti poteva mescolarsi un parlare quotidiano e perfino volgare e, soprattutto, le cose avrebbero potuto essere chiamate con il loro nome, evitandosi così le metonimie e le sineddochi tanto care allo stile della tragedia neo-classica. Così, sul piano più strettamente contenutistico, qualsiasi tema avrebbe potuto essere assunto a soggetto drammatico: la leggenda doveva far posto alla storia, concepita a sua volta come globalità e non solo come successione di “grandi” eventi. Infine, così come il “grande” non può essere distinto dal “piccolo”, la bellezza cessa di essere la misura del valore – ciò che viene considerato “brutto” può accampare gli stessi diritti di ciò che si pretende bello. Anzi, bello e brutto possono fondersi nello stesso oggetto come nella stessa persona, dando vita a un nuovo principio, valido tanto a livello stilistico quanto sul piano tematico: il grottesco.

Con Hernani Victor Hugo intendeva proporre il modello di una nuova forma drammatica, che, aldilà del suo intrinseco valore poetico, contenesse tutte le novità già elencate nel Preface del Cromwell, novità che avrebbero reso possibile l’espressione di un nuovo pensiero e di una più acuta visione degli uomini e del mondo. E come tale Hernani venne percepito dai contemporanei, accolto o rifiutato da sodali e avversari in nome dei valori che esso rappresentava. E ancora oggi viene considerato come il punto di svolta nella storia della drammaturgia e del teatro francesi – aldilà, appunto, del suo intrinseco valore poetico.

Ma c’è forse bisogno di qualche precisazione, in ordine alle quali servirà richiamare la situazione del teatro francese (parigino) dei primi decenni dell’Ottocento, anche se solo per accenni, visto che si tratta di fatti ben noti.

Quando, nel 1790, l’Assemblea Nazionale varò il decreto che oggi chiameremmo di liberalizzazione dell’impresa teatrale, ci fu a Parigi una straordinaria fioritura di nuovi teatri: nel giro di pochi anni ne furono aperti più di dieci. Con il risultato che lo spettacolo teatrale divenne il più diffuso intrattenimento dei parigini, coinvolgendo tutte le classi sociali. Di più: almeno fino alla morte di Robespierre, nel termidoro 1794, i teatri divennero sede privilegiata dello scontro politico tanto che ogni dramma, ogni personaggio se non addirittura ogni singola battuta venivano interpretati in senso politico, suscitando accesi scontri verbali quando non fisici. Questa appassionata forma di partecipazione, che faceva quasi concorrenza alle sedute pubbliche della Convenzione, si perpetuò in qualche misura anche dopo la pacificazione delle fazioni, con l’avvento di Napoleone. Il quale peraltro, ritenendo eccessiva tale disordinata esplosione, intervenne più volte per regolamentare l’assetto economico e culturale delle imprese teatrali, che venne rigorosamente definito dal famoso decreto di Mosca del 1812 (il cui primo intento era dare un nuovo statuto alla Comédie Française). Il numero dei teatri autorizzati a produrre spettacoli pubblici nella “nostra città di Parigi” venne ridotto a sette, tre dei quali (il primo e il secondo “teatro francese” e l’Opéra) erano “sovvenzionati”, vale a dire sostanzialmente pubblici, mentre gli altri quattro, privati, avrebbero dovuto sostenersi solo grazie agli incassi.

Ma il punto rilevante è un altro: i teatri privati erano autorizzati ad agire in base allo specifico privilegio che veniva loro concesso. Il “privilegio”, come spiega de Tocqueville, era la struttura di base dell’economia dell’Ancien Régime: con esso l’autorità pubblica concedeva a un operatore privato di intraprendere una specifica attività, di realizzare e mettere in vendita una determinato prodotto, come, per esempio, di aprire un negozio nel quale avrebbe potuto vendere frutta e verdura ma non capi di abbigliamento. Allo stesso modo, il privilegio concesso a un singolo teatro privato lo autorizzava a presentare al pubblico spettacoli di un determinato “genere”, che era invece interdetto ai teatri concorrenti. Ma questo principio investiva anche, e in certo modo soprattutto, i teatro sovvenzionati: Comédie Française e Odéon (primo e secondo teatro francese) erano autorizzati, e anzi tenuti, a rappresentare esclusivamente i due generi nobili del teatro francese – tragedia e haute comédie – mentre all’Opéra (l’antica Académie de la Danse et de la Musique) erano riservati l’opera seria e il balletto. Ed proprio in forza di tale specifico repertorio si giustificava la sovvenzione statale, che mirava a valorizzare e a conservare l’alta tradizione del teatro classico francese.

E a questo proposito non sarà forse inutile ricordare che Napoleone fu forte e deciso cultore del teatro neo-classico (erede in ciò della tradizione giacobina che esaltava le virtù civili della antica Roma) e in modo particolare della tragedia, rivitalizzata dalla forza interpretativa del grande attore François-Joseph Talma, il quale aveva a suo tempo guidato la rivolta interna della Comédie Française, ma soprattutto imposto un nuovo stile di recitazione e un adeguamento della costumistica al gusto della ricostruzione storica.

Ai teatri privati erano invece riservati i generi bassi, quali la farsa e la pantomima, che a stento potevano essere considerati generi letterari – talché il concetto di “genere”, tanto caro al dibattito letterario francese e al suo gusto per le classificazioni razionali, finì per essere applicato indifferentemente al repertorio come al prodotto squisitamente spettacolare, riducendosi al contempo a una sorta di definizione delle categorie merceologiche.

È vero peraltro che in quegli anni si svilupparono due nuovi generi drammatici, che vennero per così dire ufficialmente riconosciuti come tali proprio in quanto descritti nel privilegio di due dei quattro teatri privati, che ne detenevano il monopolio: il vaudeville e il mélodrame, popolarmente chiamato mélo. Ora, mentre il vaudeville, che costituiva il privilegio del teatro che portava quel nome, era una tipica forma di spettacolo leggero, qualificato dalla presenza di canzonette musicate su motivi già noti e popolari, il mélo si proponeva come forma drammatica seria, o almeno patetica, basata su una struttura e delle “regole” non meno rigide di quelle della tragedia, soprattutto in quanto prevedeva la presenza di personaggi chiaramente definiti sul piano della funzione attanziale e come ‘caratteri’. Tanto che si potrebbe quasi dire che la struttura per ruoli delle povere compagnie di giro del teatro italiano, che si venivano formando proprio in quegli anni, coincidessero proprio con quelli del mélo.

Tuttavia, se è vero che la produzione di mélo si sosteneva su una serie di regole debitamente codificate dall’autore di maggior successo, considerato quasi l’inventore di questo genere drammatico, Guilbert de Pixérecourt, è vero anche che esso rifiutava proprio le regole del teatro classico, e in particolare le unità di tempo e di luogo. Le quali d’altra parte erano sconosciute anche all’opera lirica, dove si perpetuava la grande tradizione della scenotecnica italiana che prevedeva tra l’altro il cambiamento a vista dell’ambientazione scenografica e l’intervento di fantastici meccanismi.

Quale fu allora la grande novità introdotta da Victor Hugo con Hernani e imposta al pubblico parigino e alla cultura teatrale francese con la grande “battaglia” del 25 febbraio 1830 – un evento, c’è da dire, assolutamente inimmaginabile ai giorni nostri?

Intanto bisognerebbe tener di conto del fatto che dopo la caduta di Napoleone la rigida regolamentazione dell’impresa teatrale, mai pienamente rispettata, venne di fatto completamente superata con l’apertura di nuovi teatri e con l’allargamento del privilegio concesso a ciascuno – forse anche per questo Chateaubriand poteva sostenere  che gli anni della Restaurazione avrebbero dovuto essere considerati gli anni della libertà. Come durante il periodo rivoluzionario, la vita teatrale tornò ad essere intensa e variegata: a disposizione del pubblico parigino c’erano spettacoli di varietà, spesso incentrati sui fatti del giorno, parodie dei mélo come delle tragedie presentate alla Comédie, spettacoli che mescolavano l’azione drammatica con esibizioni equestri, farse e pantomime, senza contare i panorami.

In buona sostanza si potrebbe dire che la novità di Hernani consisteva in una sorta di sintesi di diversi elementi che si potevano già individuare nei diversi generi drammatici e teatrali in voga in quegli anni – dall’intensità dello spettacolo scenografico e coreografico del grand opéra alla varietà dei tempi e dei luoghi come dei caratteri e delle qualificazioni sociali dei personaggi caratteristica del mélo. Inseriti, questi diversi elementi, nella distesa struttura in cinque atti della tragedia classica, di cui veniva anche impiegata la nobile versificazione in alessandrini.

Ma allora, più che della proposta di un nuovo modello, inteso a sostituirne altri, che pure nelle loro fenomenologie storiche avevano raggiunto elevatissimi valori artistici, si trattò di negare il concetto stesso di modello in nome proprio della libertà del poeta. Che può ben dire: je prends mon bien où je le trouve! Non per nulla il termine di “drame”, con il quale Hugo intese definire la sua opera, ha un sapore estremamente generico in quanto vale per qualsiasi testo costituito da un’azione dialogata che procede per personaggi e non in forma di narrazione: non è così che Aristotele aveva definito la tragedia?

Per questo il luogo della manifestazione divenne più importante dell’evento poetico-teatrale in sé considerato: se Hernani fosse stato rappresentato al Théâtre de la Porte Saint Martin, che ospiterà altre importanti opere di Victor Hugo, non sarebbe successo niente, non ci sarebbe stata nessuna “battaglia”. Si trattava invece di conquistare l’ultimo baluardo simbolico di un teatro costretto nelle norme del neo-classicismo, la Bastiglia della grande tradizione culturale francese, dove imperavano le leggi del grand goût: la Comédie Française, creata dal re Sole quasi come un teatro di corte. Dove peraltro, negli ultimi decenni, era stata rappresentata più di qualche tragedia non del tutto, e qualche volta per niente rispettosa di quelle leggi e delle famigerate regole. Per citare qualcuna: Luigi XI di un certo Mely-Jeannin, che riassumeva 30 anni in un giorno; oppure Le Tasse, vero “drame historique” di Alex Duval, che prevedeva diversi cambi di scena, presentato nel 1826 alla Comédie Française. Dove, solo un anno prima di Hernani aveva ottenuto un grande successo “di pubblico e di critica” un dramma storico (in prosa!) di Alexandre Dumas père: Henri III et sa court.

La “battaglia” fu quindi preparata, per così dire, al tavolino: il barone Taylor, direttore della Comédie, distribuì un enorme numero di omaggi agli amici dell’autore e ai sostenitori del Romanticismo. Hernani fu poco di più che un pretesto, ossia un esempio (non un modello) fra i tanti che la nuova libertà, enunciata nel Preface del Cromwell rendeva possibili. Per questo essa fu percepita e ricordata come più importante dell’oggetto per il quale fu combattuta.

Ciò che non significa, evidentemente, sminuire il valore poetico drammaturgico e teatrale dell’opera e il suo significato intrinseco, che varrà la pena di riesaminare con dettagliata attenzione. Diremo allora anzitutto che Hernani può essere tranquillamente definito come “dramma storico”: per quanto empiriche e incerte possano essere le definizioni di questo tipo, esse furono, come detto, molto gradite alla cultura letteraria ottocentesca, soprattutto francese, con il suo gusto per le accurate classificazioni. Così il “dramma storico” fu considerato come una sorta di “sottogenere”, di cui peraltro non era difficile tracciare la storia a partire dai grandi modelli delle histories shakespeariane fino alla parte più rilevante della produzione drammatica di Friederich Schiller (la trilogia di Wallenstein, Don Carlos, Wilhelm Tell), essendo d’altra parte possibile individuarne degli esempi anche nella drammaturgia neo-classica francese (a partire, se vogliamo, dal Bajazet di Racine, il quale si giustificò per aver osato «mettere in scena una storia tanto recente», in qualche modo sottintendendo che la storia antica poteva essere considerata parte del mito; fino a Inès de Castro di Houdard de la Motte e la stessa Zaire di Voltaire, che in qualche misura inaugurò la moda della tragedia nazionale ambientata nel Medio Evo o perfino la leggera commedia di Collé, Une partie de chasse de Henri IV, per fare solo alcuni esempi). Anzi, tanto grande era la voga di cui questo presunto nuovo genere godeva in quegli anni che Alexandre Dumas père potrà fondare, nel 1846, e poi gestire per qualche anno (non senza la collaborazione dello stesso Hugo) un Théâtre Historique, con uno staff di circa sessanta persone fra attori e tecnici. Inutile aggiungere che, sotto il profilo scenico, si intendeva restituire con la maggiore esattezza immaginabile l’ambientazione architettonica e la moda dei costumi dell’epoca in cui l’azione di un certo dramma era presuntivamente collocata. Del resto, già nei primi anni del secolo, lo stesso Talma aveva sostenuto che il teatro avrebbe dovuto fornire ai giovani un corso di storia vivente.

È ovvio però che all’interno del “genere” le fenomenologie possano essere dei tipi più diversi. Così un “dramma storico”, quello più propriamente degno di questo nome, potrà proporsi di ricostruire con un certo grado di precisione, un rilevante evento storico, dando vita soltanto a quei personaggi che, almeno presuntivamente, vi avevano preso parte: è questo il caso delle histories shakespeariane, ma anche del Cromwell o di Henri III et sa court. Oppure, all’estremo opposto, un dramma (come del resto un romanzo o un racconto) potrà considerarsi “storico” anche se i suoi protagonisti sono personaggi di fantasia, ma inseriti in un contesto precisamente individuabile, magari grazie a qualche riferimento a personaggi e ad eventi rilevanti e pertanto universalmente noti e riconoscibili. Con tutte le possibili soluzioni intermedie – fra le quali proprio quella di Hernani.

In verità, Hernani non avrebbe dovuto essere il primo testo di Hugo ad essere rappresentato ufficialmente (dei suoi primi due drammi Cromwell non era stato concepito per la scena, a dispetto delle sue numerosissime didascalie, mentre Amy Robsart, scritto a quattro mani con Soumet era stato di fatto rinnegato). Il testo di esordio sulla scena della Comédie Française avrebbe dovuto essere Marion Delorme, pronto già nel 1829, ma vietato dalla censura di Carlo X. Si ha quasi la sensazione che i due testi siano stati concepiti insieme, tanto speculare ne è la struttura, con la finta conclusione del quarto atto in entrambi dominato da una figura regale, e con il ritornare di motivi tematici come l’amore geloso, il peso della parola data che diventa destino, la presenza della figura del reietto sconosciuto opposta a quella dei personaggi alti e, soprattutto, la precisa definizione del momento storico: Francia 1637 per Marion, Spagna 1519 per Hernani.

Ma è proprio su quest’ultimo punto che si esaltano le differenze fra i due testi – quasi programmatiche alternative. In Marion Delorme l’ambientazione storica viene descritta prevalentemente dalle chiacchiere dei nobili fannulloni, che citano la querelle du Cid e polemizzano sulle nuove norme sul duello decretate da Richelieu, di cui il re Luigi XIII era ormai considerato il burattino, come lo aveva descritto Vigny in un suo recente romanzo appunto “storico”: Cinq-Mars ou Une conjuration sous Louis XIII. Al contrario, in Hernani il momento storico viene definito da un grande evento, l’assunzione al trono imperiale di Carlo V, decisivo per la soluzione (apparente) dell’intreccio amoroso – qui molto più complesso che in Marion Delorme, dove la protagonista eponima, lei stessa personaggio storicamente documentato, offre la prima incarnazione della cortigiana che si riscatta nell’amore, tema che sarà caro al tardo romanticismo a partire dalla Dame aux camélias.

Entrambi i drammi erano destinati alla Comédie Française, anche se poi solo Hernani vi approdò. Si è perciò creduto che il ruolo della protagonista femminile fosse, in entrambi i casi, destinato (e ispirato) alla prima attrice di quel teatro, mademoiselle Mars (fig. 2). Ora, nonostante la maggiore complessità di Marion Delorme rispetto a Doña Sol, è indubbio che i due personaggi si somigliano molto: in quanto oggetto del desiderio svolgono un ruolo prevalentemente passivo. Al contrario di quanto succederà alle protagoniste dei successivi drammi di Hugo – Lucrezia Borgia nel dramma omonimo, Tisbe in Angelo, tyran de Padoue e soprattutto Marie Tudor, tutte estremamente loquaci – Doña Sol e Marion Delorme sono personaggi prevalentemente silenti: a loro sono attribuite battute per lo più brevi e poche anche se decisive tirate, mentre in cambio se ne possono immaginare intense azioni in controscena. Ora, Mademoiselle Mars era attrice specializzata nelle parti di grande coquette, il cui modello supremo era offerto dalla Célimène del Misanthrope, e, per di più, mentre poteva contare su una splendida vocalità flessuosa, non era affatto celebrata per l’intensità della suo mimica. Molto più adatta a queste parti avrebbe dovuto essere Marie Dorval, che effettivamente interpretò Marion Delorme quando questa vide finalmente la luce nel 1831 al Théâtre de la Porte St. Martin. Ma è più probabile che Victor Hugo non avesse in mente nessuna attrice particolare: «non pensate a me» soleva dire Eleonora Duse ai molti autori che pretendevano di scriverle un testo su misura. Hugo fu indotto a configurare in quel modo i due personaggi dalla struttura stessa dei due drammi.

Struttura che, come accennato, era molto più complicata in Hernani, e non tanto per il succedersi di numerosi episodi, di cui Marion Delorme è forse addirittura più ricca, quanto per la moltiplicazione dei protagonisti. La formula narrativa del dramma essendo perfettamente riassunta dal giovin signore che partecipa alla festa di nozze del quinto atto

Trois galants, un bandit que l’échafaud réclame

 

Puis un duc, puis un roi, d’un même coeur de femme

Font le siège à la fois. – L’assault donné, qui l’a ?

C’est le bandit.

Come si sa, il tema del conflitto amoroso è ricorrente nel teatro moderno, a partire almeno dal Rinascimento: assolutamente prevalente nella commedia, dove è quasi esclusivo, ricorre di frequente anche nella tragedia, come ebbe a sottolineare Racine. Ciò è in parte almeno certamente dovuto all’elementare immediatezza del gioco delle forze, tanto che proprio sulla commedia cinquecentesca venne costruita la formula dell’analisi attanziale, basata sul principio che il desiderio (amoroso) costituisce la forza capace di mettere in moto l’azione drammatica: un desiderante (protagonista) cerca di raggiungere l’oggetto desiderato (la donna amata) superando l’ostacolo frapposto da un opponente, magari con l’aiuto di un alleato in forza della decisione di un giudice (che può essere un principio astratto come un personaggio reale). Questa formula, il più delle volte facilmente applicabile, permette, ovviamente, una vasta gamma di varianti, complicandosi in particolare quando i ruoli si fanno incerti o mobili, come nel caso dello scontro fra due desideri (due giovani che amano la stessa donna) per cui l’opponente di presenta come a sua volta desiderante. Casi frequenti nella commedia, dove, in qualche caso, la contraddizione è resa esplicita fin dal titolo – come nell’esempio particolarmente raffinato della Erofilomachia (La contesa dell’amore e dell’amicizia) di Sforza Oddi, dove il rivale dovrebbe essere al contempo l’alleato. Come succede proprio in Marion Delorme, nella splendida figura di Saverny, che si trasforma appunto da rivale in alleato.

Hernani sembrerebbe recuperare la formula della commedia (ma, come accennato, non insolita neppure in altissimi esempi di tragedia, quali la raciniana Andromaque). Anzi, la complica al massimo, portando a tre il numero dei desideranti – o innamorati o galants come li definisce con mondana finezza il conte Ricardo de Roxas nei citati versi del quinto atto – talché i ruoli attanziali si fanno estremamente mobili, non solo in quanto opponente e desiderante  sono da bel principio identificati, ma soprattutto perché essi mutano nel corso del dramma: don Ruy Gomez da Silva ed Ernani, pur restando rivali, diventano ad un certo punto alleati, mentre Carlo, diventando imperatore, abbandona il ruolo di amante per farsi giudice nel consegnare doña Sol a Ernani, così come farà lo stesso Silva quando, nel finale, decreta la morte di Ernani in nome del rispetto della parola data.

E proprio questa moltiplicazione dei ruoli, che comporta un’ovvia quanto quasi insostenibile complicazione dell’intreccio, sembra avvicinare Hernani piuttosto alla tradizione della commedia che non a quella della tragedia. Ma si tratta di una conclusione capziosa, poiché la prospettiva dichiarata di Victor Hugo era proprio di confondere le carte dei generi accreditati – il che non impedirà ai detrattori di definire i suoi drammi come dei mélo. In Hernani non c’è alcuna figura in qualche modo avvicinabile alla “bellissima bruttezza” del Quasimodo di Notre Dame de Paris: qui il “grottesco”, se proprio vogliamo usare questa categoria, è affidato precisamente al rimescolamento dei ruoli e all’applicazione di una formula di commedia – e per di più artificiosamente complicata – ai nobili personaggi della tragedia, re, imperatori, duchi e grandi di Spagna anche se travestiti da banditi di strada. Grottesco che si esalta fin dalla prima scena dove colui che presto sapremo essere Carlo I, re di Castiglia, si introduce inaspettato nell’appartamento di una nobile fanciulla e, al sopraggiungere dell’amante in titolo, si nasconde in un armadio, così come faranno gli amasi delle pochade per non essere colti in flagrante dal marito cornuto. Grottesco che si esalta in toni quasi epici quando, seguito da una schiera di armati, sopraggiunge colui al quale propriamente toccherebbe di «far lo scimunito mestiere di marito» (come canta Figaro nel Mariage mozartiano), vale a dire il vecchio duca Silva, che sorprende la sua promessa sposa addirittura con due uomini. E la donna non manca di esclamare «Le duc! Tout est perdu!», che nel terzo atto, replicandosi la situazione, diventerà un «Dieu! Le duc!» che anticipa proprio il classico “Cielo! Mio marito!” delle adultere della pochade. Un gran grottesco dunque che si esalta ulteriormente allorché il re, svelando la propria identità, giustifica la sua presenza in quelle stanze con un’alta motivazione politica – è venuto ad annunciare al duca la morte dell’imperatore Massimiliano, suo nonno, e a discutere la possibilità di succedergli. Come accade nella vita, le situazioni più intime e volgari determinano o giustificano gli eventi più elevati (o viceversa!). Come non ricordare la brechtiana Mutter Courage, la quale alla notizia della morte del Maresciallo Tilly replica «Per me il momento storico è che hanno ferita la mia figliola».

La conversazione fra il re travestito e la cameriera di doña Sol con cui si apre il dramma si sviluppa in una serie di battute brevissime che spezzettano e frammentano la complessa ma regolare forma dell’alessandrino – ciò che dovette irritare da bel principio i cultori del verso classico, come succederà poi più volte in alternanza con le lunghe tirate di Ernani e del vecchio Silva.

Ma le questioni più rilevanti poste da questa prima scena – nella quale, ovviamente, viene descritta la situazione di partenza e vengono presentati tutti i protagonisti – sono altre. In primo luogo bisogna considerare il fatto che colui che mette in moto la vicenda, il primo a presentarsi nel ruolo di desiderante che ordisce una trama per realizzare il suo desiderio non è il personaggio eponimo, Ernani, ma una figura che, proprio in quanto grande e possente, dovrebbe avere piuttosto la funzione di ostacolo da superare. Ma che, invece si propone, in replicate occasioni (II e IV atto) come orditore di beffe e di imboscate. Viene da chiedersi allora se a lui non debba essere riconosciuto il ruolo di protagonista, tanto più che attorno a lui si sviluppa anche la seconda traccia narrativa, quella della “grande storia” che si intreccia con la storiella d’amore che finalmente sovrasta e, sia pure provvisoriamente, risolve. In più, questo innamorato che si dà attivamente da fare con sistemi a dir poco irrituali per raggiungere il suo scopo (gli manca soltanto il servo furbo che gli suggerisca inganni e trabocchetti per essere una perfetto innamorato della commedia dell’arte) si rivela ben presto rivestire anche la funzione di oggetto di un desiderio rovesciato: l’odio di Ernani che trova in lui l’oggetto della vendetta ereditaria.

Ma d’altra parte – ed è questo il secondo punto rilevante – le prime scene che dovrebbero presentare esaustivamente la situazione d’insieme e quella dei singoli personaggi, lasciano senza risposta alcune importanti domande. Fra le diverse tirate amorose che Ernani ci propina fin dalla sua prima apparizione, ne manca una, spesso fondamentale nella commedia antica e che divenne oggetto di un generico dell’arte: “come siasi innamorato”. Si tratta il più delle volte di una tirata lirica, ma spesso capace di qualificare il significato di un amore come ineluttabile destino. Il primo modello non potrebbe essere più alto:

 Noi leggevamo un giorno per diletto

 Di Lancillotto, come amor lo strinse

 Soli eravamo, senza alcun sospetto.

 Quando leggemmo il desiato riso

 Esser baciato da cotanto amante

 Questi, che mai da me non fia diviso,

 La bocca mi baciò tutto tremante.

Ma nel nostro caso una tirata del genere “come siasi innamorato” potrebbe dare un colore vagamente realistico all’assurda situazione rappresentata: come è possibile infatti che Ernani abbia incontrato doña Sol, l’abbia corteggiata e conquistata – lui bandito che guidava una banda di ribelli tra i monti di Aragona? Certo non veniva invitato ai ricevimenti nel castello dei Silva.

Sembra una domanda assolutamente cretina, dettata da quell’esigenza di spiegare ragionevolmente ogni cosa che turbava la vecchia critica; una domanda che trovò inevitabilmente posto tra le molte inverosimiglianze che i critici malevoli rimproverarono al dramma. Ma in questo caso essa serve a esplicitare il sovrano disprezzo che Victor Hugo, contro i suoi sani principi, nutre per le minuzie del realismo, disprezzo senza il quale il fervore della sua fantasia non sarebbe compiutamente apprezzabile: poco tempo dopo aver composto Marion Delorme e Hernani, egli si dedicò a un grande romanzo, anch’esso storicamente ambientato, nel quale pure ministri e sovrani (in questo caso il tetro Luigi XI) si mescolano, sia pure marginalmente, ai fatti del popolo minuto. Bene: Notre Dame de Paris è il romanzo delle dimensioni assurdamente assolute – l’amore di Claudio Frollo per la sovrumana bellezza di Esmeralda è disastroso come una pestilenza, il gobbo Quasimodo tiene a bada da solo prima l’esercito dei paltronier e poi quello dello stesso re. È il romanzo della dismisura, ma non per questo meno poeticamente credibile.

Così in Hernani ci troviamo di fronte a tre assurdi amanti che girano come pianeti attorno alla stella di doña Sol, il cui nome stesso richiama la dimensione più cosmica che umana degli accadimenti, con la stessa necessità della gravitazione universale. Fino a quando almeno tale forza naturale e originaria non entra in collisione con quelle artificiose ma altrettanto potenti della morale e del costume umani – la gelosia, l’onore, il dovere, la vendetta – che sconvolgono e ridisegnano l’assetto dei rapporti e dei ruoli stessi, determinando l’esito finale, come è proprio del destino.

L’azione procede per sbalzi e sussulti, promossa dal tentativo del re di rapire doña Sol, che si replica, quasi in forma di beffa, nel primo e nel secondo atto, dove però, l’intervento di Ernani nel ruolo di oppositore riporta la situazione al punto di partenza: la giovane rimane nelle mani del vecchio Silva, suo zio e fidanzato. Tant’è vero che il terzo atto si apre con la tirata lirica dello stesso Silva che descrive il suo amore senile mentre si preparano le nozze. Ed è in questo atto centrale che la situazione si capovolge: Ernani si introduce nel castello di Silva non per cercare di portarsi via Sol, ma soltanto per sfuggire al re che lo ha sconfitto in battaglia e ora cerca di catturarlo. Per gelosia, venendo a sapere delle prossime nozze, Ernani si rivela a Silva come suo rivale in amore. Ciononostante il duca, per non violare il dovere dell’ospitalità, si rifiuta di consegnarlo al re che lo pretende e che, per rappresaglia, si impadronisce di doña Sol: beffardamente il rapimento che era fallito nei due primi tentativi, riesce adesso, ma con uno scambio di oggetti. Silva è quindi diventato protettore di Ernani e oppositore del re, in un primo momento soltanto sul piano giuridico, ma poi, avendogli Ernani rivelato che anche Carlo è innamorato di Sol, lo diventa anche sul piano dell’intreccio amoroso e stringe con Ernani un’alleanza, condizionata però all’impegno di morte che verrà eseguito al suonare del corno. La situazione è dunque capovolta: doña Sol è ora nelle mani del re, i due amanti beffati dovranno recuperarla e vendicarsi del rapitore. Al contrario di quanto era successo nei due atti precedenti, così mutata, la situazione si apre a ulteriori e imprevisti sviluppi.

Che andranno infatti nella direzione opposta a quella immaginata: ancora una volta il re precede i suoi rivali e li beffa, sorprendendo i congiurati che dovevano sorprenderlo nella cripta del duomo di Aix (Acquisgrana, Aachen), dove il tema di alta politica, enunciato nel primo atto e riemerso nel terzo, diventa centrale, risolvendo anche l’intreccio amoroso: Carlo I di Spagna, divenuto Carlo V imperatore, abbandona il ruolo di amante, per assumere quello di giudice quasi divino, il quale, clemente, perdona i suoi nemici e, giusto, destina la donna all’innamorato giovane, rivelatosi di nobile stirpe – soltanto, si direbbe, perché così esige la tradizione della commedia

Dunque, dopo la lunga stasi dei primi due atti e della prima parte del terzo, in cui tutto ciò che succede non porta ad alcun mutamento, gli eventi precipitano nel finale del terzo atto per giungere nel quarto ad un auspicato lieto fine, che l’ultimo atto dovrebbe semplicemente suggellare con le nozze di doña Sol con Ernani, che sostituiscono quelle con il duca Silva. Il quale però, al contrario dell’imperatore, si fa giudice in nome del patto siglato senza abbandonare il ruolo di amante, ciò che porta alla catastrofe finale, con tre morti che si succedono in una scena che sembra assommare Giulietta e Amleto. La commedia si rovescia in tragedia. O si tratta piuttosto di una specie di assolutizzazione dell’idea di catastrofe, considerata fondante della forma tragica.

Questo, grosso modo, il procedere dell’azione. Punteggiata però da una serie di temi e di motivi ricorrenti che ne scandiscono i ritmi e connettono le linee dell’intreccio. In certi casi si tratta di temi e di motivi di ordine propriamente drammaturgico e riferiti ai singoli personaggi di cui diventano costitutivi: così le furiose tirate di gelosia e di auto-commiserazione di Ernani, o quelle liricamente tristi di Silva; così le brevi risposte di doña Sol o le sue corte tirate di sdegno o di supplica; così il tema della purezza, meno sottolineato di quanto non sia in Marion Delorme, ma ritornante nelle espressioni di Ernani come di Silva. Ma in altri casi si tratta propriamente di spunti descrittivi, intesi a definire l’ambientazione storica come allorquando Sol ricorda al re la grandezza dei suoi possedimenti, o quando Ernani richiama le ribellioni che avevano scosso Castiglia e soprattutto Aragona negli anni immediatamente successivi la Reconquista, o, infine e soprattutto, le rievocazioni che Silva fa dei suoi avi, culminanti nella famosa “scena dei ritratti” del terzo atto, interamente costruita sui Romances che Hugo elenca tra le fonti primarie della sua ispirazione.

In altri casi si tratta di temi propriamente narrativi, primo fra tutti quello del corno fatale, cui Ernani accenna nel primo atto, per poi offrirlo in garanzia a Silva alla fine del terzo; oppure i replicati tentativi di ratto, o beffa, operati dal re, o ancora i reiterati duelli interrotti fra i tre rivali.

Ultimi, ma non certo per importanza, gli spunti più propriamente immaginifici, che, con il loro ripetersi formano lo stile stesso della costruzione drammatica, collocandosi quasi al confine tra il racconto e lo spettacolo. Tali, ad esempio, il disvelarsi dei personaggi che si presentano nascosti per poi aprirsi al riconoscimento: succede soprattutto per il re, che si scopre nel primo atto, prima presentandosi alla cameriera, poi uscendo all’improvviso dall’armadio e finalmente rivelando la sua identità; ma succede anche per Ernani, che si svela nel terzo atto, dopo essersi presentato come pellegrino e poi nel quarto quando, con una particolare sorta di agnizione, rivela l’antica nobiltà da cui discende; e succede, in forma più segreta, per Silva, allorché si manifesta suonando il corno fatale dopo essere apparso quasi come un fantasma. Spunti, dicevamo, che assumono spesso uno spiccato valore spettacolare, come vere apparizioni, che quasi ricordano quelle degli eroi del Kabuki. Tali l’apparizione di Ernani, che blocca il tentativo di ratto operato dal re nel secondo atto, e, soprattutto, l’apparizione di Carlo che esce dalla tomba di Carlo Magno annunciando la propria assunzione al trono imperiale. Ma si potrebbero ancora ricordare le apparizioni di Silva, quando in due occasioni sorprende doña Sol in compagnia di uomini – drammatiche certamente, ma al tempo stesso roba da commedia o addirittura, come già detto, da pochade. In tutti questi casi le apparizioni sono esse stesse, o provocano un tableau, quello stilema cioè che, già dalla fine del Settecento, era entrato nel linguaggio del teatro, consistendo nell’improvviso immobilizzarsi dei personaggi che, con la loro fissità da museo delle cere, sottolineavano l’intensità patetica del momento. Ed è da notare che tali situazioni sceniche erano spesso accompagnate da un intenso movimento coreografico di comparse – così il primo ingresso in scena di Silva, così l’irrompere di Carlo nel di lui castello seguito da un fiume di armati, così, ovviamente, l’apparizione di Carlo imperatore sui gradini della tomba, mentre i suoi soldati imprigionano i congiurati.

Le funzioni attanziali dei personaggi sono mobili e varie. Ciò dipende in parte, come accennato, dalla configurazione stessa dell’intreccio, ma in buona parte anche, ovviamente, dalle definizioni di tipo sociale come dai tratti psicologici e morali loro attribuiti e sui quali essi sono stati immaginati e costruiti, dalle tensioni fra i loro impulsi. Non è certo una novità: il contrasto delle passioni, come si diceva nell’Ottocento, è stato spesso considerato tratto essenziale della tragedia neo-classica – così l’amore di Tito per Berenice confligge con la missione politica dell’imperatore, così il senso dell’onore si oppone alla passione del Cid per Chimène:

Contre mon propre honneur mon amour s’intéresse

Il faut venger un père et perdre une maîtresse.

Ma in Ernani non si tratta tanto di principi assoluti che si scontrano nell’interiorità del personaggio, quanto piuttosto di pulsioni che si intersecano e si sovrappongono in un irrisolto intreccio di destini.

Vediamo un po’ più da vicino come si presentano le cose.

Ernani è il personaggio eponimo e il suo nome stesso, insolito e misterioso, lo colloca al di fuori dei grandi eventi storici dove pure è inserito. Tuttavia, quel nome, che fu oggetto di battute ironiche nelle parodie che  fiorirono subito (addirittura prima dell’esordio), ha un significato tutto speciale in quanto preso da quello del villaggio dove il piccolo Victor, assieme alla madre e ai fratelli, fece la sua prima sosta in Spagna durante il viaggio intrapreso per fare visita al padre, generale napoleonico. Come a dire che il dramma è prima di tutto un sogno spagnolo, il cui sapore va cercato nei ricordi vissuti e nelle reminiscenze letterarie che vengono dalla realtà e dalla cultura spagnole. Ma anche – qualcuno ha sostenuto – dalla nostalgia per un padre tanto a lungo assente, ma alla fine determinante per le scelte morali e politiche dell’autore.

Ernani è, prima di tutto, un bandito e in quanto tale costituisce la macchia oscura che sporca la nobile società al cui interno soltanto dovrebbe svolgersi l’azione tragica. È un principio enunciato, uno dei cardini della poetica di Hugo, secondo la quale, così come il bello e il brutto, anche il nobile e il miserabile, l’alto e il basso dovrebbero mescolarsi nel dramma. Ernani sembra ricalcato sul Didier di Marion Delorme (la cui abilità di spadaccino fa dubitare che si tratti proprio di un miserabile: molto più effettivamente alternativi saranno personaggi come il Gilbert di Marie Tudor o come lo stesso Ruy Blas), ma diversamente da Didier, alla fine rivelerà la sua piena appartenenza alla società nobiliare e anzi feudale, i cui contrasti interni lo avevano portato a farsi bandito. Anzi, è proprio per rientrare in questa società che Ernani, anche se questo risultato appare casuale e ciò che dichiaratamente lo spinge all’azione è un prepotente quanto assurdo desiderio di vendetta per la morte del padre che sarebbe stato giustiziato dal padre del re Carlo – Filippo il Bello (morto nel 1506), forse durante una delle sue rare incursioni in Spagna di vent’anni prima. Desiderio di vendetta che pretende di qualificarsi come assoluto slancio passionale, dettato dal sentimento dell’onore, ma che si scioglie come neve al sole nel momento in cui l’imperatore Carlo V, perdonando, lo reintegra nei suoi titoli e, soprattutto, gli consegna doña Sol.

Personaggio verboso per eccellenza (ma, a ver dire, Silva non gli è molto da meno) Ernani sembra meritare il ruolo di protagonista soltanto per il numero di versi che gli sono attribuiti. Incapace di promuovere l’azione, si erge soltanto come oppositore, ponendosi alla pari del re. Ma le sue lunghe tirate, di rado liricamente espressive di sentimenti d’amore, si qualificano piuttosto per una lamentosa auto-commiserazione che certamente immiserisce il personaggio e addirittura rende poco credibile la sua passione amorosa spesso sembrano addirittura pretesti per liberarsi di Sol (stilema ricorrente negli amanti da commedia stanchi di una loro relazione: “non sono degno di te”). È probabile l’attore che ne interpretò il ruolo nel 1830, Firmin, noto come “jeune premier tenebreux”, abbia per così dire, romanticizzato il personaggio, attribuendogli un colorito misterioso che forse non meritava.

Amante poco credibile, l’unica forza sentimentale che lo muove sembra essere la gelosia (fratello anche in questo di Didier). Al punto da insultare pesantemente Sol quando sembra che ella sia costretta a sposare Silva o il re – salvo poi a “perdonarla” quando lei lo assicura di essere pronta ad uccidersi. Ed è questo, come l’auto-compatimento, un tema ricorrente nelle sue tirate.

Personaggio squisitamente inautentico, in quanto tutte le forze che lo muovono provengono dall’esterno – dalla cultura, dalle convenzioni sociali – Ernani trae la sua dimensione poetica proprio, paradossalmente, da tale inautenticità, vivendo con angoscia l’intrico delle sensazioni e dei sentimenti che gli sono imposti o che si è involontariamente assunto, finendo alla fine vittima del più esteriore degli assunti, la parola data, ossia il punto d’onore vissuto come destino.

Lo stesso punto d’onore informa anche la condotta di don Ruy Gomez da Silva. Ma in lui si fa principio politico e storia, in quanto consiste principalmente nella rivendicazione del diritto feudale e della gloriosa tradizione della famiglia, diventata sangue e mitizzata nella scena dei ritratti (III,5) ricorrendo alle leggende dei romances – altro elemento che concorre all’ambientazione ispanica del dramma.

Silva è personaggio quasi altrettanto verboso quanto Ernani, ma la tonalità fondamentale delle sue tirate è radicalmente diversa. Anche lui si lamenta spesso, ma per la perduta giovinezza, e si tratta piuttosto di rimpianto, della rievocazione di quella felicità perduta o mai vissuta, codificata nei motivi letterari, ma liricamente pregnante. All’amore di Silva per la nipote è facile credere poiché lui stesso sa qualificarlo come ritorno di un sogno che assume le belle forme di Sol, ma anche nel risvolto pratico del conforto e dell’assistenza che una giovane moglie (diventando “badante”, diremmo oggi) può offrire a un vecchio marito.

Funzionalmente il ruolo di Silva dovrebbe essere quello dell’oppositore, dell’ostacolo che si frappone nell’amore di due giovani – oppure quello del marito cornuto, visto che Sol gli è di fatto infedele ancor prima di sposarlo – anche se, garantisce Ernani, l’adulterio non è stato materialmente consumato. Ed è proprio in questa direzione che la figura del duca si fa patetica: nel terrore del ridicolo, nella paura che si rida dei suoi capelli bianchi, un vero Leit-Motiv che ritorna in quasi tutte le scene in cui egli interviene. E che questa paura sia in particolare legata all’incongruità del suo amore senile è un ovvio sottinteso, che si esplicita soltanto alla fine nel rifiuto di accettare l’affetto di seconda mano che doña Sol ed Ernani, ormai sposi, gli offrono. Così, nel finale, il duca può apparire come personificazione di quel destino che per Ernani è contenuto nella parola data, in quanto quel paventato ridicolo diventa adesso evidente: Carlo, divenuto imperatore, ha potuto rinunciare al suo amore perché a lui rimane la gloria; Silva non può perché gli resta solo lo scorno: «Moi seul je reste condamné» sono le sue parole dopo la sentenza di Carlo quinto.

Il quale è l’unico personaggio storico del dramma, protagonista dell’evento, effettivamente grandioso, che lo definisce cronologicamente, e attorno al quale si dipana il piccolo, anche se complicato intreccio amoroso. Ma il fatto si è che egli è parte fondamentale anche di quell’intreccio, il cui esito sembra determinato dallo stesso grande evento, mentre in realtà, alla fine, saranno altre forze, le piccole storie dei comprimari a condurlo alla sua tragica conclusione.

La trasformazione di Carlo è radicale, e non solo sul piano della funzione attanziale. Nei primi tre atti la sua azione, sempre aggressiva e spesso violenta, è ispirata prevalentemente dal suo interesse personale nella storia d’amore, o, sul piano politico, da motivi comunque contingenti. Ma nel quarto, investito di una missione suprema, è capace di riflettere a fondo sui destini dei regni e degli uomini, ponendosi al di fuori e al di sopra di tutte le contingenze – degno erede di Carlo Magno, dalla cui tomba esce trasformato.

Al contrario di Silva e di Ernani, Carlo è personaggio di poche parole. Pure a lui toccherà l’unico vero e grande monologo del dramma un soliloquio di ben 161 versi nel quale l’attore Michelot riscosse un grande successo personale per quanto avesse spesso recitato “a controsenso”, probabilmente per difendere il ritmo degli alessandrini. In questo soliloquio  converge un’attesa sapientemente centellinata fin dal primo atto – quasi una seconda linea drammaturgica, che sovrasta quella principale pur essendone assorbita. Carlo, infatti, di quella principale linea narrativa si presenta come protagonista: come già detto è lui che mette in moto l’azione.

Siamo nel 1519, l’anno in cui i sette grandi elettori consegnarono al re di Castiglia e di Aragona (è ancora improprio parlare di Spagna) la corona del Sacro Romano Impero. E nel 1519 Carlo d’Absburgo aveva esattamente diciannove anni, un’età quindi adatta alle gesta e agli intrighi amorosi. Il suo rivale è quindi Ernani, a lui coetaneo: Silva non viene mai preso in considerazione, anche se è a lui che viene praticamente strappata doña Sol. Rivale in amore, poiché la rivalità politica viene forzosamente introdotta da Ernani.

Ma l’amore di Carlo è qualcosa di diverso – fascinazione assoluta della bellezza desiderata, tanto assoluta da far capolino anche nel momento in cui attende l’elezione: «Cours la chercher. Peut-être on voudra d’un César!», quanto, di fatto, materiale. Carlo non è geloso: egli sa, con Dante, che in amore «non è mestier di consorte divieto». Perciò arriva a proporre ad Ernani un’intesa: in quella donna c’è abbastanza amore per tutti, dunque «Partageons. Voulez vous?» . Sembra una volgarità, pure è un tratto di grandezza in quanto trascende i pregiudizi sociali che trasferiscono la purezza delle donne nell’onore degli uomini, inquinando il concetto stesso dell’amore.

Per questo, forse, l’amore di Carlo è stato percepito come l’unico autentico, tanto che nel melodramma verdiano a lui viene attribuita la più bella aria d’amore, quella che comincia «da quel dì che t’ho veduta», quasi a raccontare – lui si! – “come siasi innamorato”.

Di doña Sol si è già notato come si tratti di un personaggio sostanzialmente silente, la cui parte sembrerebbe dover consistere soprattutto nelle controscene affidate alla virtù mimica dell’attrice. Le sue brevi battute hanno talvolta uno straordinario contenuto pratico: durante il primo incontro con Ernani, a lui che si dilunga sul suo amore e sulle sue disgrazie, lei ribatte con femminile ragionevolezza «dites moi si vous avez froid» e poi «Allons! Donnez la cape», oppure «Calmez vous». E quando Ernani fa un lungo elenco dei rischi e dei disagi della sua vita, lei risponde semplicemente «Je vous suivrai».

Ma quando, nel secondo atto, re Carlo cercherà di rapirla, da un lato lei saprà semplicemente rispondere «Je ne vous aime pas», così come Carmen, quarant’anni più tardi, all’appassionata supplica di don José replicherà soltanto «Non, je ne t’aime plus»; ma dall’altro lato troverà efficaci argomenti, addirittura storico-politici, per respingerlo, rimproverandogli l’indegnità della sua condotta, e passare poi alla supplica retoricamente articolata.

E ancora una volta la sua ragionevolezza troverà modo di manifestarsi nel momento della massima tensione, quando Silva viene a pretendere che Ernani mantenga il suo giuramento di morte – al che Sol reagisce definendo quel giuramento inefficace: «Crime! Attentat! Folie!». E, passando dall’esclamazione all’argomentazione minacciosa, conclude ancora una volta, come già di fronte a Carlo, con una pregnante supplica, spoglia di retorica e fatta soltanto di esclamativi:

Ah! Je tombe a vos pieds! Ayez pitié de nous !

Grace ! Helas ! monseigneur, je ne suis qu’une femme,

Je suis faible, ma force avorte dans mon âme

Je me brise aisement. Je tombe a vos genoux !

Ah ! je vous supplie, ayez pitié de nous !

Al contrario Ernani, aveva argomentato ricorrendo alla classica serie di concessive :

Oh! S’il te reste un coeur, ou tout de moins une âme

Si tu n’es pas un spectre échappé de la flamme,

Un mort damné, fantôme ou démon désormais,

Si Dieu n’a point encore mis sur ton front : jamais !

Si tu sais que c’est que ce bonheur suprême

D’aimer, d’avoir vingt ans, d’épouser quand on aime,

Si jamais femme aimée a tremblé dans tes bras,

Attends jusqu’à demain ! Demain tu reviendras !

Hernani è un dramma notturno. Soltanto il terzo atto, quello fitto di accadimenti che imprimono all’azione una svolta decisiva, sembra aver luogo di giorno (ma non ci sono indicazioni in proposito). Tutto sembra dunque succedere nel buio: la luce esplode soltanto nell’ultimo atto, per la festa di nozze di Ernani e doña Sol, ma si tratta anche qui di una luce artificiale e parziale, che peraltro viene spegnendosi per lasciare che il dialogo fra gli sposi e la successiva catastrofe siano anch’essi immersi nell’ombra.

Si sa che Victor Hugo era molto attento alla scenografia, di cui spesso disegnava lui stesso i bozzetti, come all’intera messa in scena che tentava di dirigere o almeno di impostare a partire dalla prima lettura. Ci si chiede allora quale ruolo possa aver avuto la luce, nella fantasia dell’autore, ma altresì in una realtà scenica tecnicamente già abbastanza avanzata, ma priva di certi strumenti, come l’occhio di bue, che permette di estrarre un personaggio dal contesto portandolo in primo piano, come paiono addirittura pretendere alcuni passaggi, quali le ripetute apparizioni. In particolare quella di Carlo V che esce dalla tomba di Carlo Magno per ammutolire i congiurati.

Nel 1830 l’effetto primo piano, se così possiamo chiamarlo, doveva essere affidato alla mera virtù dell’attore e alla complessiva disposizione coreografica. C’è tuttavia un’immagine relativa all’ultimissimo momento, con la morte di Ernani e doña Sol, nel contesto della “battaglia” che si svolge in platea (fig. 3). Secondo questa immagine (difficile dire quanto credibile: è di sei anni posteriore all’evento) la morte dei due amanti avrebbe luogo proprio sul proscenio, certamente formando tableau. Sarà allora facile pensare che “scendere in proscenio” fosse ancora (come talvolta rimane ancora oggi, soprattutto nell’opera lirica) la modalità principe per estrarre un personaggio dall’insieme scenico. Si pensi a quale valore avrebbero in tal caso potuto assumere le controscene mute di doña Sol, se non fossero state tarpate dalla povera mimica di mademoiselle Mars. Ma esiste anche una litografia di Deveria (fig. 4), che mostra Sol curva sul morente Ernani, con il duca Silva che li osserva immobile. In questo caso il tableau è collocato più all’interno, ma come se la scenografia avesse previsto una sorta di terrazzina-salotto (c’è addirittura un divano), dove si sarebbero collocate anche le effusioni dei due amanti.

È comunque probabile che l’intera rappresentazione del 1830 avesse luogo piuttosto in una diffusa penombra (con la possibile eccezione del terzo atto e della prima parte del quinto) e che per conseguenza il mood notturno rimanesse sostanzialmente suggerito dall’espressione verbale e dall’azione coreografica.

Ma sarebbe anche possibile riesaminare alcune riprese e in particolare quella del 1867, oppure quella del 1877 con Sarah Berhardt nel ruolo di doña Sol  e Mounet-Sully in quello di Ernani, nelle quali l’illuminazione a gas, ormai perfezionata e anzi sul punto di essere sostituita da quella elettrica, potrebbe aver introdotto sostanziali novità.

Varrà allora la pena, in conclusione, di spendere due parole almeno sulla ripresa del 1867, la prima dal 1838, allorché Hernani era stato riproposto al pubblico parigino in un breve corso di dodici recite.

Hernani tornò dunque sulle scene della Comédie Française il 20 giugno del 1867 dopo una lunga trattativa con l’ autore, in esilio da sedici anni a causa della sua dura opposizione al regime di Napoleone III – Napoléon-le-petit. La messa in scena fu diretta da Auguste Vacquerie, giornalista e autore drammatico, ma soprattutto fraterno sodale di Victor Hugo. Il successo fu enorme, con ben 71 repliche a teatro sempre quasi esaurito.

All’epoca si parlò di una “seconda battaglia dell’Ernani”, oggi del tutto dimenticata. Anche in questa occasione infatti furono distribuiti centinaia di biglietti omaggio per assicurare la buona riuscita della ‘prima’ e per mettere a tacere la voce degli oppositori – che peraltro non ci furono. Così, la ‘battaglia’ (se pur è lecito usare questo termine) si trasferì sugli organi di stampa, ed è stata puntualmente ricostruita in due saggi di Maria Luisa Premuda. Gli esiti di tale polemica giornalistica furono abbastanza paradossali, visto che non si trattò di uno scontro fra laudatori e detrattori – pochissimi essendo quelli che negarono decisamente il valore dell’opera come Francisque Sarcey. Si trattò piuttosto di una sotterranea contesa fra quanti cercarono di esaltare il significato politico dell’evento (il grande esiliato era diventato la bandiera dei democratici) e coloro che invece volevano mantenersi su un piano puramente culturale – letterario e teatrale. In ogni caso si ripropose lo strano intreccio che ha caratterizzato l’atteggiamento della critica contemporanea nei confronti dell’opera drammatica di Hugo. Intreccio e contraddizioni dovuti al fatto che i progressisti politicamente vicini a Hugo erano spesso di origine giacobina e quindi sostenitori del classicismo in cui si incarnava la virtù del citoyen, mentre i romantici che, come lui, sostenevano le nuove forme artistiche e drammatiche, avevano per lo più, come lui, radici cattoliche e monarchiche, né molti, fra il 1830 e il 1867, avevano come lui conosciuto una decisa evoluzione in senso democratico e repubblicano. Ci furono anzi clamorosi arretramenti, come quello di Théopile Gautier, il condottiero della prima “battaglia” diventato uomo della corte dell’imperatore.

Comunque, ci fu profondo disaccordo anche tra quanti volevano mantenersi su di un piano marcatamente culturale. Alcuni denunciarono la sostanziale “inutilità” di questa ripresa, che poteva avere soltanto un valore archeologico, visto che il Romanticismo non solo aveva già vinto la sua battaglia, ma era anche stato a sua volta superato da nuove istanze estetiche. Altri invece ritenevano che Hernani fosse squisitamente attuale in quanto riproponeva il ritorno all’ideale, in contrasto con il materialismo delle poetiche veriste.

Sotto in profilo dell’interpretazione scenica gli interventi giornalistici che precedettero la “prima” furono per lo più scettici sulla possibilità che attori, disabituati ormai a recitare in versi e abituati semmai a un repertorio di commedie leggere o, al massimo, ai lavori pseudo-realisti di Dumas fils o di Pailleron, potessero adeguarsi all’alto respiro della poesia hugoliana. Pare invece che m.lle Favart, nel ruolo di doña Sol, Delaunay in quello di Ernani, Maubant nella parte di don Ruy Gomez da Silva e Bressant, interprete di don Carlos, se la siano cavata benissimo introducendo nei loro personaggi inedite sfumature psicologiche.

Sarebbe possibile farsi un’idea dello spettacolo relativamente credibile grazie non tanto alle cronache giornalistiche, quanto piuttosto alle incisioni pubblicate dai periodici di quei giorni – si tratta spesso di caricature. Mi limiterò a un esempio che potrebbe rivelare come la dimensione comica o addirittura grottesca implicita nel testo sia stata conservata, se non addirittura sottolineata, in qualche episodio: don Carlos portava un costume con ampie maniche a sbuffo che spesso lo impacciavano nei suoi movimenti. Ma c’è una vignetta inserita nella complessa incisione di Hadol pubblicata dallo «Charivari» del 4 luglio che lascia immaginare come una di quelle maniche sia rimasta impigliata fra le porte dell’armadio nel quale il re si nasconde nella prima scena, la cui valenza da commedia ho cercato di sottolineare qui sopra.

Purtroppo invece nulla sono in grado di dire sulla questione luministica, da cui ha preso lo spunto per accennare a questa importantissima ripresa del 1867.

Nota bibliografica

Nel corso di questo articolo, della sterminata bibliografia su Victor Hugo, ho citato soltanto i due importanti saggi di Maria Luisa Premuda Perosa: Il ritorno di ‘Herani’ alla Comédie Française  (1867) e L’avanguardia politico-letteraria di fronte alla ripresa di ‘Hernani’ (1867), in «Annali della Facoltà di Scienze politiche», Università di Perugia, 1990-91, in quanto da essi ho tratto temi e informazioni relativi alla ripresa del 1867.

Altri e più generali testi di riferimento sono:

–         Jean Gaudon, Victor Hugo dramaturge, L’Arche, Paris 1955.

–         Henri Guillemin, Victor Hugo par lui-même, Seuil, Paris 1964

–         Anne Uebersfeld, Le roi et le bouffon. Etude sur le théâtre de Hugo de 1830 à 1839, Corti, Paris 1974.

–          Raymond Pouilliart, Introduction, in Victor Hugo, Théatre, Flammarion, Paris 1979 (con saggi introduttivi ai singoli testi, biografia e bibliografia).

–          Hubert Juin, Victor Hugo, Flammarion, Paris 1984.

–          Anne Uebersfeld, Le roman d’Hernani, Mercure de France, Paris 1985.

–          Adèle Hugo, Victor Hugo raconté par Adèle Hugo, Plon, Paris 1985.

–          Gianni Iotti, ‘Hernani’ nel 1867 : la corrispondenza di Hugo e le reazioni della stampa parigina, in «Annali della Facoltà di Scienze politiche», Università di Perugia, 1990-91.

–          Alain Decaux, Victor Hugo, Perrin, Paris 2001.

–          Jean Michel Hovasse, Victor Hugo, Fayard, Paris 2008

http://www.drammaturgia.it/saggi/saggio.php?id=5163

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CromwellPréface

Le drame qu’on va lire n’a rien qui le recommande à l’attention ou à la bienveillance du public. Il n’a point, pour attirer sur lui l’intérêt des opinions politiques, l’avantage du veto de la censure administrative, ni même, pour lui concilier tout d’abord la sympathie littéraire des hommes de goût, l’honneur d’avoir été officiellement rejeté par un comité de lecture infaillible.

Il s’offre donc aux regards, seul, pauvre et nu, comme l’infirme de l’Evangile, solus, pauper, nudus.

Ce n’est pas du reste sans quelque hésitation que l’auteur de ce drame s’est déterminé à le charger de notes et d’avant-propos. Ces choses sont d’ordinaire fort indifférentes aux lecteurs. Ils s’informent plutôt du talent d’un écrivain que de ses façons de voir ; et, qu’un ouvrage soit bon ou mauvais, peu leur importe sur quelles idées il est assis, dans quel esprit il a germé. On ne visite guère les caves d’un édifice dont on a parcouru les salles, et quand on mange le fruit de l’arbre, on se soucie peu de la racine.

D’un autre côté, notes et préfaces sont quelquefois un moyen commode d’augmenter le poids d’un livre et d’accroître, en apparence du moins, l’importance d’un travail ; c’est une tactique semblable à celle de ces généraux d’armée, qui, pour rendre plus imposant leur front de bataille, mettent en ligne jusqu’à leurs bagages. Puis, tandis que les critiques s’acharnent sur la préface et les érudits sur les notes, il peut arriver que l’ouvrage lui-même leur échappe et passe intact à travers leurs feux croisés, comme une armée qui se tire d’un mauvais pas entre deux combats d’avant-postes et d’arrière-garde.


 

La Fonction de poète Victor Hugo, Ludwig van Beethoven Sinf. n. 3 “Eroica”

http://www.controappuntoblog.org/2012/12/14/la-fonction-de-poete-victor-hugo-ludwig-van-beethoven-sinf-n-3-eroica/

DEL GRANDE METODO Victor Hugo

http://www.controappuntoblog.org/2012/06/01/del-grande-metodo-victor-hugo/

Au bord de la mer Victor HUGO – Gustave Samazeuilh – Le chant de la mer

http://www.controappuntoblog.org/2013/06/11/au-bord-de-la-mer-victor-hugo-gustave-samazeuilh-le-chant-de-la-mer/

 

Les Misérables – La Faute A Voltaire -L’elefante della Bastille

http://www.controappuntoblog.org/2013/02/08/les-miserables-21-la-faute-a-voltaire-2/

Victor Hugo I MISERABILI secondo volume

http://www.controappuntoblog.org/2012/02/20/victor-hugo-i-miserabili-secondo-volume/


Les Misérables – 21 – La Faute A Voltaire

http://www.controappuntoblog.org/2013/02/08/les-miserables-21-la-faute-a-voltaire-2/

 

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