Ancora sulla “sofferenza” in carcere

Ancora sulla “sofferenza” in carcere

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Nei post precedenti abbiamo parlato della sofferenza in carcere, del dolore che il carcere impone.

Eppure convivere col dolore, paradossalmente può essere salutare. La sofferenza smonta l’unità fittizia del tuo essere, mette in crisi il dogma: stare in buona salute! È un imperativo dell’uomo e della donna contemporanei. È una finzione che ti chiede di presentarti socialmente unito/a e coerente tra il tuo “essere sociale” e il tuo stato effettivo di benessere o sofferenza.  Ma è un’unità falsa, perché ovunque sia, in qualsiasi momento della vita, ogni essere umano è sottoposto a una qualche forma di dolore.

La realtà del carcere non soggiace alla regola sociale di stare in buona salute  e il corpo si spezzetta in tante parti e ciascun organo manifesta le proprie necessità, che premono perché sono negate.  Che succede? Ciascun organo per conto suo, non c’è più una direzione centrale? I piedi vorrebbero correre, ma possono fare solo due passi, la schiena è dolorante e vuole sdraiarsi, la testa vuole smettere di pensare, puoi chiudere gli occhi, sentire musica, annegare nella Tv.

Per gli “esterni”, i cosiddetti “liberi” “stare in salute” è un obbligo sociale e lavorativo, prima ancora che un‘attenzione verso il proprio corpo. La falsificazione dello stato di salute. Il salutismo è la religione dei paesi e delle classi abbienti. In realtà è inconsapevolezza dello stato del proprio corpo, inconsapevolezza delle sofferenze che ci sono, che convivono con noi, ma che cerchiamo di rimuovere, nascondendole a se stessi. E per fortuna sono tanti e diffusi gli analgesici a disposizione contenuti nel rito dei consumi: quanti dolori fa scomparire quel supermercato addobbato di cose, i mille divertimenti, i locali e localetti. “ho scoperto un localetto che è un amore” è l’invito più diffuso nel fine settimana. Poi ci sono i ritmi frenetici del lavoro e degli obblighi quotidiani, le relazioni rituali: a cena da questo o da quello, gli auguri a quegli altri, la nascita, la casa da comprare, le vacanze da organizzare. La gamma è vastissima, da quelli chimici, legali e illegali, a quelli sociali, lo status, l’importanza, la carriera, un lavoro importante, e i consueti casa e macchina, la coppia, la famiglia, ecc.

In carcere inizia la battaglia dell’uomo e della donna per impossessarsi del proprio corpo. Il carcerato sente che l’amministrazione carceraria si vuole impossessare del proprio corpo. È una battaglia micidiale dentro il carcere. Scomparse le mediazioni sociali, la battaglia è senza quartiere. È una battaglia decisiva che devi vincere ad ogni costo per gestire tutte le rinunce imposte e tutti quei bisogni che non puoi soddisfare, quei desideri che devi ricacciare indietro, in fondo, in attesa di… Tutte le esperienze precedenti tornano e si misurano con l’esperienza particolare della segregazione. Si dice: “quello non regge la galera perché prima di finirci ha fatto una vita comoda”.

La parola “corpo” oggi è usata frequentemente. La si usa per ogni evento: “mettiamo in gioco i nostri corpi”; “opponiamo i corpi alla crisi”,…ecc.,  ecc. Ma non mi pare che nessuna donna e nessun uomo domandi al proprio corpo quali siano le sue necessità; quali i bisogni,  i desideri, i fastidi, le sofferenze.

La galera impone il dolore, il carcerato cerca di farsi alleato il dolore, perché non può evitarlo, perché non può scacciarlo, è prodotto da fatti esterni a lui, allora cerca di farselo amico, cercando di controllarlo, anche propinandoselo volontariamente in dosi controllate: l’autolesionismo, il tatuaggio, la ginnastica fatta fino all’esaurimento, ecc., sono pratiche di dolore controllato e autoinflitto.

Perché il punto non è eliminare quote di dolore, ma eliminare quello inflitto da un sistema esterno, imprevedibile e incontrastato: il sistema carcere. Il dolore in carcere è una costante, ed è provocato da fatti estranei al singolo carcerato: la tensione tra guardie e detenuti si innalza per un motivo neanche conosciuto; oppure si innalza la tensione nella comunità prigioniera per motivi che il singolo non conosce bene, oppure immagina ma che non controlla.

A volte la causa può essere una circolare ministeriale che impone restrizioni, un trasferimento inaspettato e fastidioso, un malanno che non riesci a curare, la paura che ti colpisca qualche malattia che renda più penosa la tua condizione, che non potrai curare, le notizie che provengono da fuori, sventure verso amici o familiari su cui non puoi intervenire, notizie che ti dicono che la tua vicenda processuale si mette più male di quanto avevi previsto…. e mille altri motivi…..

Il dolore ci insegna quanto la vita rechi in se la possibilità di diventare la propria nemica… ma dobbiamo dargli ascolto

http://contromaelstrom.com/2013/06/22/ancora-sulla-sofferenza-in-carcere/

 

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