VIOLETTA MON AMOUR – Un’analisi a tutto tondo della Traviata di Verdi

VIOLETTA MON AMOUR – Un’analisi a tutto tondo della Traviata di Verdi

 Camille (La Dame aux Camilias) by Alexandre Dumas …

Marie Duplessis, ritratta da Camille Roqueplan

 Per una volta Verdi aveva fatto un’eccezione: niente drammone storico, non personaggi in costume né tragedie di sangue spesso segnate da eventi alquanto improbabili e da truci vendette. La storia di quella giovane bellissima e infelice, di dominio pubblico a Parigi, era giunta anche in Italia attraverso le pagine della Signora delle Camelie il romanzo (poi anche opera teatrale) ispirato alla storia vera di Alphonsine Plessis detta Marie Duplessis, una ragazza conosciuta personalmente da Alexandre Dumas figlio (di cui era stata anche l’amante) e morta giovanissima. Particolarmente scandalosa per l’epoca era stata la sua storia d’amore con Agenor Gramont de Guiche un rampollo di nobilissima famiglia. Verdi ne era rimasto colpito, forse perché anche lui viveva una relazione clandestina con la cantante Giuseppina Strepponi  che non poteva portare all’altare essendo già sposata e separata dal marito. Ne sapeva qualcosa, quindi, di relazioni messe all’indice dalla società, capaci, se scoperte, di stroncare una carriera, gettare il discredito su un’intera famiglia ed emarginare da tutto e da tutti. La giovane Marie Duplessis era una prostituta di alto bordo, un’accompagnatrice chic, una mantenuta, come si diceva allora con un eufemismo. Del resto, era un mondo che ricorreva spesso a eleganti eufemismi che imbellettavano sapientemente la volgarità: così qualche giorno al mese, la camelia bianca che campeggiava sempre sul suo bel decoltè per esaltarne la sensualità veniva mutata in rossa; in tal modo i suoi affezionati ammiratori sarebbero stati avvisati in anticipo che Marie non era disponibile… Inutile avvicinarsi troppo!

Alla fine l’argomento dell’opera venne considerato così scandaloso e il riferimento alla vera storia di Alphonsine talmente chiaro a tutti, che tra roventi polemiche la prima alla Fenice di Venezia per il carnevale 1853 fu un vero fiasco. Solo l’anno successivo e retrodatandola di due secoli l’opera venne accettata dal pubblico. Verdi portando alle estreme conseguenze i precedenti di Luisa Miller e Stiffelio, aveva creato, infatti, l’opera lirica realista di argomento contemporaneo, che non enunciava un teorema filosofico come in Mozart, ma raccontava una vicenda nella quale immedesimarsi e il pubblico non gli aveva perdonato facilmente di mostrare apertamente una vicenda assai verosimile e sentimenti così diretti senza il filtro della «Storia». 

La Traviata è prima di tutto un dramma psicologico dove – nonostante la tendenza verdiana alla sintesi sia portata all’estremo, forse per non indulgere al sentimentalismo – i personaggi principali risultano piuttosto complessi, contraddittori e raffinati, ma anche le caratteristiche della società sono studiate con pungente ironia e originalità.

 

 
O GIOIA CH’IO NON CONOBBI, ESSERE AMATA AMANDO…

La prima scena si apre con una festa all’insegna del gioco e dei piaceri della tavola o dell’eros: una sorta di baccanale rinascimentale caratterizzato dal gusto del travestimento, come se si svolgesse in una dimensione fantastica in cui tutto è permesso. Nell’opera il tema della maschera è ripreso più volte in genere con significati simbolici. Il piacere è sempre in maschera (legato probabilmente al carnevale della prima rappresentazione), come se per viverlo fosse necessario uscire dalla dimensione comune della vita, ma anche perché in questi allegri festini ognuno recita una felicità del tutto esteriore, prigioniero del ruolo assegnatogli nel contesto sociale della facoltosa e fatua borghesia parigina (nel II atto, infatti, Violetta, seppure distrutta dalla decisione di lasciare Alfredo, di fronte a tutti reciterà la parte della mantenuta del barone). La filosofia è semplice: carpe diem: godere dei piaceri della vita senza riserve e senza molti limiti, perché «l’amistà qui s’intreccia al diletto»: per questo Verdi sceglie il nome di Flora per la padrona di casa, ricordando i baccanali tizianeschi. Tutti amici troppo facilmente, perché ci sia qualcosa di lontanamente vero. Un’intimità esteriore che non corrisponde a nulla di autentico e profondo. Sono tutti solo compagni di baldoria e trasgressione, fuori da quell’ambiente potrebbero anche far finta di non conoscersi… Per questo Violetta rimane molto colpita dal sincero interessamento di Alfredo per la sua malattia e dal fatto che il giovane sia venuto ogni giorno ad informarsi delle sue condizioni. Violetta sa che gli uomini per lei a parole farebbero di tutto, ma di fatto per loro rappresenta solo la curiosità di una notte o un divertimento che di tanto in tanto ci si può permettere. Per questo non può dire a nessuno di essere malata, e dissimula in tutti i modi le sue condizioni di salute. «In cotal guisa v’ucciderete aver v’è d’uopo cura dell’esser vostro» le dice Alfredo preoccupato, ma Violetta gli risponde: «E lo potrei?». No, non potrebbe, perché è sola al mondo e si sente abbandonata da tutti in «questo popoloso deserto che appellano Parigi».

La vera storia di Alphonsine (Marie) Plessis la descrive orfana, sola al mondo, e costretta dalle necessità economiche a dover provvedere a se stessa fin da giovanissima.

Violetta non conosce altro modo di concepirsi se non quello dello scambio e del piacere fugace. Per questo quando Alfredo afferma di volerla proteggere non ci crede «Che dite? ha forse alcuno cura di me?» Non ha molta stima di se stessa, anche perché quasi ignora un altro modo di vivere. Quando le parlano del vero amore di Alfredo dice addirittura di non capire perché Violetta non sa più che cosa sia l’amore ed è certa che se da qualche parte dovesse esistere non sarebbe mai per lei. Quando Alfredo le dice che nessuno l’ama all’infuori di lui, la giovane risponde ridendo ironica: «Gli è vero! Sì grande amor dimenticato avea»

Anche il brindisi di Alfredo esalta il piacere fugace, se non che Violetta scopre in lui un poeta, qualcuno che sa farle battere il cuore. Il brindisi presenta ancora una volta un riferimento letterario cinquecentesco nell’immagine dello sguardo che onnipotente giunge al cuore, mentre la musica segue un ritmo sontuoso di valzer. Violetta risponde, infatti, secondo la sua filosofia, venata da quello scetticismo che poi le farà perdere Alfredo: si dividerà tra gli invitati perché «Tutto è follia nel mondo ciò che non è piacer» e la gioia dell’amore non dura più del nascere e del perire di un fiore.Eppure Alfredo è qualcuno che – e questa sì è una scoperta incredibile per lei – la ama nei fatti, seppure segretamente, da un anno; la ama a tal punto da rifiutare la sua «amicizia» e a questa offerta preferisce andarsene piuttosto che approfittarne. Le fa intuire che il piacere non è tutto e l’amore è ben altra cosa.

 «E’ strano! È strano! in core scolpiti ho quegli accenti!» afferma Violetta colpita improvvisamente dal forte sentimento che il giovane dimostra di provare e dal fatto che esso le ricorda «quel divino error» della sua fanciullezza quando immaginava anche lei l’amore con la A maiuscola. Tra l’altro, le immagini del piacere evocate da Violetta sono accompagnate da un vero e proprio «saggio» di bel canto ispirato alla vocalità settecentesca, affiancato dallo stile classico del melodramma verdiano, sottolineando, così, con questa soluzione musicale, la contraddizione insanabile tra amore terreno e amore eterno

Prima la giovane cerca di fuggirlo in tutti i modi, offrendo ad Alfredo la sua solita «piacevole» amicizia, ma, poi, con il classico espediente verdiano del duetto d’amore a distanza, la cabaletta «Sempre libera» si intreccia con la voce del tenore fuori scena che continua a proclamare il suo amore per la giovane come se le sue parole riecheggiassero nella mente di lei a guisa di un fiume in piena, irrefrenabili. Una grande invenzione che già Verdi aveva pianificato fin dal primo schizzo dell’opera nel 1852 così come i versi:

Di quell’amor ch’e’ palpito
Dell’universo intero,
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.

Come sempre Verdi inserisce alcune parole «sceniche» nel testo, passi e frasi che tornano («un duettino in cui saravvi una frase a ripetersi nell’aria») e che caratterizzano l’atmosfera dell’intera opera; ciò è dovuto al fatto che il grande compositore in fase di progettazione stendeva uno schema generale del melodramma appuntandosi alcune frasi che dettassero il clima di una scena o di un atto. Nel caso della Traviata, oltre a queste, che sottolineano la centralità universale dell’amore, troviamo allo stesso tempo anche l’idea della follia di credere nell’amore («follie, follie») e l’immagine continuamente evocata del sacrificio e della morte. Per quanto l’atto si chiuda sulle parole di Violetta che vagheggia la morte tra vortici di voluttà, ormai è inutile tentare di ripercorrere le note strade. Lo spettatore non ha dubbi: l’amore ha già vinto. Ma un’altra immagine comincia ad insinuarsi minacciosa: l’idea sempre più insistente del binomio eros-thanatos.

 

Agenor Gramont de Guiche il vero “Alfredo”

 VIOLETTA E LA SINDROME DI STOCCOLMA

La grande forza emotiva di quest’opera completamente concentrata sull’amore, si basa proprio sulla negazione e la fragilità intrinseca di questo sentimento. Nella Traviata l’amore è sempre fuggevole, nel momento in cui viene affermato è già in pericolo, è già minato alle fondamenta e quando non lo è Verdi lo rende tale, non raccontandolo, ricorrendo ad un’ellissi narrativa. Contrariamente a quanto avviene nell’opera teatrale di Dumas, Verdi sacrifica tutta la parte in cui i due giovani innamorati si incontrano e decidono di andare a vivere insieme. Dall’inizio della storia, quindi, si passa subito ad una sua prima drammatica conclusione; come nelle parole che Violetta dirà mentre si accinge ad andarsene ad un Alfredo del tutto ignaro e incapace di comprendere «Amami, Alfredo, quant’io t’amo. Addio» Esse esprimono appieno la felicità sempre fugace e l’amore traumaticamente spezzato nel momento in cui sembra aver trovato il proprio coronamento.Il II atto, infatti, si apre già sulla vita dei due giovani in campagna tre mesi più tardi e sulle loro prime difficoltà.. Si passa dall’unico attimo di gioia immensa di Alfredo che crede di vivere «quasi in ciel» da quando lei ha lasciato tutto per seguirlo, alla scoperta amara che Violetta si sta vendendo ogni cosa pur di venire in soccorso finanziario all’amante, diseredato dal padre. Il giovane Alfredo, così poco esperto della vita ed ingenuo («dell’universo immemore io vivo») sembra all’oscuro di tutto: come se si svegliasse da un bel sogno che «il vero» giunge a distruggere; ma questo è solo l’inizio della rovina, lo spettatore lo intuisce seguendo i tristi presentimenti che, come al solito, Verdi dissemina nel libretto e nella musica.

Alfredo non ha alcun senso pratico non sa niente della vita. E’ questa forse la motivazione per la quale si è innamorato di Violetta: la sua sostanziale innocenza ha saputo vedere quello che nessuno aveva visto in lei, ma è anche il suo difetto più grave. Così, mentre Alfredo tutto trafelato e mortificato va a Parigi per cercare soldi in famiglia, avviene l’impatto con la realtà più vera e gretta delle regole sociali: Giorgio Germont il padre del giovane, piomba nella loro casa di campagna dove trova Violetta e qui approfitta della situazione. La ragazza è sola ed è facile metterla in crisi: in fondo lei vede nel padre di Alfredo i genitori che non ha mai avuto, e poi ora che ha provato l’amore si sente sporca, indegna, a causa della vita di prima. Giorgio Germont capisce subito che questa non è la donna che si era immaginato: la trova, infatti, mentre sta vendendo tutto il suo patrimonio per poter mantenere Alfredo. Quindi Violetta, non è interessata al denaro e anche Germont si chiede perché abbia avuto un passato così disdicevole. Dopo un momento di stupore, però, le ragioni di famiglia prendono il sopravvento (sua figlia per via di questa relazione illecita è stata respinta dal fidanzato) e decide di andare comunque fino in fondo, solo cambia tattica: se davvero lei ama Alfredo lo lascerà proprio per non rovinarlo, si impone un «sacrifizio» esemplare. Perciò Violetta dovrà lasciarlo per sempre. Lei risponde che è impossibile, lo ama ed è sola al mondo, chi si occuperà di lei? E poi è malata le resta poco da vivere, così la ucciderà. Ma Giorgio sottovaluta questa affermazione e anzi approfitta della sensibilità della donna, facendo leva sui suoi sensi di colpa e sul suo desiderio inconscio di espiazione e sacrificio. La fa sentire addirittura parte della famiglia, anzi, una sua benefattrice: «Siate di mia famiglia l’angiol consolatore»

La società è molto chiara a riguardo: chi osa unirsi pubblicamente ad una donna come lei in una relazione seria e non come amante di una notte avrà tutta la famiglia marchiata dal disonore. Violetta tutte queste cose le sa. Si noti che Verdi nella cosiddetta trilogia popolare ha voluto mettere in scena tre personaggi reietti per vari motivi, tre personalità di emarginati e per questo destinati alla rovina, nonostante tutti i loro sforzi di creare un’isola di bellezza e verità nella loro vita. Il sentimento di vendetta o di disperazione prevale sempre. Germont la blandisce con i soliti luoghi comuni: è giovane e bella col tempo dimenticherà, ma Violetta afferma di voler amare solo Alfredo o morire. La musica di Verdi incalza la giovane e culmina in una sorta di crudele recitativo, mentre il padre di Alfredo enuncia l’argomento principe, quello che proprio fa crollare la sua fiducia nell’avvenire: «Sia pure ma volubile sovente è l’uom» l’amore è fugace dura poco e lei che è una donna di mondo lo sa bene. Come fa ad essersi illusa proprio una persona come lei? Alfredo non potrà mai sposarla e di conseguenza «poiché dal ciel non furono tai nodi benedetti» prima o poi la lascerà. E allora lei che farà? Meglio non aspettare quella fine annunciata, meglio prevenirla e tenere vivo quel ricordo di un amore mitico e vagheggiato per sempre. La realtà trionfa sul sogno e lei molto colpita risponde solo un «E’ vero!» pieno di tristezza disperata.

I principali errori degli esseri umani spesso sono dovuti proprio allo scetticismo e al cinismo che impediscono di vedere il bene e alimentano la convinzione che la fine sia già segnata, l’esito sia già determinato e che sia inutile credere in un cambiamento o semplicemente nel futuro. Questo permette anche di commettere a propria volta errori di ogni genere. Come accade in questo caso: l’unico uomo di esperienza nella vita di Violetta, colui che per la giovane incarna l’idea stessa del padre, le getta in faccia le facili verità sociali del perbenismo borghese e le toglie ogni speranza.

Violetta capisce improvvisamente che la vita per lei ormai è senza via d’uscita; se lo aspettava, in realtà, ma ha fatto finta di dimenticarlo: anche se Dio può perdonare e far risorgere una creatura caduta, l’uomo con lei sarà implacabile.

Violetta, investita della nuova missione di martire e salvatrice della sorella di Alfredo, anche a prezzo della propria felicità, dopo aver deciso di tornare dal suo vecchio amante, saluta Giorgio considerandolo come suo padre, vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma, presa da uno strano desiderio di espiazione ed annullamento: «Qual figlia m’abbracciate forte così sarò» Germont umanamente è molto colpito, ma non torna sui suoi passi. La invita a piangere sulla sua spalla come un vero padre, in un duetto memorabile, che rafforza ancor di più la giovane nei suoi propositi. Quando giunge Alfredo,Violetta lo saluta con parole sibilline «Sarò là, tra quei fior presso a te sempre.» perché la cornice del loro amore è agreste, mentre a Parigi, nel contesto sociale, Violetta resterà sempre e solo una cortigiana. Alfredo non capisce ciò che sta veramente accadendo, finché non arriva una lettera di Violetta che gli dice di essere tornata dal barone Douphol. Giorgio Germont cerca inutilmente di consolare il figlio facendogli ricordare la terra natia di Provenza secondo il classico espediente verdiano dell’estraniarsi per un momento dal dolore sognando un’altra terra e un’altra vita (come già era accaduto nell’ultimo atto del Trovatore nel dialogo ambientato in prigione tra Azucena e Manrico).

VERRA’ LA MORTE AVRA’ I TUOI OCCHI

Alfredo è furioso e disperato e appena vede sul tavolo la lettera di Flora che li invitava entrambi ad uno dei soliti «festini» capisce dove si trova Violetta e si precipita là. Naturalmente, anche in questo caso, si tratta di una festa dove ci sono maschere, come le zingarelle e i toreri. La tematica dell’infedeltà e della seduzione è ripresa, poi, proprio dalle zingarelle danzatrici che leggono la mano al marchese, sottolineando la sua volubilità, mentre i matador, ricordando i molti tori uccisi, evocano uno strano presentimento di amore e morte: ad essere abbattuta e quasi giustiziata tra poco sarà proprio Violetta.

Mentre i matador vincono a prezzo della vita, nella Parigi dei vip gli audaci sono i giocatori d’azzardo, facoltosi e vuoti ospiti del bel mondo che si cimentano tra loro solo inseguendo la dea bendata; eppure di lì a poco assisteranno alla sfida per un duello vero perché questa volta c’è l’Amore in gioco.

Così il barone e Alfredo cominciano con lo sfidarsi al tavolo verde in un concitato scambio di battute pieno di sottintesi. Poi avviene il drammatico dialogo tra Alfredo e Violetta che ha chiesto di vederlo a quattr’occhi: gli fa capire che lo ha lasciato per tener fede ad un giuramento, rischia quasi di rivelare tutto, ma poi si riprende e afferma di amare il barone

Alfredo ingenuo come sempre, pensa solo al tradimento, non capisce le prime parole di Violetta, non approfondisce il loro significato, spinto da una gelosia furibonda chiama tutti gli invitati ad ascoltare («Or tutti a me»).

Alfredo non capisce che cosa si nasconda sotto quelle strane affermazioni e ora vuole soltanto ridurre quel grande amore ad un semplice mercanteggiamento come tutti gli altri. «Qui testimoni vi chiamo che qui pagata io l’ho»., urla davanti a tutti, gettandole una borsa di denaro come per restituire a Violetta tutto ciò che aveva speso per lui. Alfredo non vuole debiti con una simile donna e, soprattutto, si comporta come se fosse lui a lasciarla e a trattarla come una puttana.

Tutti deplorano il gesto «Un cor sensibile così uccidesti! » esclamano gli scaltri convitati i quali sembrano aver intuito ciò che davvero è successo, ma non parlano apertamente. L’unico cieco è proprio Alfredo perché si sa che l’amante respinto spesso e volentieri perde ogni lucidità.

Giorgio Germont, intanto, è già preso dai rimorsi e rimprovera suo figlio per l’atto di spregio e poi condanna anche se stesso perché è l’unico a sapere quali siano i veri sentimenti della donna. Ancora una volta, però, le esigenze della famiglia hanno il sopravvento e Giorgio tace nuovamente. («Io so che l’ama, che gli è fedele, eppur, crudele, – tacer dovrò!»)

In realtà, Violetta è tornata dal suo antico amante perché è molto malata. E questa scenata di Alfredo le dà il colpo di grazia: vedere ridotto così l’unico vero amore della sua vita è un dolore che proprio non riesce a sopportare. Desidera solo la morte perché ormai appare come l’unica via d’uscita da un’esistenza tutta sbagliata e senza possibili rimedi.

Alfredo capisce di essere stato crudele e di essersi fatto guidare dalla folle gelosia.e dall’amore deluso, ma Violetta, riavendosi, gli dice che capirà il suo amore dopo la sua morte «Tu non conosci che fino a prezzo del tuo disprezzo – provato io l’ho! » e che continuerà ad amarlo anche dall’aldilà «Io spenta ancora – pur t’amerò. »

Violetta ora parla solo di morte non riesce a parlar d’altro. La sua mente ha ormai completamente rinunciato alla vita, tutto il suo avvenire semplicemente per lei non esiste più.

E’ inevitabile, quindi, che il terzo atto si apra nella camera da letto della giovane, ormai in fin di vita, tanto che il medico le dice per farle coraggio che, se si sente meglio, la convalescenza non è lontana, ma poi, in separata sede, afferma che all’infelice restano solo poche ore.

Rispetto all’opera teatrale di Dumas, con una sua scelta originale, Verdi decide di ambientare la morte di Violetta non l’ultimo giorno dell’anno, ma quando «Tutta Parigi impazza » perché è l’ultimo di Carnevale. Così fuori scena si sente un coro di baccanale, che per contrasto esalta l’effetto drammatico.

Dai toreri che uccidono i tori e conquistano le donne si passa ai parigini che celebrano ancora una volta ironicamente l’infedeltà:

Di fiori e pampini
Cinto la testa
Largo al piu’ docile
D’ogni cornuto,
Di corni e pifferi
Abbia il saluto.
Cantano per le strade portando in processione il bue grasso: emblema di una società futile, superficiale, godereccia e avida, ma ancora intenta a celebrare i suoi ipocriti perbenismi Questa falsa felicità nasconde la sofferenza, Violetta lo sa bene: «Ah, nel comun tripudio, sallo il cielo quanti infelici soffron! ». Così è nuovamente il tema delle maschere a prendere il sopravvento, le lugubri maschere della negazione di se stessi.

Intanto Giorgio Germont si è pentito. e la informa con una lettera che il duello ha avuto luogo, il barone è stato ferito, ma migliora e Alfredo è stato informato del suo sacrificio e tornerà da lei. «Curatevi – le scrive – meritate un avvenir migliore.» La superficialità di cui tutti sono vittime inconsapevoli in questa società, impedisce anche a lui di capire che ormai è troppo tardi: la vita non è una mascherata dove il finale si può cambiare a piacimento. Alcune azioni sono senza rimedio. Violetta guardandosi allo specchio si vede pallida e sfinita. Dice addio al passato e ai «bei sogni ridenti» le rose della giovinezza sono sfiorite, tutto è finito, e non resta che pregare Dio perché abbia per lei, anche se traviata, come volutamente sottolinea, quella pietà che gli uomini non hanno avuto.

Alfredo, infine, giunge e di nuovo parla di quel «palpito» che sempre nell’opera evoca il vero amore, ma è troppo tardi, ormai il dolore l’ha uccisa («Credi che uccidere non può il dolor»). Ed ecco che il giovane, di fronte alla situazione ormai disperata si rifugia nel sogno: i due innamorati parlano di andar via, di lasciare Parigi, luogo di perdizione, per cominciare una nuova vita, in un memorabile duetto.

E come accade in tutta l’opera, fino alla fine, Verdi fa sperare lo spettatore nel miracolo: così la giovane proprio nel momento in cui dice di sentirsi meglio, in realtà, muore. Violetta, la donna che aveva troppo amato non vorrà mai più vivere, neppure per Alfredo.

Violetta adesso è pura, è diventata un angelo, proprio perché non è più, ma ha pagato con la sua stessa vita, perfetta creatura post-manzoniana attualizzata…

La vera storia di Alphonsine racconta che dopo la sua morte i parigini, presi da una sorta di feticismo ossessivo, si contesero a cifre esorbitanti i suoi oggetti personali, i vestiti lussuosi, i gioielli, i suoi mobili, messi all’asta per pagare i debiti.

Nei suoi ultimi istanti, però, dei suoi tanti amanti solo un vecchio amico e il marito da cui era separata si trovavano al suo capezzale…

http://cuoresacro1.wordpress.com/2009/08/31/violetta-mon-amour-unanalisi-a-tutto-tondo-della-traviata-di-verdi-2/







 

MESSA DA REQUIEM : Verdi

http://www.controappuntoblog.org/2013/03/13/messa-da-requiem-verdi/

W VERDI!

http://www.controappuntoblog.org/2013/06/28/w-verdi/

Simon Boccanegra by Giuseppe Verdi : «triste perché dev’essere triste, ma interessa»

http://www.controappuntoblog.org/2012/09/22/simon-boccanegra-by-giuseppe-verdi-%C2%ABtriste-perche-devessere-triste-ma-interessa%C2%BB/

 

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