acta est fabula#1 – Ecuba di Nicola Antonio Manfroce

Spesso, in occasione di discutibili riscoperte di titoli minori (anche nel caso di autori celeberrimi) si sente gridare al capolavoro ritrovato, questo nonostante siano pochissimi i casi in cui un vero capolavoro viene recuperato grazie a queste “riesumazioni” (come macabramente spesso vengono chiamate). Una luminosa eccezione è però costituita da Nicola Antonio Manfroce (1791-1813), compositore calabrese che nell’arco di una vita brevissima (appena 22 anni) riuscì a far allestire un’opera del massimo interesse come Ecuba, con cui colse un lusinghiero successo grazie alla potenza di una partitura in cui si coniugano l’impressione ricevuta dalla tragédie lyrique francese e la gloriosa tradizione dell’opera partenopea. Dopo aver composto nel 1809 la cantata La nascita di Alcide e dopo aver presentato nel 1810 un’Alzira su teso di Gaetano Rossi al Teatro Valle di Roma con le celebri Isabella Colbran e Adelaide Malanotte, Manfroce venne infatti scritturato dall’impresario Domenico Barbaja per un nuovo spartito che avrebbe debuttato al Teatro San Carlo di Napoli nel 1812: il 13 dicembre l’Ecuba sarebbe andata in scena con un cast d’eccezione formato da Maria Marchesini e Marianna Borroni (rispettivamente Ecuba e Polissena) oltre che dai celebri Manuel García (Achille) e Andrea Nozzari (Priamo).

Nato a Palmi il 20 febbraio 1791, Manfroce fu un figlio d’arte (suo padre era maestro di cappella) dal precocissimo talento:  secondo alcune leggende scrisse la sua prima Messa ad appena dodici anni. Grazie all’intervento di due facoltosi concittadini ebbe l’opportunità di trasferirsi a Napoli e di iscriversi al Conservatorio della Pietà dei Turchini, in cui entrò nel 1804 studiando armonia con Giovanni Furno e contrappunto con Giacomo Tritto, per poi spostarsi a Roma per perfezionarsi con Nicola Zingarelli. È probabile che già all’epoca la tisi, che lo avrebbe condotto alla tomba pochissimi mesi dopo il debutto del suo capolavoro, iniziasse a minare la salute del compositore e che lo sforzo compiuto nello scrivere la sua Ecuba (composta in preda a una febbrile ispirazione e in un tempo relativamente breve) abbia dato il colpo di grazia a Manfroce. Le leggende vogliono che Manfroce si sia ammalato a causa anche di una “ismodata lussuria” nei confronti della Marchesa N.N., definita dall’amico Pietro Maroncelli (proprio lui, lo stesso delle Mie prigioni, di cui avevamo anche parlato qui e qui) “crudele femmina bestialmente carnale” che “conducevalo a consentimenti di libidine fino sul letto di morte”. Manfroce morì a Napoli il 9 luglio 1813, pochi mesi dopo che l’Ecuba aveva trionfato sul prestigioso palco del Teatro San Carlo.

L’opera, una Tragedia per musica in tre atti su libretto di Giovanni Schmidt (che aveva rimaneggiato un originale francese di Jean-Baptiste-Gabriel-Marie Milcent), colse da subito un successo clamoroso, rivelando il talento del giovanissimo compositore che, nonostante fosse appena all’inizio della sua carriera, aveva saputo proseguire la tradizione dell’opera seria italiana tardo settecentesca innervandola con il modello spontiniano e francese (La vestale di Gaspare Spontini era stata rappresentata a Napoli nel settembre 1811, pochi anni dopo il debutto assoluto, avvenuto all’Académie impériale de Musique di Parigi nel dicembre 1807) in un’opera che, per una volta, è un autentico capolavoro dimenticato. Il modello spontiniano appare evidente, nella musica di Manfroce, fin dalla drammatica e severa Sinfonia con cui l’Ecuba si apre.

La trama

Alla base della vicenda di Ecuba non troviamo l’omonima tragedia di Euripide, ma una tradizione mitologica in cui il re di Troia Priamo accetta il matrimonio della figlia Polissena e dell’eroe Achille, di lei innamorato, pur di far finire la guerra tra troiani e greci. La regina Ecuba, tuttavia, non riesce a rassegnarsi al matrimonio di Polissena con l’uccisore del figlio Ettore, meditando vendetta. L’irruzione dei greci in città durante le nozze condurrà alla morte di Achille, di Priamo e della stessa Polissena (sacrificata sul cadavere dello sposo), lasciando la sola Ecuba, in preda alla disperazione, a profetizzare le future sventure dei greci mentre Troia è in fiamme e, secondo le didascalie del libretto di Schmidt “vedesi Cassandra, strappata dal tempio di Pallade, co’ capelli sparsi, e gravi di catene le mani; e Corebo, di lei amante, piombare sui rapitori. Da un altro lato si vede Enea fuggitivo, portando sul dorso il padre Anchise, tenendo Ascanio per mano, e seguito dalla moglie”.

Un’opera “neoclassica” ma “moderna”

Quello che colpisce nell’Ecuba è la capacità di Manfroce di ricreare un’atmosfera corrusca e tragica, di enorme suggestione, con un uso dell’orchestra raffinato e ricco di splendide sfumature (inusuali nell’opera italiana del tempo), tanto che si capisce bene come Francesco Florimo lo ritenesse un anticipatore del “tedeschino” Rossini, definendolo “un anello di congiunzione fra Paisiello e Cimarosa per giungere a Rossini di cui deve essere ritenuto precursore“. Le concessioni all’edonismo “belcantista” sono scarse, per non dire nulle, e l’intera vicenda si snoda in un alone di cupa tragicità, con bellissimi recitativi accompagnati da cui i momenti solistici emergono con prepotente violenza e quasi senza soluzione di continuità. Rispetto a modelli dell’opera seria di stile settecentesco (come Gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa) appare evidente la spinta in avanti del compositore di Palmi e non c’è dubbio che Wagner avrebbe amato quest’opera: la avrebbe amata per la tesa costruzione drammatica e per la capacità di Manfroce di piegare l’arte del canto all’indagine dei tormenti dei suoi protagonisti, i cui sentimenti (spesso contraddittori) sono espressi da una piena melodica spesso trascinante ma mai fine a sé stessa. In particolare si segnala l’eccellente costruzione delle due parti femminili di Polissena ed Ecuba, cui sono destinati assoli di grande rilevanza espressiva e vocale che emergono con naturalezza dagli ampi recitativi: Ecuba, in particolare, vanta una splendida aria, “Figlio mio, vendetta avrai”, in cui l’unione dell’arpa (che ha un assolo nell’Introduzione all’aria) ai propositi di vendetta del personaggio conduce a esiti espressivi di grande pregnanza. Polissena, che aveva esordito con un brano solista in un solo tempo (l’unico in questa forma di tutto lo spartito) di dolente espressività, “Oppresse dal dolore”, lamenterà nel III Atto la sua condizione di vedova con una breve aria di estrema suggestione, “La luce detesto”.

 

Gli aspetti più evidenti nella gestione di questi momenti solisti sono le scarsissime concessioni di Monfroce all’edonismo degli artisti, preferendo il compositore concentrarsi sulla drammaticità del momento scenico e su un’affascinante penetrazione psicologica dei tormenti dei protagonisti: questa cura del personaggio e della drammaturgia è evidente nel già citato assolo di Polissena al III Atto, che definisce alla perfezione il cupo pessimismo con cui la figura della giovane sposa-vedova è caratterizzata. Notevolissimo, da questo punto di vista, anche lo spettacolare Quartetto con cui si chiude il II Atto: Polissena ha appena appreso in privato da Ecuba che Achille dovrà morire durante le nozze e tenta di differire il momento fatale, Ecuba e Priamo tentano di convincerla a cedere al matrimonio (sia pur con motivazioni differenti, la volontà di pace in Priamo e il desiderio di vendetta in Ecuba) mentre Achille assume i caratteri dell’amoroso che implora una ricompensa al proprio sentimento. La scena, un classico esempio di grandioso finale d’atto, viene strutturata in un affascinante Quartetto che permette a ogni personaggio di esprimere al meglio le proprie considerazioni, in una scrittura asciutta e tesa, che sfocia quasi senza soluzione di continuità nella coda corale con cui i personaggi si recano al tempio. Si tratta di un brano che testimonia il valore della scrittura di Manfroce (che concerta benissimo la scena nella distribuzione vocale e orchestrale) nonché il suo notevole istinto drammatico e teatrale.

 

Un ampio spazio è ovviamente concesso alle scene corali e di massa: la prima aria di Ecuba “Non lacerate o crudi” è, di fatto, uno scontro tra la volontà di vendetta della donna e le richieste di pace del suo popolo, ma andrà sottolineata anche la conclusione del I Atto (con i giochi funebri organizzati per il funerale di Ettore) e la grandiosa scena del matrimonio con cui si apre il III Atto. È splendida, nonché molto originale, anche la conclusione dell’opera: dopo l’omicidio di Priamo e il rapimento di Polissena, destinata ad essere uccisa sul cadavere di Achille, Ecuba resta sola in scena, affidando ad un drammatico e corrusco recitativo la profezia delle sventure che dovranno patire i greci al ritorno in patria. La descrizione del massacro di Troia viene affidata interamente alla compagine in buca, in una furibonda conclusione che accompagna la visione della caduta della città: Manfroce è tra i primi a sperimentare un simile finale esclusivamente orchestrale, che rinuncia alla vocalità in favore della piena strumentale, tanto che si può ipotizzare (come ha fatto Giovanni Carli Ballola) che l’esempio dell’Ecuba fosse ben presente nella mente di Rossini quando, nel 1818, deciderà di chiudere il suo Mosè in Egitto con la celebre coda orchestrale che descrive il passaggio degli ebrei attraverso il Mar Rosso. Chissà… se Manfroce non fosse stato stroncato dalla tisi probabilmente la storia dell’opera italiana del XIX secolo avrebbe potuto essere diversa.

Ascoltare Ecuba

Dell’opera esiste un’unica edizione discografica (edita dalla Bongiovanni e recentemente ristampata con una nuova veste grafica) che riproduce la registrazione delle recite avvenute al Teatro Chiabrera di Savona nell’autunno del 1990. Le recite di Savona costituiscono peraltro fino ad oggi (se non vado errato) l’unica ripresa in tempi moderni del capolavoro di Manfroce. Il cast radunato per l’occasione vede impegnati Anna Caterina Antonacci nel ruolo di Polissena, Gladys de Bellida in quello di Ecuba, Francesco Piccoli come Achille e Dino di Domenico come Priamo sotto la direzione del compianto Massimo de Bernart alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana e del Coro Francesco Cilea di Reggio Calabria. L’entusiasmo che serpeggia nel cast, abbastanza palpabile anche al solo ascolto, permette agli interpreti di consegnare al disco un’esecuzione in grado di fornire un’idea di cosa dovrebbe essere quest’opera, anche se l’orchestra non è certamente il massimo e, con l’eccezione della Antonacci (comunque non sempre a fuoco nel registro acuto), il cast non padroneggia al meglio le esigenze del fraseggio in grande stile necessario a questa corrusca opera coturnata. Da segnalare che la sempre benemerita Opera Rara ha registrato il bellissimo Quartetto del Finale II nel volume A Hundred Years of Italian Opera 1810-1820 con Maria Bovino, Yvonne Kenny, Harry Nichol e Paul Nilon accompagnati dalla Philharmonia Orchestra diretta da David Parry. Stralci dell’Ecuba e dell’Alzira sono stati poi incisi dal soprano Rossana Pacchielle e dal tenore Ennio Buoso con l’accompagnamento al pianoforte di Marcella Crudeli in un 33 giri celebrativo dell’arte di Nicola Antonio Manfroce. Infine circola insistentemente da tempo la notizia che al capolavoro del compositore di Palmi vorrebbe accostarsi prossimamente Riccardo Muti (probabilmente a Ravenna nel 2013): le sue bellissime realizzazioni di musiche di Luigi Cherubini e di opere dall’atmosfera espressiva affine a quella dell’Ecuba (tra cui La vestale di Spontini) fanno sperare che il rumor venga confermato quanto prima, anche se le voci di corridoio più recenti danno il progetto come sfumato.

Bibliografia utilizzata

Le immagini che accompagnano il post sono foto del sito archeologico di Troia – Truva (Turchia), Credits: www.resimler.tv

http://nonsolobelcanto.com/2012/06/30/acta-est-fabula1-ecuba-di-nicola-antonio-manfroce/

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