Heinrich Böll: “Opinioni di un clown” – Ansichten eines Clowns – Smetana Dance Comedians conducted by Robert Casteels

CITAZIONE

Lo so, credere a questa religione è difficile. Resurrezione della carne e vita eterna. Spesso Maria mi leggeva la Bibbia. Dev’essere difficile credere a tutto questo. Più tardi ho letto persino Kierkegaard (una lettura utile per un individuo prossimo a diventare un clown). Era difficile, ma non faticoso. Non so se ci sia gente che ricama tovaglie su disegni di Picasso o di Klee. A me quella serata fece questa impressione, come se quei cattolici progressisti si lavorassero all’uncinetto dei grembiuli di Tommaso d’Aquino, Francesco d’Assisi, Bonaventura e Leone XIII. Grembiuli che naturalmente non arrivavano a coprire le loro nudità, perché non c’era nessuno fra i presenti (all’infuori di me) che non guadagnasse almeno i suoi millecinquecento franchi al mese. Era così imbarazzante anche per loro, che più tardi si sfogarono diventando cinici e snob…”H. Böll, Opinioni di un clown”

 CITAZIONE

«Ma che tipo di uomo sei, in conclusione?» domandò Leo.
«Sono un clown» risposi «e faccio raccolta di attimi. Ciao.» E riattaccai.”

CITAZIONE

Solo che io non sono affetto soltanto da malinconia, mal di testa, indolenza e dalla mistica facoltà di sentire gli odori per telefono. Il più terribile dei miei mali è la predisposizione alla monogamia; c’è una sola donna con cui posso fare tutto quello che gli uomini fanno con le donne: Maria. E da quando lei se n’è andata, vivo come dovrebbe vivere un monaco, con la differenza che io non sono un monaco.”

Lasciato dalla donna con cui conviveva per motivi legati alla morale cattolica il pantomime Hans Schnier subisce un crollo psicologico che comporta anche al suo declino artistico. Scettico nei confronti dei compromessi e delle convenzioni sociali, Schnier, figlio di una famiglia molto ricca, preferisce, davanti all’esperienza dell’abbandono e alle delusioni professionali, continuare a vivere come un clown onesto piuttosto di diventare un ipocrita. Il racconto del protagonista copre un arco di poche ore, continuamente interrotte da ricordi che alla fine diventano una forte accusa contro la famiglia, la società e la chiesa, filtrata da un’ironia spesso amara e provocatoria.

Leggendo le “Opinioni di un clown” (1963) in cui Böll esprime una critica molto aspra sullo stato morale della società tedesca del dopoguerra, possono venire in mente due immagini: la prima è quella del buffone di corte, quella figura presente nelle corti medievali che aveva il compito di divertire il sovrano in tutti i modi, compreso il diritto di dirgli in faccia anche le verità più scomode e persino di offenderlo. E il clown di Böll non risparmia ai suoi interlocutori le verità scomode spesso al limite dell’offesa. Ma il Hans Schnier, il personaggio creato da Böll, è un clown che non diverte più, è un uomo disperato sull’orlo di un fallimento personale e professionale.

Tutto il romanzo si concentra nello spazio di una serata, in una serie di incontri e telefonate con cui il pantomime Hans Schnier cerca di trovare soldi e soprattutto informazioni su dove si trovava la sua amata Maria che vuole riavere a tutti i costi. Ma nonostante l’aggressività verbale e la sfrontatezza con cui affronta le persone, Hans non è per niente una persona aggressiva: “io sono un povero diavolo molto semplice, sincero e privo di complicazioni” si autodefinisce. E una delle persone con cui litiga gli dice: “La cosa più grave è che lei è un innocente, vorrei dire quasi un puro”.

La seconda immagine evocata dal clown è il bambino: il clown è puro, innocente e sincero come un bambino. “Siate come i bambini e il paradiso sarà vostro”, disse Gesù. Da una parte il romanzo rappresenta la critica più dura della Chiesa cattolica che Böll ha mai espresso, dall’altra parte questa critica viene espressa da un personaggio, il clown, che pur essendo né cattolica né protestante, nelle sue opinioni è sempre profondamente cristiano. Nei suoi tentativi di riavere Maria è testardo come un bambino, niente lo fa infuriare di più dei ripetuti consigli del tipo: “Cerca di farti una ragione e comportati da persona adulta” che sente da tutte le parti. Con una certa autoironia il clown dice di se stesso: “Il più terribile dei miei mali è la predisposizione alla monogamia”. Vuole Maria e nessun’altra. Accusa l’ambiente cattolico che Maria frequentava di averla portata via da lui e di averla condotta all'”adulterio” sposando un’altro, uno che è ben radicato nella gerarchia cattolica.

Hans è figlio di una delle famiglie più ricche e potenti della Renania degli anni 60 del secolo scorso e in questo ambiente trova altri obiettivi per le sue accuse: si ricorda perfettamente il passato nazista delle persone con cui parla e che in quell’epoca è ancora molto vicino, e non è disposto né a dimenticare né a perdonare. Questi ricordi attraversano tutto il romanzo, lo fanno diventare un’accusa molto dura contro gli opportunisti e i falsi convertiti che si trovano anche nei ranghi più alti della società.

Le opinioni del clown sono di un moralismo incorruttibile e intransigente, ma in quanto clown Hans rimane un accusatore isolato e disperato. Quando, alla fine, non riesce né a trovare soldi per la sopravvivenza, né un modo per ritrovare la sua amata Maria si dipinge come un clown e si mette seduto a terra davanti alla stazione centrale di Bonn mendicando e cantando canzoni religiose.

Una fine atroce e disperata, ma proprio per questo una condanna senza appelli della società bigotta e falsa degli anni del cosiddetto “miracolo economico” della Germania. Questo romanzo di Böll del 1963 è forse il più aspramente discusso, ha trovato critiche durissime, non solo negli ambienti politici e cattolici, ma anche in quelli letterari. Da all’altra parte ha suscitato anche molti consensi: il libro è tra quelli più venduti di Böll e dal libro è stato tratto anche un film di successo.

http://www.viaggio-in-germania.de/boell-clown.html

Heinrich Böll – Opinioni di un clown –  Mondadori, Milano 2001

Quando osserviamo un clown alla TV, troviamo naturale che egli debba farci sganasciare dalle risate, divertirci gentilmente, scrollarci di dosso la pesantezza di un’intera giornata di lavoro. Bene, Heinrich Böll ci permette di guardare al di là della maschera, penetrare nell’intimo dell’artista e provare a capirne lo spleen.

Tutto si svolge a Bonn in meno di tre ore, nella casa del giovane clown Hans Schnier, appena rientrato dall’ennesima disastrosa rappresentazione. La sua carriera e la sua storia personale precipitano a causa dell’elemento che ritorna ossessivo nel suo pacato sfogo: Maria l’ha lasciato. Da qui in poi si alternano telefonate e ricordi, richieste di denaro e suggestioni, furiosi rimproveri e fugaci tenerezze, come in una spirale dalla quale si diramano numerosi bracci. Il filo conduttore è la malinconia, della quale il protagonista dichiara di essere “afflitto per natura”, che dopo lunghe riflessioni terminerà in un punto nero, cupo, di disperata inutilità artistica e personale.

L’ambiente è quello della difficile rinascita democratica della Germania post-nazista, dove tutti cercano di rifarsi una verginità morale e politica, puntualmente smascherata dalle rievocazioni del protagonista. Veniamo così a sapere della sua estrazione borghese, dalla quale però ha solo ricavato una severa e ottusa educazione, del suo giovane amore per Maria, delle riunioni ai circoli cattolici. Quello religioso è uno dei nodi irrisolti che sottendono alla storia, nella duplice veste di questione religiosa e canone dei “principi dell’ordine”. Hans è l’uomo dal temperamento artistico che vive al di là delle leggi formali, in una dolcissima anarchia romantica, e pertanto non può piegarsi ai dettami della società del profitto e dell’indifferenza. Non gli servono impegni scritti, solenni e pomposi giuramenti, ma solo la semplicità dei sinceri rapporti umani che vede sgretolarsi sotto la corazza dell’ipocrisia del vivere civile.

E inoltre ricorda. Non può farne a meno. La sua anima d’artista non riesce (o non vuole) ad avere un quadro generale di ciò che gli accade intorno, la sua forza e difesa sta nel focalizzarsi sui dettagli, sui momenti apparentemente insignificanti che non hanno valore se non per lui, e solo così conoscerne l’intima natura. Ma proprio perché è l’unico a capire la deriva della vita che gli scorre attorno, non può ingannare se stesso riparandosi dietro certi quanto infondati ragionamenti.

Ognuno cerca di tacitare gli errori del proprio passato gettandosi alla ricerca affannosa di qualcosa, denaro o fede (religiosa o politica). Scegliendo di essere un clown, Hans sceglie di ritagliarsi un angolo dal quale analizzare ciò che vede e metterlo in scena in modo farsesco, ma certamente meno grottesco della realtà stessa. Nessuno lo comprende: la commedia imbastita dalla società è troppo grande, non può far altro che scivolare nella più profonda e disperata solitudine, abbandonato da tutti, senza l’ausilio delle facili consolazioni concesse agli altri.

Maria lo ha amato, e quindi all’inizio è stata l’unica a capirlo. Ma troppo forti sono i legami con la normalità: alla fine di lunghe tribolazioni morali è costretta a lasciare quella situazione di concubinato e trovare il suo posto accanto ad un altro uomo, ben più “regolare”. Non averla più accanto è devastante, e immaginarla con l’altro semplicemente impossibile. Al nostro clown non rimane che cantare liturgie per strada, nella vana speranza di incontrarla e suscitarle un qualche moto d’animo.

Un libro da gustare lentamente, assaporando l’amaro dei frammenti d’anima di quest’artista, che pure non arriva mai all’autocommiserazione. Anche lo stile dello scrittore, asciutto e incisivo, ci riporta alla visione di un mondo estraneo, falso e cattivo, ma non ancora del tutto perduto.

Ilario D’Amato

<<< Vedi anche “Biliardo alle nove e mezzo” .

http://lafrusta.homestead.com/rec_boll1.html

Opinioni di un clown | Heinrich Böll

Di unbuonlibrounottimoamico

Titolo: Opinioni di un clown
Titolo originale: Ansichten eines Clowns
Autore: Heinrich Böll
Notizie sull’autore: Böll era l’ottavo figlio di un falegname di Colonia. Cresciuto in ambiente cattolico, pacifista e progressista, Böll si oppose al partito nazista e negli anni trenta rifiutò l’iscrizione nella Gioventù hitleriana. […] Nel 1949 fu pubblicato il primo romanzo, Der Zug war pünktlich (Il treno era in orario). Böll frequentò il Gruppo 47 insieme a Günter Grass, Ingeborg Bachmann e altri. Nel 1951 ricevette un premio per il racconto satirico Die schwarzen Schafe (La pecora nera). Seguirono molti romanzi e racconti. Sono per lo più ambientati nella Germania post-bellica e raccontano di emarginati in una società che cerca di rimuovere velocemente il passato. La sua opera è stata definita Trümmerliteratur (“letteratura delle macerie”), con implicito riferimento alle rovine causate dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, che gradualmente diminuirono nei due decenni del dopoguerra e la ricostruzione. Böll fu un esponente di spicco degli scrittori tedeschi che cercarono di confrontarsi con la memoria della guerra, il nazismo e l’Olocausto, e i relativi sensi di colpa. [continua a leggere]
Anno pubblicazione: 1963
Edizione: Mondadori
Prezzo: 9 euro.
Traduzione: Amina Pandolfi
In una Germania postbellica le ombre dei decenni appena passati si allungano tanto sulle nuove quanto sulle vecchie generazioni, che sentono pesare sulle proprie spalle anni e anni di responsabilità e di misfatti. Ognuno cerca di distogliere gli occhi dai propri rimorsi, di coprirne il chiasso con le chiacchiere dei circoli borghesi e il loro vuoto buonsenso o, ancor peggio, il loro moralismo e apparente conservatorismo religioso. Ma perché mi dilungo? Costoro non sono i protagonisti, non hanno voce in capitolo nel libro, tant’è che conosciamo giusto qualche nome a titolo informativo, qualche tratto evanescente. La loro parte, se c’è, è quella dei bersagli, perché appunto Opinioni di un clown si intitola questo romanzo di Heinrich Boll.

Il nostro antieroe, o forse meglio sarebbe dire eroe anti, è un clown di nome Hans Schnier, afflitto in egual misura da mal di testa e malinconia (entrambi mali duri a morire), con la curiosa dote di saper riconoscere gli odori attraverso il filo del telefono – dettaglio non trascurabile, perché gli altri personaggi del libro, quei borghesi dabbene di cui sopra contro cui lui si scaglia, saranno qualificati in gran parte dagli odori che Hans associa loro, ad esempio: “Immediatamente mi colpì in viso una zaffata d’alito che sapeva di birra”.   Un modo efficace per descrivere alludendo solamente.

Hans è il figlio di una ricca famiglia protestante, ma è stato cresciuto nel segno del cattolicesimo, educazione da cui ha ottenuto solo di diffidare di entrambe le religioni. In un dialogo che è una dichiarazione di modus vivendi, dichiara infatti: “I cattolici mi rendono nervoso perché sono sleali […]. I protestanti mi fanno star male per quel loro pasticciare intorno alla coscienza […] e gli atei mi annoiano perché parlano sempre di Dio. […] Io sono un clown”.

Sin dalla prima pagina lo vediamo intrappolato in una vita scandita da punti di partenza e punti di arrivo, fatta di monete per il taxi, chiavi nelle toppe, giornali comprati in edicola – una “scioltezza perfettamente studiata”. Il romanzo però, come spesso accade, inizia laddove questo automatismo si inceppa.

Siamo di fronte a una crisi: lavorativa, poiché la sua carriera ha subito una battuta d’arresto a causa di un infortunio, e amorosa, perché Maria, la sua donna, cattolica praticante, ha preferito diventare «una first lady del cattolicesimo tedesco».

Il romanzo si muove su due piani contrapposti: da un lato il tentativo disperato di Hans di riavere Maria, che si mette in atto sostanzialmente tramite una serie di telefonate dirette a tutti quegli odiati membri della Bonn dabbene, contro cui – stabilito che non vogliono aiutarlo – Hans si scaglia senza mezzi termini, mettendoli davanti alla loro ipocrisia. Dall’altro apprendiamo la vicenda di Hans e Maria grazie a un grande flashback, a partire dalla loro conoscenza fino alla separazione.

Più che di azione, si tratta quindi di aggiustare i conti con la propria coscienza, di dire tutto ciò che si è taciuto perché mantenuti dall’odiata società. Hans non teme di dare giudizi: “Io penso che i vivi sono morti e i morti sono vivi, ma non come lo intendono i cristiani e i cattolici”. E ancora: “Erano così commossi da tutta quell’aria di pentimento e da quelle altisonanti dichiarazioni di democrazia che ogni incontro finiva sempre con grandi abbracci e proteste di fratellanza. Non capivano che il segreto dell’orrore sta nel particolare. È molto facile, un gioco da bambini, pentirsi di grave colpe: errori politici, adulterio, assassinio, antisemitismo. Ma chi perdona un particolare, chi comprende i dettagli?”.

Per una volta non è la società a guardare l’outsider, ma l’outsider a guardare con occhio chirurgico la società, a penetrare sotto la sua pesante maschera e a vederla per come essa è: grottesca, alla deriva, aggrappata a falsi miti, falsa lei stessa. Il cerone che il clown si applica sul volto è quello più appariscente, perché illuminato dai riflettori del palcoscenico, ma non è l’unico.

Chi può essere a cantare l’umanità quando i suoi abitanti sono diventati dei pagliacci? Un clown, che qui fa il pagliaccio ma non lo è. Com’era quella frase? Ah sì: “Nascondi ciò che sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni”.

Arrivati alla fine del libro, dopo che Hans ha esternato tutto il proprio risentimento, il punto di non ritorno è stato oltrepassato. Tutte le menti capaci di vedere la verità sono messe al bando dalla propria epoca, additate a capro espiatorio, Hans lo sa, e così sceglie lui stesso di non rientrare in quel circolo vizioso da cui un’accidentale caduta lo aveva tratto in salvo. Non resta altro che dipingersi ancora una volta il viso – “l’abito professionale è la migliore corazza, vulnerabili sono soltanto i santi e i dilettanti”, si legge alla fine – con una biacca un po’ secca, vedere le screpolature che si aprono in corrispondenza delle rughe – “come il viso di una statua appena dissepolta nel corso di scavi archeologici” – e uscire in strada, scegliendo di non scegliere un ruolo, ma di sedersi sui gradini della stazione di Bonn, con una chitarra, e cantare, cantare ciò che sente e non ciò che gli viene detto, “cantare fuori dal coro”. E tuttavia è davvero una vittoria? L’atto di emarginare se stesso, preservando la propria dignità, la propria individualità, è un successo, alla maniera dei vecchi eroi contro, o solo uno sconfiggersi prima che lo faccia qualcun altro?

Per concludere con una nota personale, di questo romanzo di Heinrich Böll non so cos’altro dire se non che è straziante, e che mi ha spiazzata perché me lo aspettavo molto diverso. Ero pronta a un cinismo gratuito, ho trovato il dolore di una ferita che non si rimargina, parole senza speranza e piene di risentimento, ma più che dovute. Da piccoli ci dicevano sempre che i clown, che ci facevano ridere dal palcoscenico, in realtà erano persone molto tristi. Ora, leggendo questo romanzo, ho avuto il privilegio di vedere le lacrime di un clown, uno spettacolo a cui non sono potuta rimanere indifferente. “Pensa a me, pensa al clown che piange nella vasca da bagno, mentre il caffè  gli sgocciola sulle pantofole”. La sua sofferenza è vera, non conosce indulgenza verso chi gli ha portato via la persona che ama, eppure sa perdersi in momenti di tenerezza quasi puerile quando pensa a costei – “…e il viso così vicino alla sua testa da poter portare con me nel sonno il profumo dei suoi capelli” – se la immagina infelice nella vita che ha scelto, non capisce come abbia potuto darla vinta a loro e alle loro ciance, spera che tornerà da lui anche se infondo sa che non lo farà. Alla fine, vedendolo sui gradini della stazione di Bonn, mi sono fermata e ho lanciato una moneta nel suo cappello. La voce della stazione annunciava un treno da Amburgo. Lui ha smesso di cantare per un istante, come spaventato dal tintinnio della moneta – un nuovo istante da aggiungere alla sua collezione. Io sono passata oltre, e lui ha ricominciato.

Chiara Sandretto 

http://unbuonlibrounottimoamico.wordpress.com/2012/05/19/opinioni-di-un-clown-heinrich-boll/

Heinrich Bölls «Ansichten eines Clowns»
als eine «Verteidigung der Existenz»

Kim Hill

für Dr. Heinrich Bosse
Institut für neuere deutsche Literatur
Universität Freiburg



Als Vorlage dieses Aufsatzes dient Robert Paslicks Kritik «A Defense of Existence: Böll’s Ansichten eines Clowns». Darin spricht Paslick Kritiken Bölls Gesellschaftskritik an. Er zitiert als Beispiel Horst Krüger, der fühlt, Bölls Gesellschaftskritik werde Selbstzweck; sie stamme aus «einem emotionalen Bedürfnis, dagegen zu sein». Krüger meint: «Seine Gesellschaftskritik droht, emotional, gefühlsmäßig-allgemein, damit aber im tiefsten Sinn unpolitisch zu werden.» Solche Kritik verliert ihren Belang für eine Gesellschaft die schon den verschiedensten Kritiken unterliegt, und nach Antworten sucht. Die heutige Gesellschaft stellt eine leicht-erreichbare Zielscheibe dar; diese Zielscheibe mit diversen Pfeilen zu treffen ist keine besondere literarische Leistung.

Paslick behauptet dagegen, daß «Ansichten eines Clowns» keine ungezielte Kritik sei, daß es hier keinen «Geist der Negation» gäbe, sondern einen positiven Geist. Paslick nennt den Roman «eine Verteidigung- zwar eine verzweifelte und tragische Verteidigung- der Existenz». Ich stimme Paslick zu. Ein sorgfältiger Blick auf den Text ergibt viel Unterstützung für diese Ansicht.

Die allgemeine Kritik an Böll scheint in «Ansichten eines Clowns» zuzutreffen. Daß die Gesellschaftskritik hier kreischend und oft selbstzufrieden ist, ist unleugbar. Besonders schwer wiegt die Persönlichkeit der Hauptfigur, Hans Schnier. Er ist uns nicht sympatisch. Er ist Egoist und Besserwisser, jederzeit bereit, seine Meinung auszudrücken, sei es über Parteipolitik oder Parfüm. Diejenigen die seine strengen, persönlichen Lebensvorschriften nicht erfüllen sind für ihn tot. Er erscheint intolerant und dogmatisch. Wo finden wir den postiven Aspekt in einem Buch so dominiert von so einer Figur?

Mit Paslick übereinstimmend glaube ich, daß es ein tieferes Niveau gibt, das wichtiger ist als die oberflächige Gesellschaftskritik. Vielfach vorhanden im Buch sind durchaus positive Aussagen zu einer menschlichen Moral. Böll geht von kreischender Kritik aus, aber nur um Quellen gesellschaftlicher Mißstände zu erlautern. Meiner Meinung nach, geht es Böll vor allem um das Fehlen einer gesunden subjektiven Menschlichkeit bei Individuen. Hingegen gäbe es eine zu große moralische Abhängigkeit an objektive Regeln und institutionalisierte Ideale.

Nach Paslick, neigen solche Ideale dazu, «in der modernen Gesellschaft abstrakt und blutlos zu werden, und unabhängige Leben zu führen, weit entfernt von jeglicher konkreten menschlichen Situation.» Kein Gesetz, keine Ideologie ist stark genug, um uns von der Pflicht des Denkens zu erlösen. Aber gerade das moralische Denken überlassen viele «abstrakten Ordnungsprinzipien.» Böll schildert hier das Resultat. In der Behandlung solcher Themen geht er weit über die Enge einer einfachen Gesellschaftskritik hinaus.

Zuerst müssen wir uns den Clown Hans Schnier näher betrachten. Auffällig ist seine außerordentliche Subjektivität. Diese Subjektivität ist kein Zufall, denn sie ist gerade das, was den anderen Figuren fehlt. Bei ihnen sind lang etablierte Regeln und Erwartungen das Entscheidende im Leben. Religiöse und soziale Prinzipien sind für sie bequeme Verstecke vor persönlicher Verantwortung. Ich glaube, daß Paslick recht hat, hier existentialistische Ausdrücke zu gebrauchen.

Die Gegenspieler von Hans können als ,Herdenmenschen’ bezeichnet werden, die ihre eigene Subjektivität geleugnet haben. Sie unterwerfen alles «abstrakten Ordnungsprinzipien», auch wenn dies allem Menschlichen widerspricht.

Frau Schnier, die Mutter von Hans, hat im Krieg ihre Tochter zur Flak geschickt, um «die heilige deutsche Erde» zu verteidigen. Dabei ist die Tochter ums Leben gekommen. Frau Schniers Gewissen «zwingt» sie, ihren Sohn zu verstossen, weil Hans und Marie zusammen leben ohne verheiratet zu sein. Marie verläßt Hans spater, «möglicherweise im Streit zwischen Natur und Ubernatur.» Hans wird vorgeworfen, er verstehe nichts von Theologie, denn Beziehungen zwischen Mann und Frau «müssen doch geregelt werden.»

Demgegenüber unterwirft Hans alles seiner Subjektivität. Er systematisiert seine Welt, damit sie seiner inneren Realitat entspricht. Seine Behauptung, er könne Gerüche durch das Telefon wahrnehmen, ist ein Beispiel. Seine Schwester, die im Krieg gestorben ist, ist für ihn lebendiger als seine Mutter, die noch lebt. Seine Vorstellung, einmal mit seinem Bruder Holz gesägt zu haben, ist ihm zum realen Ereignis geworden. Der Punkt scheint Folgender zu sein: Dem Subjektiven wird vertraut.

Wenn die Basis der Objektivität unrechte Regeln oder «Ordnungsprinzipien» ist, wird die Obiektivität schädlich. In diesem Fall hat Subjektivität eine schützende Funktion. Hans, zum Beispiel, überprüft seine Umwelt mit seinem Gefühl, und erkennt dadurch ihre Widerspräche. Dagegen kann stete Objektivität ein Vorwand sein, womit man seiner Verantwortung als individuell handelnder Mensch entflieht. In einem Gespräch über Marie mit dem Prälat Sommerwild fragt Hans, warum der Pralat Maries Namen nicht gebrauche:

Hans:
Warum sagen Sie Person und nicht Marie?

Prälat:
Weil mir daran liegt, die Sache so objektiv wie nur möglich zu halten.

Hans:
Das ist Ihr großer Fehler, Prälat – Die Sache ist so subjektiv, wie sie nur sein kann. (DTV400, S.128)

Betonung des Subjektiven finden wir auch in der Behandlung von «Augenblicken» und «Details.» Für Hans ist die Selbsterfahrung gewisser Augenblicke ein sehr wichtiges Phänomen. Wenn er Zeit zum Wahrnehmen, aber nicht zum Nachdenken hat, findet er eine besondere Echtheit in seinen Empfindungen,auf die er sich verlassen kann. Diese «Details» werden sein Eigentum; er «sammelt» sie.

Einmal hat er seine Mutter gesehen als sie heimlich im Keller Schinken aß. Das war gegen all ihre Prinzipien, aber sehr menschlich. Dieser Menschlichkeit wegen ist es für Hans ein sehr positiver Eindruck, den er mit sich ins Grab tragen wird. Augenblicke und Details sind ihm wichtig weil sie unmittelbar die menschliche Wirklichkeit wiederspiegeln. Hans sagt:

«Große Sachen zu bereuen ist ja kinderleicht: Politische Irrtümer, Ehebruch, Mord, Antisemitismus – aber wer verzeiht einem, wer versteht die Details?» (S.190)

Ein Problem bei der Subjektivität ist daß sie zum Egoismus werden kann. Hans überschreitet oft diese Grenze; er ist sicherlich das Zentrum seiner Welt. Man kann amüsiert darüber sein, wenn es Hans gleichgültig ist, wie er ißt, oder seine Zeit vertreibt, oder gewisse Leute verblüfft. Aber wenn er sich für Maries «Fehlgeburten» nicht interessiert; nach der Bedeutung ihrer «Frauensachen» nicht fragt, wird seine Gleichgültigkeit abstoßend. Wie können die Aussagen und die Person von Hans Schnier übereinstimmen?

Ohne seine Mängel entschuldigen zu wollen, kann man Erklärungen suchen. Hans ist kein vollkommener Mensch, kein neuer Heiliger, sondern lediglich ein Außenseiter, der wichtige Einsichten hat. Seinem Gewissen nach, muß er einen Gegensatz zu seiner Umwelt bilden. Wie wir noch sehen werden, ist die Absicht auf eine «Verteidigung der Existenz» unverkennbar, wenn auch nicht immer konsequent durchgeführt.

Die Ansichten des Clowns sind meist auf ein bestimmtes Thema bezogen – nämlich auf Menschlichkeit und einen Kampf gegen Unmenschlichkeit. Die Beispiele sind zahlreich, und erstrecken sich von Opposition zu einer unmenschlichen Sexualpolitik bis hin zum Mitleid mit einer Familie in einer zu kleinen Wohnung.

Die für Hans allwichtigen Augenblicke betreffen fast immer Fragen der Menschlichkeit. Hier sehen wir wie positiv die Hände des Vaters auf den Schultern des jungen Hans gewirkt haben, und wie negativ die Bitte des eifrigen Jungnazis um «Härte, Härte, unnachgiebige Härte!» war. Als Hans’ Mutter den Schinken ißt, erlebt Hans einen einmaligen Augenblick ihrer Humanität.

Bei dem Clown werden Augenblicke und Details zum Maß der Moral. Es ist also nicht überraschend, daß er auf die Frage: «Was bist du eigentlich für ein Mensch?» so antwortet: «Ich bin Clown, und sammle Augenblicke.» Wenn andere Leute die Augenblicke rasch vergessen, sieht er sein Sammeln als seine Funktion an, und wohl auch als seine Pflicht. Es scheint ein Ausgleich zu sein. Keine anderen sind subjektiv; Hans wird supersubjektiv. Keine anderen achten auf die Augenblicke; Hans wird ein Sammler davon.

Trotz der offensichtlichen Betonung auf Menschlichkeit, kann Hans andere Menschen sehr hart behandeln. Herbert Kalick, ein ehemaliger Jungnazi, der im Krieg Hans gedroht hat, bietet Hans pathetisch um Verzeihung. Stattdessen kriegt er eine Ohrfeige. Hans erinnert seine Mutter gnadenlos an den Tod seiner Schwester (die seine Mutter zur Flak geschickt hatte). Er sagt selber, daß seine Mutter nicht böse sei, nur «auf eine unbegreifliche Weise dumm.» Wo ist jetzt seine Menschlichkeit?

Eine Erklärung finden wir in denjenigen, die er verurteilt. Sie haben aus ihren tödlichen Fehlern nichts gelernt. Sie bereuen zwar ihre Taten, aber da sie weder aufgeklärt noch verändert sind, findet Hans, daß er ihnen nicht verzeihen kann. Dies sehen wir im Fall von Kalick, dem einstigen Jungnazi. Hans erinnert sich wie Kalick:

«außer sich vor Wut, mit den Knöcheln auf unseren Tisch schlug, mit seinen toten Augen mich ansah und sagte: «Härte, unerbittliche Härte…» (S.190)

Hans fügt hinzu:

«Ich habe zuviel Augenblicke im Kopf, zuviel Details, Winzigkeiten – und Herberts Augen haben sich nicht geändert.» (S.190)

Als Kalick um Verzeihung bittet, sagt er zu Hans:

«Es gibt für jeden Menschen eine Chance, die Christen nennen es Gnade.» (193)

Aber Hans ist anderer Meinung, er sei «schliesslich kein Christ.» Kalick, so wie er ist, kann er nicht verzeihen. Hans geht es nicht nur um Kalicks Vergangenheit, sondern auch darum, daß ein unveränderter Kalick seine Mitmenschen in der Gegenwart gefährdet. Ich glaube, daß Robert Paslicks Beschreibung von «Herdenmenschen» auf Kalick sehr gut paßt:

«Sie geben ihre eigene innerliche Freiheit auf, und flüchten sich in eine objektive Ordnung institutionalisierter Werte…»; Wenn ihnen diese allwichtige Ordnung fraglich zu werden scheint, fühlen sie sich sehr bedroht, und werden ‘Tyrannen der Verteidigung des Systems’»

In verschiedenem Maße trifft dies bei vielen Figuren des Romans zu. Sie sind ihren Ordnungsprinzipien unterworfen, und handeln dementsprechend. Das Resultat nennt Hans «Das Zeitalter der Prostitution.»

Kalick (wie auch Frau Schnier) stellt also ein zentrales Dauerproblem dar; genau das, was Hans bekämpfen will. Mit diesem moralischen Versagen kann er keinen Frieden schliessen. Eine pauschale Anwendung von «Gnade für alle» sieht Hans als unverantwortlich an. Die Verurteilung von Unrecht. muß eindeutig sein, denn das Leiden am Unrecht, das er gesehen hat, ist immer reichlich eindeutig gewesen. Hans mahnt diese Leute, daß nicht alles in Ordnung ist – Wer würde es sonst tun?

Hans vertritt also keine moralische Anarchie. Das sehen wir auch in der allgemeinen Konsequenz seiner Kritik, in seiner Monogamie und in seiner Nachdenklichkeit. Für eine bürgerliche Existenz an sich hat er keine Verachtung; im Gegenteil5 er hat ein «ungeheuer erregendes Gefühl» wenn er sich auf eine «spießige Weise» ganz «normal» fühlt. Die angegriffenen Katholiken finden sogar Religiöses an seiner Persönlichkeit. Marie sagt, daß er auf seine Weise «so fromm und so keusch» sei. Prälat Sommerwild sagt zu Hans:

«…das Schreckliche an Ihnen ist, daß Sie ein unschuldiger, fast möchte ich sagenü reiner Mensch sind.» (S.133)

Hans besitzt doch eine grundsätzliche moralische Ordnung; sie stammt nicht aus der Anerkennung «abstrakter Ordnungsprinzipien», sondern «aus einer Seele, in der die Freiheit und die Güte übereinstimmen.» (Paslick). Hier muß man sich an Bölls Bibelzitat am Anfang des Buchs erinnern:

«Die werden es sehen, denen von Ihm noch nichts verkündet ward, und die verstehen, die noch nichts vernommen haben.»

Trotz allem wirkt der Clown nie besonders sympathisch. Auch er weiß, daß er Fehler gemacht hat. Am Anfang glaubt er, er sei nur das Opfer der Katholiken, die ihm Marie weggenommen hätten. Aber bei einem Telefongesprach wird ihm klar, daß Marie für ihre Abfahrt verantwortlich ist:

«…die Erkenntnis war schlimm. Marie war weggegangen, und sie hatten sie natürlich mit offenen Armen aufgenommen, aber wenn sie hätte bei mir bleiben wollen, hätte keiner sie zwingen können, zu gehen.» (S.129)

Er war zu selbstzufrieden gewesen, um bereit zu sein, Marie im kritischen Moment zu umarmen. Das hätte entscheidend sein können:

«…es war falsch von mir, daß ich sie wirklich losließ.» (S.79)

Hans Schniers Leben und Problematik sind von seinem Beruf sehr geprägt. Seine Stellung als ein Clown, dessen Unbefangenheit und Konsequenz keineswegs nur für die Bühne reserviert sind, bestimmen seine Handlungsweise. Wilhelm Schwarz, in seinem Buch «Der Erzähler Heinrich Böll», vergleicht die Rolle des Clowns mit der des alten Hofnarrs:

«…mit immer wachen Augen beobachtet er seine Umgebung und unterwirft sie einer unerbittlichen Kritik.»

Und Albrecht Beckel schreibt:

«Ein Clown ist von Beruf ein Mensch, der mit abstrusen Mitteln die Wirklichkeit übertreibt, einseitig darstellt und insofern verfälscht, aber damit zugleich neue Seiten an eben dieser Wirklichkeit enthüllt, die mit anderen Mitteln nicht so freigelegt werden können.»

Aber nicht jeder bemüht sich um grundlegende Wahrheiten. Die Erwartungen des Clowns auf Verständnis und Mitwirkung werden enttäuscht, und der Clown scheitert.

Hans weigert sich, sich anzupassen, um der Harmonie seiner Umwelt willen. Die Spannung, die sich daraus ergibt, und zugleich den Grund, weshalb er so handelt findet man in einem Schlüsselzitat von ihm:

«Merkwürdigerweise mag ich die, von deren Art ich bin: die Menschen » (S.239)

Die Botschaft von Hans Schnier erscheint unpolitisch, aber unprogrammatisch ist sie nicht. Seine Sammlung von Augenblicken hat ihm beigebracht, daß jede Politik auf einer Grundlage der Menschlichkeit basieren muß.


Literaturverzeichnis:

Albrecht Beckel: Mensch, Gesellschaft, Kirche bei Heinrich Böll. Verlag A. Fromm, Osnabrück 1966

Marcel Reich-Ranicki, Herausgeber: In Sachen Böll. Kiepenheuer und Witsch, Berlin 1968

Wilhelm Schwarz: Der Erzähler Heinrich Böll. A. Francke Verlag, Bern 1967


Fußnoten:

  1. Robert Paslick: “A Defense of Existence: Böll’s Ansichten eines Clowns,” in “The German Quarterly,” November 1968 Yan Rooy Printing Company, Appleton, Wisconsin, USA.
  2. Wilhelm Schwarz: Der Erzähler Heinrich Böll. A. Francke Verlag, Bern 1967, S.70
  3. Albrecht Beckel: Mensch, Gesellschaft, Kirche bei Heinrich Böll. Verlag A. Fromm, Osnabrück 1966, S.76

http://www.kimhill.com/other/ansichten.html

 

 

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