La Confraternita dell’uva – IL MIO CANE STUPIDO : John Fante

La Confraternita dell’uva – John Fante

Questo libro è per tutti quelli di noi, e credo siano tanti, che non possono dirsi completamente soddisfatti di loro padre, è normale non esserlo, non ci vuole Freud per capirlo. John Fante forse Freud non sapeva neanche dove stava di casa ma ci ha lasciati, lui figlio americano di genitori italiani, una delle più dissacranti e commoventi elegie alla figura paterna.

Nel suo capolavoro della maturità, come Chiedi alla Polvere è quello della giovinezza, assume lo pseudonimo di Henry Molise, scrittore affermato richiamato al paesino dove ha passato l’infanzia dal fratello per ricomporre l’ennesimo litigio, degenerato in una clamorosa piazzata, tra i suoi ultrasettantenni genitori. Si ritrova così suo malgrado coinvolto nel folle progetto del padre muratore di costruire un affumicatoio in granito, un lavoro massacrante.

Al centro si erge massiccia, ingombrante, titanica la figura di Nick Molise, il vecchio tirannico e orgoglioso autoproclamatosi primo scalpellino d’America, leggenda paesana per la selvaggia virilità, le sbronze colossali, e la mostruosa etica del lavoro. Nel romanzo troviamo due famiglie,una è quella biologica dei Molise, a cui Henry è così attaccato che ne deve scappare, Henry è diventato grande ma Nick resta sempre il suo incubo, si rimane sempre figli, tutta la vita, non potrà fare a meno di constatare.

Come se non ne bastasse una Fante si occupa anche della seconda famiglia. Quella degli accoliti. La Confraternita. The Brotherhood of the Grape. Musso, Antrilli, Benedetti, Ramponi. Una ciurma di vecchi indimenticabili compagnoni paesani, fratelli che hanno succhiato tutti alla stessa tetta, quella del Chianti sanguigno di Angelo Musso. Non è gente fatta per starsene sola, sono un coro. Gente che non dispensa oracoli, ne consigli, si limita ai fatti accertati, “è meglio morire tra gli amici che morire tra i dottori” , sentenziano nella lucidità della sbronza.
Ci sono scrittori che si limitano a intrattenere, pochi trasmettono però quella voglia fisica di scrivere come Fante, il suo stile inconfondibile è fatto di cuore e stomaco. In questa come altre opere Fante lascia il ritratto più fedele di quella prima generazione di italoamericani, guardati in maniera inorridita dagli americani persuasi “che gli italiani fossero creature di sangue africano, che tutti gli italiani girassero col coltello e la nazione fosse ormai in mano alla mafia”. Alla fine Fante, dopo aver preso suo padre a parole come mattonate, averlo dipinto come un tirannico mandrillo costantemente tra i fumi dell’alcool e impegnato a perdere a carte tutti suoi sudatissimi guadagni, ci fa capire che non può pensare a lui senza suo padre, che tutti dovrebbero sempre avere un padre, perché lui in fondo a quel vecchio bastardo voleva un bene dell’anima. Garantito.

Giacomo Lamborizio

http://www.paperstreet.it/cs/leggi/8-La_Confraternita_delluva_-_John_Fante.html

Fante John

La confraternita dell’uva

Me ne andai in bagno a radermi. La faccia nello specchio mi pareva quella di un lunatico in fuga. Le giornate non portavano più pace, ma squallore: ecco le venuzze negli occhi, un principio di guancia pendula.
Lanciai un’occhiata al letto sfatto su cui ci eravamo stesi per il nostro amore ormai guasto, ai cuscini stazzonati, alle lenzuola stropicciate. Mi ricordai di averle viste esattamente così nella camera da letto dei miei genitori quando avevo sette anni, e ricordai di avere odiato mio padre, il lezzo stantio del suo sigaro, e i suoi pantaloni da lavoro grottescamente buttati sul pavimento, e ricordai di aver provato il desiderio di ucciderlo
” (Uno, pp. 20-21).

È il romanzo della nostalgia, in senso etimologico – e cioè del “dolore del ritorno” – per l’altro alter ego del creatore di Bandini, Henry Molise.
“La confraternita dell’uva” non è estraneo alla drammaticità, e non è tuttavia un libro tragico: strappa sorrisi con la stessa facilità con cui precipita nell’amarezza. Perché il ritorno a  San Elmo, California, è per il maturo scrittore italoamericano l’ultima occasione per confrontarsi con il padre, e per capirlo: è un’improvvisa restituzione alle prospettive e alla dimensione dell’adolescenza e della giovinezza; quelle prospettive e quella dimensione che erano sfumate quando aveva assunto consapevolezza di se stesso:  “Sì, me ne andai. Lo feci prima ancora di compiere vent’anni. Furono gli scrittori a portarmi via.
London, Dreiser, Sherwood Anderson, Thomas Wolfe, Hemingway, Fitzgerald, Silone, Hamsun, Steinbeck. In trappola, barricato contro il buio e la solitudine della valle, me ne stavo lì coi libri della biblioteca pubblica impilati sul tavolo da cucina, solo, ad ascoltare il richiamo delle voci dei libri, con la brama di altre città” (Otto, p. 79).

Ed era rimasto un dago, o un wop: un dago intellettuale, un wop scrittore – qualcosa di incomprensibile per l’aristocrazia razzista wasp d’una nazione che giudicava gli italiani “creature di sangue africano”, col serramanico a portata di mano e la tragedia d’una patria distante caduta “ormai nelle grinfie della Mafia”.
Henry Molise era ancora un emigrante italiano, e tuttavia era un emigrante italiano della seconda generazione: come i suoi fratelli, aveva avuto discreta fortuna nell’ambientazione nel tessuto sociale statunitense, deludendo i sogni e le aspettative d’un padre che li sognava ferventi cattolici e splendidi muratori.
Nick Molise è un vecchio pater familias, figlio del conservatorismo italiano e del più gretto provincialismo di certe nostre terre. Orgoglioso e fiero dei suoi talenti di artigiano e di scalpellino, autoritario e rigido in famiglia, non insensibile al fascino delle donne e dell’alcool: e tuttavia uncinato al suo primo e unico matrimonio, dopo cinquantuno anni. Maria è una santa madre italiana, tutta cucina e tolleranza delle stravaganze e delle irregolarità del capriccioso marito: quattro figli, infinita pazienza, accettazione di qualche violenza in casa.

Al principio delle vicende narrate, Henry viene contattato da uno dei fratelli, Mario, perché sembra proprio che stavolta il divorzio tra i genitori sia a un passo. C’è stata qualche scenata di gelosia della madre, una violenza di troppo, un arresto del padre finito in farsa; il puttaniere, aggressivo e sempre sbronzo, vantava l’amicizia del capo della polizia di San Elmo. Un altro dago, un mezzo italiano.
Henry sa che Nick non li ha mai amati, quei suoi figli. Era un padre ingombrante e opprimente: “giudice, giuria e carnefice” (p. 26). Disprezzava tutto, eccetto le donne. Amava il gioco, forse per “furore nei confronti del mondo” (p. 29): scialacquava, dissipava, crapulava. Assieme agli altri paesani italiani, al Cafè Roma. Da sempre. “Erano una ghenga di strambi, irascibili, duri individui da previdenza sociale: gente ringhiosa, frontale, vecchi bastardi maligni e aspri, che però se la spassavano col loro spirito crudele e i modi profani del loro cameratismo. Non filosofi, non vecchi oracoli che si pronunciavano dalle profondità della loro esperienza della vita; ma soltanto vecchi che ammazzavano il tempo, in attesa che l’orologio si scaricasse. Mio padre era uno di loro” (Sei, p. 52).
Nick Molise ha pregiudicato il futuro del figlio Mario, talento del baseball soffocato dalle diverse ambizioni dell’autorità paterna: tende a corrodere l’immagine e la rispettabilità dell’altro maschio, Virgil, dirigente di banca; non ha mai saputo, infine, dialogare con Stella, scontenta della sua condotta. Ha sempre preferito Henry, primogenito bruciato dall’adorabile dannazione della scrittura; e stavolta, prima dell’ultimo viaggio, gli proporrà d’essere quello che mai è stato. Un muratore, al suo fianco. Per edificare una casetta di pietra, niente finestre, una porta. Dapprima Henry rifiuta, e quella roccia di Nick si ritrova a piangere. Il violento tiranno di sangue abruzzese e cultura incredibilmente paesana e italiana ammette debolezza di fronte a quel figlio artista, che nessuno sembra capire: è l’annuncio di una progressiva corrosione della sua aura mitica e leggendaria, di uomo forte e indistruttibile, cui ogni vizio era concesso. 

Lo scontro tra la prima generazione di emigranti e la seconda è evidente.
Non sono muratori o falegnami o piccoli artigiani, e non sono cattolici praticanti. Tendono a figliare con la stessa prolificità, ma progressivamente vanno americanizzandosi, non solo nell’estetica e nella Weltanschauung; a volte sembrano vergognarsi delle loro radici, poi d’un tratto le rivendicano. Il conflitto tra padre e figli è netto, e conosce momenti grotteschi e altri di grande tenerezza, e vera intensità.
Fante sintetizza, in questo romanzo, non soltanto memorie d’infanzia e d’adolescenza: va scolpendo definitivamente il monumento all’emigrante italiano che fu, e che la nostra letteratura ha colpevolmente dimenticato o rimosso. Quasi fosse uno stimma, o qualcosa di cui doversi vergognare: leggendo i libri dell’artista di Denver conosciamo e ritroviamo quel popolo che oggi sembra non sia esistito mai. Antiche tradizioni, vecchie visioni del mondo, vezzi e contrasti di quel che fummo: con grande dignità, a dispetto dell’ipocrisia, delle sregolatezze, delle volgarità e delle violenze, che qui tracimano con insopportabile naturalezza nell’ambiente famigliare.
Con una umanità impeccabile, e commovente. Italiana, sì.

***

A proposito della seconda saga di Fante, quella della famiglia Molise, spiega Trevi in “John Fante: la vita, i libri”: “Appartengono a questo nuovo «ciclo», meno organico forse di quello di Bandini ma non meno felice dal punto di vista stilistico e narrativo, sia Un anno terribile, che rappresenta un ritorno alle memorie e alle atmosfere dell’infanzia in Colorado di Aspetta primavera, Bandini, sia Il mio cane stupido, che invece potrebbe essere considerato una continuazione del filo autobiografico-familiare di Full of Life: ma con molta più amarezza, sentimento della fine che incombe, senso della verità umana (…)”. Infine, questo “La confraternita dell’uva, del 1977, tardivo «monumento» alla memoria del padre Nick” (p. XXVI). 

http://www.lankelot.eu/letteratura/fante-john-la-confraternita-dell-uva.html

… Amano i cani, soprattutto nei loro comportamenti più bizzarri, e la scrittura, quando è corrosiva, abile e dolcissima. Come ogni cosa imprevedibile e tremendamente vera.


Era gennaio, faceva freddo, era buio e pioveva, ero stanco e mi sentivo malissimo, i tergicristalli non funzionavano, avevo i postumi di una lunga serata passata a bere e a parlare con un regista milionario che voleva farmi scrivere un film sui Tate Murders “tipo Bonny & Clyde”, pieno di brio e stile”. Nessun accenno ai soldi. “Saremo soci, al cinquanta per cento.” Era la terza offerta del genere che ricevevo in sei mesi, segno molto scoraggiante dei tempi”.

E’ il protagonista di “My dog Stupid”, a parlare, cioè lo scrittore Henry Molise, nelle prime righe del romanzo, mentre una sera torna a casa. Ma la sua casa non è del tutto normale (per vari motivi). Il primo è che è “a forma di ipsilon” ed è situata su “una lingua di terra che si spingeva nel mare come una tetta in un film porno”. Il secondo è che è una casa abitata da persone molto “mobili”: le porte si aprono e si chiudono continuamente. Vanno e vengono quattro figli dediti alla maryuana, alle fughe da casa, seguite da garantiti (e non graditissimi) ritorni; fidanzate nere (già mogli dei figli e già incinte, ma i genitori non lo sanno)… E come dirlo alla moglie, puritana, cattolica e bianchissima?… Farsi dare un po’ di erba dal figlio e dopo averla fumata, somministrarla anche alla moglie prima di darle la “gravissima” notizia.

E’ questa, in brevi frammenti frastagliati, l’atmosfera del racconto, la sua irrequitezza, la sua velocità.

Ma in quella serata di pioggia, ecco che accade qualcosa di nuovo ed imprevedibile: un cane, un enorme e peloso cane -scambiato al principio per una pecora, ma che è probabilmente un Akita giapponese –  con la sua grande testa “afflitta” e dall’aria inconsolabile, si piazza nel giardino di casa, completamente indisturbato dagli scrosci di pioggia. Niente e nessuno lo smuoverà più di lì.

Su un’altra cosa Stupido (questo è il nome che gli sarà dato) è inamovibile almeno quanto sulla posizione guadagnata sull’erba del giardino: la sua risoluta e spavaldamente esibita omosessualità. Ha continue erezioni, ma solo se vede un maschio – di qualsiasi specie, sia chiaro. Il fidanzato della figlia di Henry, Rick, è la prima vittima di un suo tentativo di stupro, e quindi conclude certissimo: “Quello che abbiamo qui, signore, è un cane finocchio”. “I cani sono democratici – ribatte immediatamente Henry, già protendendo sul “tenersi il cane”-… Scoperebbero qualsiasi cosa. Una volta ebbi un cane che scopava un albero”.  Anche suo figlio è dello stesso parere di Rick. Ma la reazione di Henry non è meno deviante e “di parte” della precedente: “Anche Cesare. Anche Michelangelo….”. – Risposta sublime…-

Stupido non bada a nessuno. E’ tranquillo e triste e si diletta soltanto a sfoderare ogni tanto la sua “carota” (detta anche “spada arancione”), cercando di “infilzare” qualcuno. Perfino l’imbattuto Pastore Tedesco Ronner, il terrore di tutto il vicinato, che lo sfida a duello e che avrà la peggio. In quel cane, più forte di tutti gli altri, ma soprattutto diverso ed incompreso, che dal giardino passa al divano del salotto, dal divano del salotto alla camera del figlio – Henry improvvisamente vede sé stesso e fantastica, attraverso lui, su tutte le sue possibili vittorie future. Ne è cero. “Era un cane, non un uomo, un animale, ma col tempo sarebbe diventato mio amico e mi avrebbe riempito la testa di orgoglio. Era più vicino a Dio di quanto io non sarei mai stato… Era un disadattato, ed io ero un disadattato. Io avevo combattuto e avevo perso, lui avrebbe combattuto e vinto.”

Il fatto è che questo scrittore in crisi, padre distratto o forse troppo immaturamente  innamorato dei suoi figli (non è chiaro), di due cose è certo: della bellezza di Roma ( il suo sogno infinito….) e del fatto che: I CANI GLI PIACCIONO.

“La strada che conduce al cuore di un cane è la stessa che porta a quello di un uomo: in due settimane Stupido riconobbe in me la persona da cui dipendeva per il cibo, e fu mio. Avevo bisogno di un cane. Semplificava il circolo della mia vita. … Se uscivo di notte con la mia pipa e spostavo il mio sguardo da Stupido alle stelle, vedevo una connessione. Quel cane mi piaceva.”

Ma di cani Henry già ne avuti. Almeno un paio di Bull Terrier. E uno di loro, Rocco, si era anche purtroppo mangiato il gatto siamese della moglie. Tra un susseguirsi pirotecnico di minacce lanciate in aria tra Henry e la moglie (il ricatto è sempre lo stesso: “O io o lui…”), Stupido resterà.

Il padrone che sceglierà è il figlio di Henry, Jamie. I due dormono insieme, russano insieme, e se ne stanno abbracciati. Henry li osserva e pensa:

“Quello che vidi mi piacque. Mi piacevano i ragazzi che dormivano con i cani. Si avvicinano a Dio.” I cani fanno pensare spesso a Dio.

Stupido è simile ad un “motore immobile”, ignaro di tutto ma molto potente. Il suo arrivo e la sua presenza agiranno come un idrante che spazzerà via i pochi, sconquassati brandelli di un equilibrio famigliare fatiscente: tutti i figli decideranno di andare via. Anche il padroncino Jamie, ma solo perché arruolato. E affinché sia chiaro a chi andrà la sua nostalgia, saluta i genitori raccomandandogli solo di “badare al “suo” cane”.

Ma Stupido improvvisamente sparisce. Nel nulla. Come dal nulla era arrivato.

Sarà poi ritrovato, ma per riscattarlo -insieme alla sua nuova amica, una scrofa di nome Emma (il primo essere di sesso femminile con cui Stupido ci abbia provato, ma lei lo ha “sistemato”, quindi lui si limita ora a lavarle il muso con tanto amore…)- Henry dovrà sborsare ben 600 dollari, cioè tutti quelli che ha guadagnato vendendo la “sua” Porsche (… Il suo “Bull Terrier con le ruote”) e poi: la “sua” sega elettrica, le “sue” mazze da golf, il “suo” trattore, le “sue” pistole…. E tutto questo unicamente per poter finalmente realizzare il suo sogno, cioè volare a Roma, lontano finalmente da tutto e da tutti: “Via. Torno alle mie origini, torno alla culla della civiltà, al significato del significato, all’alfa e all’omega…”.

Ma no. C’è Stupido, con il maiale femmina (che Henry ribattezzerà “Maria”, perché sorride sempre, come sorrideva sempre sua madre che si chiamava così….)… Ad attenderlo in un recinto.

E come si può resistere a qualcosa che, è vero, non è un figlio pazzo e rompiscatole, ma è sempre un figlio, non è una moglie, che magari non ti ha mai capito e mai ti capirà, ma con cui hai vissuto 25 anni; e non è nemmeno una Porsche e meno che mai è “ROMA”… Ma che, però, “TI PIACE” e basta?

Non si può.

Henry rimane con le “cose” che più direttamente sente “sue”: in bilico tra la tanto agognata fuga a “Roma” – sogno improbabile ma sufficientemente bello per continuare ad essere sognato – e Stupido, lì, davanti ai suoi occhi che, nel recinto, si lascia cadere accanto alla sua nuova amica, contento come mai prima. Finalmente non più triste.

Tesissimo, tagliente e caldo, questo romanzo è una centrifuga di tenerezza, di strazio e di una crudezza disperanti.

Charles Bukowski, grande amico di John Fante (lo considerava il suo “Dio”). descrisse così le sue opere: “Tutte scritte con le viscere, con il cuore per il cuore”.

“Il mio cane Stupido” finisce con la frase: “E piansi.”

Ma bisogna arrivarci.

http://www.farminachannel.com/d_viewarticolo.php?articolo=898

West of Rome – John Fante – Paperback – HarperCollins Publishers



Epilogue

Tu sei morto
ma i buoni scrittori
restano e così resta il modo in cui mi hai aiutato
a mettere giù le righe
proprio nella maniera in cui
io volevo.
Sono felice, finalmente, di averti incontrato
anche se stavi
morendo.. Bukowski:

Misteri di Little Italy. Storie e testi della letteratura italoamericana : Martino Marazzi

http://www.controappuntoblog.org/2012/01/01/misteri-di-little-italy-storie-e-testi-della-letteratura-italoamericana-martino-marazzi/

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