Jonas Mekas: pratiche di spostamento dai diari scritti ai diari filmati

 

Jonas Mekas, the Lithuania-born leading film-maker of the so-called New American Cinema, is also a poet and a film critic, curator and activist. Trying to enclose his complex and variegated activity is not only impossible, but essentially meaningless. All his work, whether it belongs to literature, film criticism or film-making, echoes the same deep desire to talk, look and act at the first person. So it seems not to be by accident if the private journal, together with the poetry, early becomes one of his privileged form of expression. From 1944, first in a Nazi Forced Labor and then in a Displaced Person Camp, Mekas begins to keep a written diary (partly published in 1991 with the title of I had Nowhere to Go). When he reaches New York with his brother Adolfas, he buys his first Bolex 16-mm camera and he starts to film everyday life. Only several years later, in 1969, this everyday filming practice produces the first diary film: Walden – Diaries, Notes and Sketches is a montage of his archive footage taken between 1965 and 1968. Together with other following films, particularly Lost Lost Lost, this work becomes representative of Jonas Mekas’ artistic practice: a practice based on a radical subjectivity that rejects every codes from classical cinema, or professional tools and dialogues with the private-writing process and language. There, the gaze of the “displaced person”, the gaze of twentieth-century-Ulysses operates as a center of intersection and displacement between literature and cinema.

Oh canta, Ulisse / Canta i tuoi viaggi / Racconta dove sei stato/ Racconta cos’hai visto / E racconta la storia di un uomo / Che non ha mai voluto lasciare la sua casa / Che era felice / E viveva tra le persone che conosceva / E parlava la loro lingua / Canta di come è stato gettato nel mondo.[1]

Comincia così la prima pellicola di Lost Lost Lost, con un appello alla ‘musa Ulisse’[2] recitato, quasi cantato secondo la tradizione dell’epica, dalla voice-over dello stesso autore che accompagna immagini in bianco e nero di una New York fine anni ’40.

Siamo in realtà nel 1976, Jonas Mekas, poeta e cineasta di origine lituana, vive a New York da ventisette anni ed è già considerato il padre della «rinascita»[3] del cinema americano: collabora da più di vent’anni con il «Village Voice» tenendo una rubrica di recensioni cinematografiche; nel 1954 aveva fondato «Film Culture», rivista dedicata al cinema d’avanguardia e nel 1961 organizzerà la Film-Makers’ Cooperative, che si occuperà di distribuire e diffondere i film del cosiddetto New American Cinema Group; ha già realizzato numerosi film, tra cui quello che lo renderà noto per uno stile compositivo, il cinediario,[4] che accompagnerà gran parte della sua produzione futura. Walden – Diaries, Notes and Sketches, questo il titolo del film nella sua interezza, risale al 1969 ed è costituito dal montaggio di filmati amatoriali realizzati dallo stesso regista tra il 1965 e il 1968. La sua pratica cinematografica è ormai definita e inscritta in una volontà di spostamento, di dislocazione da quell’insieme di norme che fondano il cinema narrativo. Una pratica basata su una soggettività radicale che lo (e ci) pone continuamente ai margini, in una condizione di estraneità a dei codici familiari e riconoscibili. È la pratica dello straniero, del cine-Ulisse, dove la nostalgia, il «dolore del ritorno» è per quella casa perduta delle origini: l’Itaca di Semeniškiai, il villaggio lituano dove l’autore è nato e cresciuto fino alla fuga durante l’occupazione stalinista, ma anche l’Itaca del primo cinema, di quelle immagini semplici e meravigliose che non avevano bisogno di «alcun dramma, di alcuna tragedia, alcuna suspense»[5] per catturare lo spettatore.

Uno straniero quindi, o più propriamente un esiliato, una displaced person,[6] definizione diffusa alla fine della Seconda Guerra Mondiale per indicare milioni di cittadini sopravvissuti ai campi nazisti e impossibilitati a tornare nelle proprie terre di origine. In quelli che erano chiamati Displaced Person camp erano presenti, oltre agli ebrei sopravvissuti, numerosi cittadini dei paesi dell’Europa orientale passati sotto il controllo sovietico. Tra loro anche Jonas Mekas e suo fratello Adolfas, che rifiutarono di tornare nella Lituania occupata preferendo rientrare nei programmi migratori, organizzati dall’International Refugee Organization (IRO), che li condussero negli Stati Uniti nel 1949. I fratelli Mekas avevano abbandonato la Lituania già nel 1944, braccati dalla polizia stalinista che li aveva classificati come sovversivi a causa della loro partecipazione a un giornale clandestino anti-regime. In fuga verso Vienna, il loro treno venne in realtà intercettato dai nazisti e diretto al campo di lavoro forzato di Elmshorn, alla periferia di Amburgo.

Jonas Mekas ha ventidue anni ed è già in viaggio, un viaggio di chi in realtà non voleva viaggiare, di chi «non ha scelto di lasciare la propria casa».[7] Decide così di ancorarsi alla scrittura, lui che già era stato premiato per le sue poesie[8] e che prima di ogni altra cosa era stato un accanito e appassionato lettore. Il suo diario di un esiliato, pubblicato nel 1991 con il titolo I Had Nowhere to Go,[9] comincia il 19 luglio 1944. Fin dalle prime righe vi si legge quella che rimarrà la cifra della sua dichiarazione identitaria e del suo sguardo sul mondo: «Non sono un soldato, né un partigiano. […] Sono un poeta».[10] Un poeta sradicato dalla sua terra, dai suoi familiari, ma soprattutto dalle sue letture, dai silenzi, dagli spazi deputati alla solitudine della scrittura. Scriverà entusiasta il 21 agosto del 1945, una volta approdato al campo profughi di Wiesbaden assieme al fratello:

Finalmente! Finalmente abbiamo una stanza tutta per noi, solo per noi due. E un letto, un tavolo, due sedie. […] Adesso, dopo un’intera giornata di lavoro, siamo seduti – per la prima volta da quando abbiamo lasciato la Lituania – siamo seduti a un tavolo coperto di fogli e di libri sapendo che nessuno ci sta guardando mentre leggiamo o scriviamo, nessuno urla o grida. I mostri di Bosch se ne sono andati.[11]

Un poeta precipitato nella dimensione dell’assenza e costretto a rifugiarsi continuamente nella memoria e nel sogno per ritrovare una realtà perduta. Scrive nel Natale del 1948, nel campo profughi di Mattenberg:

Allora sogno. È tutto ciò che mi è rimasto. E quando sogno, tutto torna, tutto rivive. Come stasera, come adesso. Sono seduto qui e sto sognando. E sto scrivendo solo per vedere delle parole lituane davanti ai miei occhi, anche se non posso ascoltarle… [12]

La stessa preoccupazione, quella di non riuscire a stare nel presente, a sentire fino in fondo la realtà, rimarrà anche una volta approdato negli Stati Uniti:

Spero un giorno di diventare più reale… […] Come posso andare avanti con questa mia irrealtà? La mia speranza è un giorno quella di camminare, fare almeno un passo su questa terra e dire: Ah, adesso veramente lo sento, sto veramente camminando sulla terra, non sto sognando…[13]

La pratica del diario, scrittura quotidiana, scrittura più di altre ancorata all’evento e al tempo reale, sembra diventare per Mekas l’unica possibile per non essere scaraventato definitivamente fuori dalla realtà. Un appiglio, un indicatore, una mappa che indichi «io (ora) sono qui». Risuona allora quello che Blanchot descrive come «ricorso al diario»,[14] in riferimento alla pratica diaristica dello scrittore che fugge dalla letteratura, «regno inquietante dell’assenza di tempo»:[15]

Il diario rappresenta il succedersi dei punti di riferimento che uno scrittore stabilisce per riconoscersi, quando prevede la metamorfosi pericolosa alla quale è esposto. È un percorso ancora vitale, una specie di cammino di ronda che costeggia, sorveglia, e talvolta ricalca l’altra via, quella dove errare è il compito senza fine. Qui, si parla ancora di cose vere. Qui, chi parla conserva un nome e parla in suo nome, e la data che s’inscrive è quella di un tempo comune in cui ciò che accade accade veramente. Il diario, questo libro in apparenza completamente solitario, è spesso scritto per angoscia, o per paura della solitudine che è arrecata allo scrittore dall’opera.[16]

Così Mekas, ormai stabilito nel quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, allora abitato soprattutto da stranieri tra cui la piccola comunità dei profughi lituani, annota i monotoni gesti del lavoro operaio che faticosamente riesce a fare per sopravvivere, il prezzo settimanale dell’affitto della stanza che condivide con il fratello, il poco cibo che può permettersi di mangiare, ma anche le prime mostre e i primi film che riesce a vedere, il cambio del clima e delle stagioni – la pioggia, la neve, l’odore della primavera – e soprattutto le lunghe e numerose camminate «solo io e la città».[17]

Annota anche, il 1° maggio 1950, l’acquisto della sua prima Bolex 16 mm. Da quel momento la cinepresa si affiancherà alla macchina da scrivere come strumento di registrazione di una quotidianità che è segno tangibile dell’essere vivi e reali. Ci vorranno quasi vent’anni però prima che questa pratica assuma i contorni di uno stile definito e di una posizione quasi filosofica che farà affermare a Mekas, in un celebre passaggio di Walden che ha il sapore della parodia cartesiana «faccio film di famiglia, quindi vivo. Vivo, quindi faccio film di famiglia».[18]

E non è un caso forse se nelle pagine del diario, che coprono gli anni fino al 1953, quando ancora Jonas e il fratello Adolfas sognavano Hollywood, i «veri film», la pratica quotidiana della ripresa è quasi assente, come relegata in un tempo altro, considerato forse più nobile, elevato, sospeso rispetto a quello ancorato al corpo affaticato e alla solitudine dell’esiliato. Se il cinema entra nelle pagine del diario, vi entra piuttosto come annotazione di film visti o progettati, di editing che non si trova il tempo e l’energia per fare, di lezioni da seguire. Eppure sappiamo che esiste, che è un amore costante, quasi «un’ossessione»[19] da tenere separata, protetta potremmo dire, dagli scarti di quella vita vera, fatta di piccole cose, ma anche di fatica, di angoscia, a volte persino di disperazione – «la mia solitudine è immensa, dolorosa, e senza speranza» –[20] che trova invece spazio nella scrittura quotidiana e frammentata del diario, scrittura in prima persona, privata, di se stessi e per stessi. Eppure sarà lo stesso Mekas a dire, molti anni dopo:

In quel momento [all’inizio degli anni ’60, rivedendo i filmati realizzati prima, N.d.T] ho capito che ciò che mancava nelle mie riprese era me stesso: la mia posizione, i miei pensieri, le mie sensazioni al momento in cui guardavo la realtà che stavo filmando. Quella realtà, quello specifico dettaglio destavano la mia attenzione prima di tutto per i miei ricordi, il mio passato. Isolavo quel dettaglio preciso con tutto il mio essere, con tutto il mio passato. La sfida allora è di catturare quella realtà, quel dettaglio, quel frammento fisico oggettivo di realtà nel modo più vicino possibile a come Io lo sto vedendo. Certo, quello che affrontavo era il vecchio problema di tutti gli artisti: fondere la Realtà e l’Io, giungere alla terza cosa.[21]

Qualcosa è cambiato, allora: il cinema di Mekas ha ormai abbracciato la forma diaristica facendo proprie la frammentarietà, l’incoerenza, la soggettività. A cosa dobbiamo questo cambiamento? Che cosa è successo nei vent’anni che vanno dall’approdo a New York, nel 1949, alla realizzazione del primo cinediario, Walden, nel 1969? Mekas, che aveva cominciato ad appassionarsi al cinema già nel campo profughi di Wiesbaden,[22] comincia a studiare con Hans Richter, esponente di spicco del cinema d’avanguardia americano, che lo accetta alle sue lezioni nonostante non fosse in grado di poter pagare la retta universitaria. Da quel momento Mekas e il fratello parteciperanno a pieno titolo al movimento d’avanguardia. Dopo aver fondato la rivista «Film Culture», comincia a tenere la leggendaria rubrica Movie Journal sul «Village Voice», che, come nota Dominique Noguez, «è certo una rubrica di cinema, ma Mekas impiega più volentieri la prima persona di qualunque altro critico e introduce spesso delle separazioni per data – due delle caratteristiche formali più tipiche del ‘diario’».[23]

Sarà proprio dalle colonne del Movie Journal, descrivendo con termini entusiasti l’opera di Brakhage,[24] che Mekas, inizialmente molto critico nei confronti della nuova generazione di cineasti indipendenti e sperimentali americani, segnerà il proprio passaggio e l’adesione alla poetica e al linguaggio di quella che sarà la seconda generazione del cinema d’avanguardia d’oltreoceano. Una «folgorazione sulla via di Damasco»[25] che lo porterà presto alla fondazione della Film-Makers’ Cooperative e alla realizzazione dei primi film: Guns of the Trees e The Brig, quest’ultimo vincitore al Festival del Cinema di Venezia nel 1964 come miglior documentario. Siamo ancora lontani però dal primo cinediario, sebbene fosse ormai collaudata quella pratica di ripresa quotidiana, quasi «un esercizio», come lo definirà più tardi lo stesso Mekas:

Non avevo abbastanza tempo per preparare una sceneggiatura, né per fare riprese per mesi, né per fare un montaggio ecc… Avevo soltanto pochi momenti che mi permettevano di girare piccoli pezzi. Tutto il mio lavoro personale divenne una serie di appunti. Pensavo che avrei dovuto filmare il possibile durante la giornata, se non lo avessi fatto sarei potuto restare senza tempo libero per settimane. Se potevo filmare un minuto, filmavo un minuto. Se potevo filmare dieci secondi, filmavo dieci secondi. Giravo quel che potevo, per disperazione. Ma per lungo tempo non guardai tutti gli spezzoni che stavo raccogliendo in quel modo. In realtà pensavo che quello che stavo facendo fosse un esercizio. Mi stavo preparando, o stavo provando a usare quanto possibile la mia cinepresa, così quando avrei avuto tempo avrei fatto un film ‘vero’.[26]

David E. James ha messo in luce questo passaggio tra i filmati realizzati quotidianamente, questi appunti cinematografici che Mekas raccoglie negli anni senza un progetto e una visione d’insieme, e i cinediari che realizza successivamente come vere e proprie opere a partire da Walden. Definendo i primi «film-diary» e i secondi «diary-film», James segna quella linea di demarcazione che pone questi ultimi «nell’economia cinematografica, un’economia che privilegia l’intero prodotto nella sua completezza, il momento della proiezione, il pubblico di spettatori e, in qualche modo, un valore di scambio».[27] Ci ricorda anche come questa pratica diaristica, e più in generale la relazione sempre più stretta tra vita e arte, fosse una caratteristica di quegli anni diffusa in tutte le arti, e che la crescente presenza delle donne, in cui la scrittura privata era divenuta pratica pubblica e politica durante il Femminismo, ha forse giocato un ruolo non marginale. Non è un caso che sia stata una cineasta, Marie Menken, lo ricorda ancora James, ad inventare, di fatto, la pratica del film-diary. È anche a lei, per Noguez «la signora dei micro soggetti»,[28] che Mekas deve quello sguardo della meraviglia capace di posarsi sui fenomeni apparentemente insignificanti, come la pioggia, le luci di un albero natalizio, i fiori di un giardino primaverile.[29]

Quando realizza Walden, nel 1969, l’occhio di Mekas è quindi ancora l’occhio di uno straniero, di un esiliato, ma è anche l’occhio di chi ha trovato una nuova comunità, quella di cineasti anch’essi in qualche modo stranieri, fuori, o meglio ‘sotto’ la terra di quel cinema industriale fatto di mezzi pesanti, grandi investimenti economici, divisione del lavoro e strutture narrative lineari. Un cinema che parla una lingua che Mekas e compagni scelgono di non parlare, decidendo di stare piuttosto dalla parte della poesia, del gioco, dell’amatorialità, dalla parte, in fondo, della prima persona. Un displaced cinema, potremmo dire, che non ha casa se non quella data dal momento creativo. Come scrive Brakhage nel suo celebre In difesa del cineamatore: «Un amatore lavora a seconda delle proprie necessità e in tal senso si sente ‘a casa’ ovunque lavori. E se fa del cinema, fotografa ciò che ama o di cui in un certo senso ha bisogno».[30] Già dalle pagine del diario, ben prima di abbracciare il ‘nuovo cinema americano’, Mekas aveva espresso più volte la sua distanza dalle professioni. Scrive in una pagina del 1950, commentando una frase di una lettera ricevuta qualche tempo prima:

Sorrido nel ricordarmi qui di un recente appunto da parte di B. sul fatto che «alcuni dei nostri artisti sono stati costretti a cambiare professione». Ma di cosa sta parlando? Come può un artista cambiare professione se non ne ha mai cominciata una? Essere un poeta non è una professione: è una follia.[31]

È con questi occhi, e con una copia del Walden di Henry David Thoreau[32] sulla scrivania, che Mekas comincia il montaggio del suo primo cinediario, selezionando i suoi stessi filmati realizzati quasi quotidianamente tra il 1965 e il 1968. Potrà permettersi allora quello sguardo sul passato, quella visione d’insieme e in parte distaccata impossibile nella scrittura e nella ripresa diaristica.[33] Sarà quindi un racconto autobiografico, che potrà sfruttare il privilegio della distanza, della visione retrospettiva, ma che rinuncerà alla struttura narrativa lineare per trattenere il più possibile quel carattere frammentario, istantaneo, per immagini giustapposte che è tipico del diario. Sarà anche un autoritratto di gruppo, un album di famiglia, dove scorrono gli amici e compagni Adam Sitney, Stan Brakhage, Gregory Markopoulos, Allen Ginsberg, Andy Warhol, Ken Jacobs, Hans Richter, Jack Smith, Adolfas Mekas, Peter Kubelka, Micheal Snow, John Lennon, Yoko Ono.[34] Sarà soprattutto un grande omaggio alle origini, una costante ricerca di un’Itaca – o meglio di un Walden – che Mekas dichiarerà fin dagli intertitoli iniziali. Sul sottofondo di un rumore costante, quello di una metropolitana, che resterà la concezione sonora prevalente per gran parte del film, leggiamo alternati «Reel one / Dedicated to Lumière / Diaries, notes and sketches/ also known as Walden».[35] Se aggiungiamo il brevissimo primo piano sugli occhi di Mekas, occhi che sembrano aprirsi come nel tentativo di vedere il più possibile, di registrare e imprimere sulla retina tutto ciò che hanno di fronte, possiamo dire che nei primi venti secondi l’autore ci ha già fornito la mappa per orientarci nell’intera opera. Le norme del cinema narrativo saltano già con il primo intertitolo, «reel one», che indicandoci la cornice ci impone un’uscita immediata dal patto d’illusione. Con la dedica ai Lumière questo primo indicatore si fa ancora più chiaro, esortandoci a riposizionarci come spettatori di un primo cinema, meravigliati di fronte alla luce e al movimento, alle immagini semplici e spettacolari della realtà impressionata su pellicola. Non saranno altro che «diari, note, appunti visivi». Possiamo dimenticare quindi il tempo lineare, la costruzione di una trama, di una storia coerente con un inizio e una fine, ma ci è lecito pensare che ciò che vedremo avrà l’autenticità della prima persona, la ‘verità’ del diario, cosa che ci è confermata dal primo piano degli occhi dell’autore. Veniamo avvertiti, infine, che le immagini che ci apprestiamo a guardare hanno qualcosa in comune con Walden,[36] ovvero con quel racconto anch’esso in prima persona, in qualche modo diaristico, che uno scrittore di metà ’800 aveva raccolto in due anni di vita solitaria in mezzo a un bosco, fuggendo dalla società del mercato e cercando di ritrovare le origini dell’esistenza umana nell’osservazione e nel contatto diretto con la natura. E alla manifestazione della natura per antonomasia, le stagioni, veniamo subito diretti con un altro intertitolo «A New York era ancora inverno» a cui seguono due inquadrature fisse su un parco innevato e due persone di spalle che trascinano un bambino su una slitta. «Ma il vento era pieno di primavera», ci avverte l’intertitolo seguente, preludendo a due inquadrature: la prima su rami secchi che si stagliano su un cielo sereno e la seconda sull’autore, seduto, che suona una fisarmonica con lo sguardo rivolto altrove, forse perso in pensieri e memorie lontane. Con l’intertitolo successivo, «Il giardino fiorito di Barbara», lasciamo il rumore della metropolitana per essere trascinati dalle note malinconiche di Chopin che accompagna le immagini di mani femminili, mentre annaffiano con cura dei gerani sul piccolo davanzale di una finestra affacciata su Manhattan.

Dal primo minuto di Walden ci è chiaro che gli intertitoli avranno un ruolo centrale nella struttura del film, in questo ricordandoci una pratica cara al cinema muto. Persino la traccia narrativa iniziale, che sembra alludere quasi all’incipit di un romanzo («A New York era ancora inverno, ma il vento era pieno di primavera») ci induce a pensare che, in fondo, una traccia di narrazione potrebbe essere trattenuta proprio attraverso la didascalia, espediente del primo cinema e inizio di quel lungo e complesso legame che intercorre da sempre con il testo letterario.[37] Ma è solo una falsa pista. Mekas ci rimette subito sulla giusta strada e già dopo qualche minuto capiamo che questi intervalli, questi interstizi testuali altro non sono che delle briciole di pane, dei cartelli stradali che ci accompagnano in una foresta di immagini altrimenti di difficile comprensione. Se, come ha fatto notare Noguez,[38] gli intertitoli di Mekas non sono troppo lontani dalle didascalie di un album fotografico, si chiarirà nel corso della visione una funzione ulteriore, per così dire ritmica, che, associata all’interruzione del suono, produrrà respiri, pause, cesure.

Tra didascalia fotografica, punteggiatura e accenni di narrazione, nell’intero Walden si contano più di cento intertitoli, compresi quelli dedicati all’inizio e alla fine di ogni bobina, ma non sono gli unici elementi testuali presenti nel film. La voce di Mekas comparirà per la prima volta dopo circa dieci minuti di film, accompagnando le immagini di un matrimonio e pronunciando la celebre e già citata frase-manifesto – «Faccio film di famiglia, quindi vivo. Vivo, quindi faccio film di famiglia» – a cui seguirà poco dopo, sull’inquadratura di due fotografie di quelli che intuiamo essere i genitori di Mekas: «Mi dicono che dovrei sempre cercare, ma io sto semplicemente celebrando quello che vedo».[39] L’eco del diario scritto, sebbene non esplicito come sarà più tardi in Lost Lost Lost, è già rintracciabile in questa affermazione che è un inno alla vita e alla semplicità della visione, alla meraviglia della contemplazione. «Partite ragazzi. Partite e vedete il mondo»[40] aveva detto lo zio ai due fratelli poco prima che lasciassero la Lituana. Una frase-amuleto, quasi un mantra che Jonas ripete spesso tra le pagine del diario, come a ricordare a se stesso che se mai potrà esserci salvezza per uno straniero, sarà quella del vedere, dell’osservare, del registrare la vita, la realtà delle cose, con qualunque strumento si abbia a disposizione, quello della scrittura, quello del cinema. «Io cammino e i miei occhi sono come finestre aperte; e vedo le cose, le cose mi vengono incontro»,[41] dirà più tardi nella già citata conferenza del 1972. Quella che potrebbe sembrare parzialmente una dichiarazione di oggettività dell’immagine cinematografica, va invece interpretata alla luce di ciò che lo stesso Mekas afferma poco prima nella stessa conferenza, a proposito delle differenze tra diari scritti e diari filmati:

All’inizio pensavo che ci fosse una differenza basilare tra il diario scritto, che si scrive la sera e che è inserito in un processo di riflessione, e il diario filmato. Nel mio diario filmato pensavo di fare qualcosa di diverso: catturavo la vita, i frammenti di vita, così come venivano. Ma ho presto compreso che non era per niente diverso. Mentre filmo, rifletto. Pensavo di non fare altro che reagire alla realtà presente, ma in verità non ho questa grande padronanza della realtà e tutto è determinato dalla mia memoria, dal mio passato. Alla fine la ripresa ‘diretta’ diventa anche un modalità di riflettere. Allo stesso modo ho capito che scrivere un diario non è solamente riflettere, guardare al passato. La nostra giornata, come torna alla nostra mente nel momenti in cui scriviamo viene misurata, selezionata, viene accettata, rifiutata e rivalutata a seconda del momento in cui ci troviamo, dello stato in cui si è quando la mettiamo per scritto. Tutto accade di nuovo e ciò che mettiamo per scritto è più vero di ciò che si è al momento in cui scriviamo, più vero degli avvenimenti e delle emozioni del giorno che sono passate e ormai spariti. Ecco che non vedo più queste grandi differenze tra diario scritto e diario filmato, almeno dal punto di vista del processo.

Non sorprende allora che la realtà registrata da Mekas con gli occhi della memoria, con il pensiero rivolto alla sua Itaca, al suo Walden, sia quella delle stagioni, della natura che cambia, quella degli alberi e dei fenomeni atmosferici – la pioggia, il vento, la neve. Quella è la sua New York. Come racconta nella già citata intervista con Scott MacDonald:

Di solito la reazione dopo la visione di Walden è una domanda: questa è New York? La New York degli altri è fatta di brutti edifici, di isolati deprimenti e malsani in cemento e vetro. Questa non è la mia New York: c’è molta natura, Walden è composto dai frammenti di memoria di ciò che io volevo vedere.[42]

Sembrano essere occhi diversi, invece, quelli che guardano la New York di quasi vent’anni prima e che ritroviamo all’inizio dell’altro grande cinediario di Mekas: Lost Lost Lost – Diaries, Notes and Sketches. Sebbene concluso nel 1975, anno in cui è stata realizzata la fase di editing, le riprese risalgono al periodo compreso tra il 1949 e il 1963, coincidendo quindi, almeno in parte, con gli anni del diario scritto. I rimandi tra immagini e scrittura sono infatti costanti, ma avvengono soprattutto al montaggio, con l’inserimento dei numerosi intertitoli, la narrazione in voice-over e le inquadrature di vere e proprie pagine scritte:[43] «Quando sentivo che alcuni aspetti di quel periodo mancavano nelle immagini, ricorrevo piuttosto ai nastri registrati e ai diari scritti. Lì spesso c’era quello che nelle pellicole mancava».[44] Mancava di fatto quello sguardo in prima persona, quella soggettività della ripresa che è poi divenuta cifra stilistica dello stesso Mekas. L’action o gestural camera, in cui sentiamo e avvertiamo il suo corpo tutto, con il suo respiro e i suoi movimenti, non compare nelle prime due pellicole, caratterizzate piuttosto da inquadrature fisse, movimenti lenti, campi lunghi. Sono le prime riprese mai realizzate da Mekas, quando ancora, con in mente il ‘vero cinema’, pensava di realizzare insieme al fratello un documentario sulla comunità lituana, su quelle displaced person che, come loro, animavano il quartiere di Williamsburg a Brooklyn. E così, negli stessi giorni in cui nel diario annotava la deformazione delle sue mani a causa del lavoro in fabbrica, i rumori della strada che entravano dalla finestra della sua stanza, i Natali solitari, la pioggia che almeno «quella è reale»,[45] gli oggetti che emanavano, tutti, la sua profonda e inconsolabile solitudine di straniero, negli stessi giorni riprendeva i rifugiati appena scesi al porto, le assemblee della comunità, le feste religiose, le riunioni militanti. Serviranno ancora gli occhi autobiografici della distanza, questa volta a donare quella soggettività un tempo difficile da concedersi perché troppo dolorosa:

Avevo camminato tanto in questo paese, ma non ne avevo ancora dei ricordi. Ci vogliono anni e anni per costruire e raccogliere nuove memorie. Dopo un po’ le strade cominciano a parlarti e tu non sei più uno straniero, ma ci vogliono anni. Non è un’esperienza piacevole da attraversare e per questo non è sempre riflessa nei miei filmati, mentre invece è presente nei diari. L’ho inserita dopo nel film, attraverso ‘la narrazione’, o, più correttamente, ‘il parlato’.[46]

Serviranno gli occhi di un cine-Ulisse riconciliato con la sua dimensione di esiliato, di displaced person, in grado quindi di poter parlare ad alta voce, di dare corpo alla parola scritta, di farla uscire dalla pagina per imprimersi sulla pellicola. Servirà forse non sentirsi più così persi, per poter raccontare la perdita. Nelle ultime pagine del diario Mekas annota spesso i suoi tentativi di sentirsi a casa nella città di New York – «E sono seduto qua, cercando di far crescere nuove radici in questa città» –[47] di costruire nuove memorie che possano riempire il vuoto, la voragine lasciata dai ricordi legati alla sua terra, alla sua infanzia:

Questa è la città che ho costruito, poco a poco, ricordo dopo ricordo, strada dopo strada, volto dopo volto, passo dopo passo. Siamo cresciuti insieme, la città e io… Sono consapevole che la mia New York non sarà mai come la New York di qualcun’altro. Ma lasciamo che sia così… mi ha salvato dalla follia.[48]

Questo passaggio, questo percorso verso un radicamento nella città di New York che passa attraverso il cinema e in particolare la comunità dei cineasti d’avanguardia si sviluppa in Lost Lost Lost quasi come in un romanzo di formazione.[49] E che il cinema abbia un ruolo centrale Mekas ce lo ricorda subito, inserendo come primo intertitolo, che segue come sempre l’indicazione del numero di bobina e del titolo del film: «Una settimana dopo essere approdati in America (B’klyn) abbiamo chiesto in prestito dei soldi e abbiamo acquistato la nostra prima Bolex». Lo vediamo, quindi, in una sequenza tra le più emozionanti dei suoi cinediari, fare il buffone davanti alla cinepresa assieme al fratello, inscenando qualche trucco magico («alla Meliès»,[50] come nota MacDonald).

Lo splendido bianco e nero, frutto di un deperimento della pellicola al momento del montaggio (ventisette anni dopo rispetto alle riprese) ha la grana del passato e ricorda, nota ancora MacDonald, «la fotografia realista degli anni ’30».[51] L’entusiasmo dei due fratelli di fronte all’obiettivo, lo sguardo divertito davanti al semplice atto di registrazione dell’immagine, ci riporta però ancora una volta al fascino delle origini, alla meraviglia del primo cinema. Contemporaneamente ascoltiamo la sua voce invocare la «musa-Ulisse», esortandola a narrare la sua storia in prima persona – «canta i tuoi viaggi» – e chiedendole di raccontare quella di chi non ha mai voluto lasciare la propria terra, la propria lingua, di chi «è stato gettato nel mondo». Ci è lecito allora tessere una trama, comporre una cucitura tra lo sguardo dello straniero e quello della meraviglia, tra lo spostamento, un posizionamento fuori asse e la capacità di trovare e dissotterrare dalle origini perdute quella linfa ancora viva, attuale, ancora piena di significati per il presente. Sarà in realtà una riconquista faticosa, ci mostrerà Mekas, che dovrà passare attraverso l’abbandono di tutte quelle norme costruite in più di cinquant’anni di cinema:

Bisognava gettare via le nozioni accademiche di ‘giusta’ esposizione, di ‘giusto’ movimento, di ‘giusto’ questo e ‘giusto’ quello. Bisognava che mi lanciassi, che mi fondessi con la realtà che filmavo, che ci entrassi indirettamente, attraverso il ritmo, la luminosità, l’esposizione, i movimenti.[52]

Ma per fondersi con la realtà occorreva prima sentirla, ritrovarla attraverso la costruzione di nuove memorie, in grado di soffiare dentro al presente e renderlo vivo. Nelle ultime righe del suo diario, affidando le sue parole a un Ulisse verso Itaca, Mekas ci lascia con l’immagine di una memoria lontana, d’infanzia, un’immagine piena di malinconia che ancora guarda all’assenza e alla perdita:

Ero seduto lì, sulle sponde di questo silenzioso lago del New England, guardando attraverso l’acqua, e ho quasi pianto. Ho visto me stesso camminare con mia madre in mezzo a un campo, la mia piccola mano nella sua, e il campo bruciava del rosso e del giallo dei fiori, e potevo sentire tutto come allora, come in quel luogo, ogni odore e colore e il blu del cielo… Ero seduto lì e tremavo con il mio ricordo.[53]

Deciderà allora di consegnare al cinema, ai colori delle ultime toccanti immagini di Lost Lost Lost, quell’inno alla memoria con cui rifondare il presente, con cui abbracciare e gettarsi nella realtà in prima persona:

I ricordi, i ricordi, i ricordi… Ho di nuovo dei ricordi… Ho un ricordo di questo posto… Sono già stato qui prima. Sono davvero stato qui. Ho già visto questa acqua. Sì, ho camminato su questa spiaggia, su questi sassi.[54]

L’occhio dello straniero ha finalmente una nuova casa, il cine-Ulisse ha trovato le sue nuove radici.


1 Ho scelto di utilizzare la separazione metrica proposta in S. MacDonald, Lost Lost Lost over Lost Lost Lost, «Cinema Journal», 25, 2, University of Texas Press, 1986. La traduzione di tutti i testi di Jonas Mekas presenti in questo articolo, qualora non specificato diversamente, è mia. Per l’intera trascrizione delle parti testuali del film, intertitoli e voice-over cfr. P. Chodorov et alii (par), The Lost Lost Lost book / Le livre de Lost Lost Lost, Parigi, Re:Voir Vidéo, 2000.

2 Jonas Mekas farà spesso riferimento alla figura di Ulisse, sia nel diario, che nei film e negli scritti che li accompagnano. Per un’analisi del complesso rapporto tra Jonas Mekas e l’eroe omerico cfr. C. Eizykman, Mekas Film Mémoire, in D. Hibon et alii. (par), Jonas Mekas, Catalogo della mostra (Parigi, Jeu de Paume, 15 décembre 1992 – 31 janvier 1993), Parigi, Jeu de Paume, 1992.

3 La definizione si trova in D. Noguez, Une renaissance du cinéma. Le cinéma “underground” américain. Histoire, économie, esthétique, Parigi, Klincksieck, 1985.

4 Scelgo qui il termine utilizzato da Adriano Aprà in Flash-back/Flash-forward. Il cinema indipendente americano degli anni Sessanta, in A. Aprà (a cura di), New American Cinema. Il cinema indipendente americano degli anni Sessanta, Milano, Ubulibri, 1986. Mekas farà riferimento alla forma del diario già nella conferenza tenuta in occasione della proiezione del film Reminiscences of a Journey to Lithuania all’International Film Seminar il 26 agosto 1972. Riporto qui un estratto: «Reminescences ricade nella forma del taccuino, del diario, una forma nella quale molti dei ultimi lavori sembrano ricadere». Il testo integrale è pubblicato con il titolo The Diary Film in A.P. Sitney (edit by), The Avant-Guarde Film. A Reader of Theory and Criticism, New York, New York University Press, 1978.

5 Riporto un estratto delle parole di Jonas Mekas in voice-over nella quinta pellicola di Walden: «Guardate queste immagini. Non accade molto. Le immagini scorrono, senza tragedia, senza dramma, senza suspanse. Solo immagini, per me e per pochi altri». Per la trascrizione completa delle parti testuali, intertitoli e voice-over di Walden cfr. P. Chodorov, C. Lebrat (par), The Walden book, Parigi, Re:Voir Vidéo, 2009. Sui rapporti tra Mekas e il cinema delle origini cfr. S. Lischi, Celebrazione del cinema, celebrazione della vita: lo sguardo di Jonas Mekas, in B. Northover (a cura di), Jonas Mekas, Catalogo della mostra (Lucca, Fondazione Ragghianti, 11 ottobre – 2 novembre 2008), Lucca, Fondazione Ragghianti, 2008.

6 Scelgo di utilizzare qui la locuzione inglese che mantiene, rispetto alla traduzione italiana [profugo, rifugiato], un significato fuori dal contesto specifico dell’esilio. Mekas stesso utilizzerà più volte questo termine per connotare la sua identità nomade, di viaggiatore forzato, straniero non per scelta ma per costrizione. Cfr. in particolare J. Mekas, The Diary Film, cit.

7 Ivi, p. 197.

8 L’attività poetica accompagnerà Mekas per tutto l’arco della sua produzione artistica. Tra le raccolte pubblicate: Semeniškių idilės (Kassel, Žvilgsniai, 1948), Gėlių kalbėjimas (Chicago, Santara, 1961) Pavieniai žodžiai (Chicago, AM Fondas, 1961), Reminiscensijos (New York, Fluxus, 1972), Dienoraščiai (New York, Žvilgsniai, 1985).

9 J. Mekas, I Had Nowhere to Go, New York, Black Thistle Press, 1991.

10 Ivi, p. 21.

11 Ivi, p. 98.

12 Ivi, p. 185-186.

13 Ivi, p. 308.

14 M. Blanchot, Lo spazio letterario, trad. it. di G. Zanobetti, G. Fofi, Torino, Einaudi, 1967, p. 14.

15 Ivi, p. 15.

16 Ivi, p. 14.

17 J. Mekas, I Had Nowhere to Go, cit., p. 321.

18 J. Mekas, voice-over nella prima pellicola di Walden.

19 Il termine «obsession» per indicare la passione verso il cinema torna più volte all’interno del diario: «La vita va avanti. Niente di nuovo ma siamo molto presi. La fabbrica e la nostra ossessione per i film». E più avanti: «Se non avessi questa ossessione per i film, non penso che vivrei qui» (J. Mekas, I Had Nowhere to Go, cit. pp. 313 e 429).

20 Ivi, p. 331.

21 J. Mekas, The Film Diary, cit. p.192.

22 Così racconta in un’intervista con Scott MacDonald, a proposito della sua vita nei campi profughi alla fine della guerra: «Non c’era niente da fare e un sacco di tempo. Quello che potevamo fare era leggere e andare al cinema. I film venivano proiettati gratuitamente dall’esercito americano. Tutti i soldi che potevamo guadagnare li spendevamo in libri oppure andavamo in città a vedere le produzioni del cinema tedesco del Dopoguerra. Più tardi, quando siamo andati all’Università di Meinz, che era nella zona francese, abbiamo visto un sacco di film francesi» (Jonas Mekas on his films, interviews with Scott MacDonald 1982-1983, in B. Engelbach (edit by), Jonas Mekas, Colonia, Museum Ludwig, 2008.

23 D. Noguez, Jonas ou la liberté, in D. Hibon et alii (par), Jonas Mekas, cit., p. 45.

24 Cfr. D. Noguez, Une renaissance du cinema, cit., pp. 155-160.

25 Ibidem.

26 J. Mekas, The Diary Film, cit. p. 190. In questo caso ho utilizzato la traduzione di Chiara Zuchellini presente in D.E. James, Film Diario / Diario Film: pratica e prodotto in Walden di Jonas Mekas, in B. Northover (a cura di), Jonas Mekas, cit.

27 Ivi, p. 20.

28 D. Noguez, Une renaissance du cinéma, cit., p. 253.

29 Mekas dedicherà a Marie Menken, e in particolare al suo Glimpses of the Garden, una sequenza di Walden introdotta dall’intertitolo «Flowers for Marie Menken».

30 S. Brakhage, In difesa del cine-“amatore”, in A. Aprà (a cura di), New American Cinema, cit., p. 66.

31 J. Mekas, I Had Nowhere to Go, cit., p. 314.

32 Come racconta nella già citata intervista con Scott MacDonald, Mekas aveva ricevuto una copia del Walden di Thoreau dal fotografo Peter Beard durante le riprese di Hallelujah the Hills, film realizzato nel 1963 dal fratello Adolfas con cui collaborava. In realtà, dalle note del diario emerge che lo aveva già letto durante la permanenza in uno dei campi profughi in Europa, nel 1948.

33 Cfr. P. Lejeune, Le pacte autobiographique, Parigi, Seuil, 1975.

34 Nell’impossibilità di elencare tutti gli artisti, cineasti, musicisti e scrittori che compaiono nella pellicola di Mekas, rimando per un elenco completo e per le note biografiche di ognuno a P. Chodorov, C. Lebrat (a cura di), The Walden book, cit.

35 Per questi intertitoli, che comprendono l’intero titolo dell’opera, preferisco lasciare la versione originale in lingua inglese.

36 Il riferimento doveva essere chiaro agli spettatori americani di fine anni ’60, dal momento che il testo di Thoreau aveva vissuto una nuova fortuna grazie al movimento della Beat Generation.

37 Su questo tema cfr. F. Pitassio, L. Quaresima (a cura di), Scrittura e immagine. La didascalia nel cinema muto, Atti del IV Convegno internazionale di studi sul cinema (Udine, 20-22 marzo 1997), Udine, Forum, 1998.

38 Cfr. D. Noguez, Une renaissance du cinéma, cit.

39 J. Mekas, voice-over nella prima pellicola di Walden.

40 La frase è presente anche nella voice-over di Lost Lost Lost.

41 J. Mekas, The Diary Film, cit., 192.

42 S. MacDonald, Jonas Mekas on his films, cit., p. 153. Ritroviamo frammenti di memoria anche tra le pagine di diario, non solo come lente visiva sul mondo e sulle cose, ma come vere e proprie piccole interruzioni nella narrazione quotidiana, inserti che sappiamo essere stati aggiunti dopo, nella fase di editing prima della pubblicazione e che risentono, forse, anche della pratica filmica sviluppata negli anni.

43 L’inquadratura sulle pagine di un libro è un espediente utilizzato da Mekas anche in Walden, dove spesso compaiono primi piani delle pagine del testo di Thoreau.

44 S. MacDonald, Jonas Mekas on his films, cit. p. 144.

45 J. Mekas, I Had Nowhere to Go, cit., p. 338.

46 S. MacDonald, Jonas Mekas on his films, cit. p. 148.

47 J. Mekas, I Had Nowhere to Go, cit., p. 448.

48 Ivi, p. 460.

49 Su Lost Lost Lost come percorso di formazione cfr. S. MacDonald, Lost Lost Lost over Lost Lost Lost, cit.

50 Ivi, p. 22.

51 Ivi, p. 21.

52 J. Mekas, The Diary Film, cit., p. 192.

53 J. Mekas, I Had Nowhere to Go, cit., p. 469.

54 J. Mekas, voice-over nella sesta pellicola Lost Lost Lost.

http://www.arabeschi.it/jonas-mekas-pratiche-di-spostamento-dai-diari-scritti-ai-diari-filmati/



Regista e critico statunitense di origine lituana. Dopo l’esperienza in un campo di concentramento tedesco, si trasferisce a New York dove negli anni ’50 inizia a frequentare gli ambienti underground della New York School e a realizzare documentari in Super8. Attivissimo, fonda la rivista «Film Culture» e diviene portavoce e principale organizzatore del New American Cinema Group, collabora a «Village Voice» e, negli anni ’60, cura le tournée della Film-Makers Cooperative facendo conoscere i nuovi autori sperimentali americani in tutto il mondo. Diaries, Notes & Sketches (Diari, appunti e schizzi, 1969) dà l’avvio a un’intensa produzione «diaristica» culminata in As I Was Moving Ahead Occasionally I Saw Brief Glimpses of Beauty (Mentre mi muovevo in avanti ogni tanto ho colto brevi visioni di bellezza, 2000), che raccoglie in quasi cinque ore di montato trent’anni di sensazioni e di vita quotidiana. Dal 1970, dirige l’Anthology Film Archive che conserva i lavori del cinema underground e sperimentale.

http://www.mymovies.it/biografia/?r=4244

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