Il Caligola di Camus

Questo articolo è uscito nel numero di agosto/settembre dello Straniero

Nonostante gli anni delle sue tre progressive stesure (1938-39, 1941, 1958), e nonostante gli specchi per allodole appesi sulle quarte di copertina delle edizioni italiane, non credo proprio che il Caligola di Albert Camus abbia a che fare con lo spettro di Adolf Hitler più di quanto non affronti – molto più estesamente – il problema e anzi la tragedia immortale dei meccanismi di potere tra esseri umani. Più che al totalitarismo della Germania nazista (troppo cavo e monolitico per contenere gli istrionismi e la complessità dell’imperatore romano reso pazzo dalla morte di Drusilla, la sua sorella-amante) ho l’impressione che Camus si sia appoggiato all’opera letteraria che in assoluto racconta meglio la maledizione e la solitudine del potere, vale a dire al Macbeth di William Shakespeare, trascinato nel Novecento dallo scrittore francese passando per la boa di un’altra grande prova sullo stesso argomento: la Salomè di Oscar Wilde.

Così come la profezia-sortilegio delle tre streghe (“un giorno sarai re!”) costringe Macbeth ad assecondare i propri istinti sotterranei precipitandolo in un incubo fatto di sangue versato e notti insonni, e così come la bellezza di Salomè strega Erode portando il lato oscuro del tetrarca a spendersi per la decapitazione del profeta Iokanaan, per Camus il potere è innanzitutto una forma di possessione. Possessione maligna in chi lo esercita, e forma epidemica – stiamo in fondo parlando dell’autore de La peste – per chi, quasi mai del tutto incolpevolmente, persiste nel subirlo.
Il Caligola di Camus (mi riferisco soprattutto all’opera teatrale nella sua versione del 1941, forse la più ambigua, problematica e traboccante di spunti) è dunque un posseduto. Ma è un posseduto decisamente diverso dai grandi e terribili invasati della prima metà del Novecento: troppo più ricco e affascinante di Stalin e Hitler, dentro i cui gusci la malattia del potere sembrò spandersi senza mai trovare dighe o controcanti. C’è forse un pizzico di narcisismo a fin di bene in questa scelta, perché lungi da mostrare un paesaggio interiore rispecchiante il violento proletariato rurale (quale fu la Georgia di Stalin) o le frustrazioni del bavarese urbanizzato (quale fu il quasi-bavarese Hitler), il Caligola di Camus è piuttosto un intellettuale profondamente innamorato del Mediterraneo a cui appartiene e della libertà a cui segretamente aspira, il quale, punto dal chiodo arrugginito del potere senza freni (spinto su questo chiodo dalla morte di Drusilla), assiste e reagisce e commenta in diretta e getta in farsa il propagarsi del tetano dentro di sé. Cosa sarebbe accaduto, insomma, al giovane e ardente Albert Camus, se anziché scagliarsi contro il potere esercitato da altri fosse stato incoronato imperatore, e fosse stato dunque sottoposto alla terribile prova del rispecchiarsi nella tentazione del proprio potere illimitato? Più che flaubertianamente, Caligola è uno degli estremi che abita l’interiorità – e soprattutto la giovinezza – dell’autore de Lo straniero.

Sulle epopee di Macbeth e Salomè si eleva infine (e si rovescia) il cielo di un mito orientale. Il Caligola di Camus si può anche leggere come lo speculare del mito di Siddhārtha. Dal Buddhacarita fino alle versioni occidentali come quella di Herman Hesse, il principe Siddhārtha Gautama dovrà uscire dal palazzo paterno e fare la sconvolgente scoperta della mortalità per intraprendere la strada che porta all’illuminazione. Sostituendo il percorso di liberazione con un progressivo incatenamento di segno opposto, Caligola diventa mortale in seguito alla scomparsa dell’amatissima sorella incestuosa e, incapace di sprofondare il dolore in un lago di pace luminosa o anche più modestamente di elaborare il lutto, lo eleva sempre più incontrollabilmente verso l’orgia sanguinaria degli imperatori folli.
A questo punto è lecito domandarsi: da cosa dipende questo suo salto nelle tenebre? Probabilmente è dovuto al fatto che Caligola non è il figlio del sovrano (come nel caso del Buddha) bensì il sovrano stesso, e dunque già investito del potere quando scopre la sofferenza e la finitezza umana. È un sovrano che però – diversamente da ciò che dovrebbero fare gli imperatori romani – non culla per l’Urbe sogni di conquista, ma sogna che la città venga invasa da quello che Artaud avrebbe chiamato “il teatro della peste”. Siamo di fronte a un tipo molto particolare di anarchico incoronato, un imperatore che anziché mettere a ferro e fuoco la Britannia o la Mauritania vuole o meglio pretende che gli si porti – letteralmente – “la luna” (quello stesso pallido, siderale, fantasmatico astro del desiderio che tanto turba proprio l’Erode della Salomè).
Se così da una parte può avere ragione Pasolini nel dire che nulla è più anarchico del potere, l’anarchia di Caligola-Camus appartiene alla poesia e all’arte più che alla vita organizzata, e a quell’arte diventata finalmente vita (cioè autentica libertà) che sarebbe praticabile soltanto in un mondo utopico in cui la malapianta del potere e della sua microfisica fosse del tutto estirpata. Da qui, la dialettica carnevalesca di Caligola.
Diversamente da Hitler, da Stalin, da Mussolini, da Franco, da Pol-Pot, da Kim Jong-il e così via… la parodia del potere messa in scena dall’imperatore di Camus non è mai involontaria. Caligola chiama i senatori: “bella mia!”, dà loro pacche sul sedere, si presenta in pubblico travestito malamente da Venere, e nello stesso tempo lascia che l’arbitrio della sua tirannide faccia vittime come accadrebbe presso la corte di un tiranno qualunque. È come se – dopo la singolarità rappresentata dalla morte di Drusilla, vero big bang di tutto il dramma – Caligola fosse diviso in due metà lanciate al galoppo in direzioni opposte, e sempre più velocemente: da una parte compie azioni da capo di Stato totalitario, dall’altra ne dichiara la vera natura, si autodenuncia come nessun capo di uno Stato totalitario farebbe mai, mostrando (anzi, dimostrando: “lo vedrete, quanto vi costerà la logica!”) ai propri sudditi l’oscenità grottesca del potere, la sua miseria, la sua assoluta pochezza, il suo profondo nichilismo e la vigliacca compromissione di chi al potere è sottoposto (innanzitutto i senatori, i quali, come nella migliore tradizione, aspetteranno di lordarsi e di umiliarsi col fango della connivenza, e solo poi diventeranno congiurati, assecondati in ciò proprio dal ‘capocomico’ Caligola, perché tutta la parabola – almeno questa volta – si compia a carte completamente scoperte). Questa frizione, questa terribile lacerazione tra esercizio arbitrario del potere e suo smascheramento, non può nascere in Caligola se non da un segreta, profonda, celestiale fame di libertà, destinata a incancrenirsi a causa del ruolo che egli riveste e soprattutto a causa del mondo da cui è circondato (Roma, Berlino, Mosca, New York…), un mondo che riconosce a questo ruolo, vale a dire al potere assoluto, ciò che questo ruolo non può ontologicamente avere: un vero, reale significato. Se solo insomma non fosse imperatore, Caligola rischierebbe di diventare un eroe. Ma in che consiste la sua ricerca di libertà?
Il Caligola immortale (il Caligola anteriore alla morte di Drusilla) non può ancora desiderare la libertà e il soffio anarchico della poesia: non si pone nemmeno il problema poiché tutto per lui è libertà esattamente come tutto è innocente e avulso dalla necessità di redenzione per Adamo e Eva prima della caduta. Il desiderio di libertà (e i problemi) iniziano dopo. Il peccato di Caligola non è comportarsi da tiranno, ma essere imperatore. La debolezza di questo cesare consiste così nel non autodeporsi una volta morta Drusilla – una volta che non trova la forza di farlo è già troppo tardi –, dal momento che il suo desiderio di affrancamento dai limiti della contingenza sarebbe salvifico se fosse un pari tra pari, ma diventa fisiologicamente mostruoso – mostruoso per forza di cose! – una volta inserito nei meccanismi del potere. Il vero problema, insomma, non è la presenza nel mondo di personalità come quella di Caligola, ma il fatto che il mondo malato di nichilismo abbia forgiato il guscio vuoto di un Capo (l’imperatore) intorno a cui organizzarsi.
Quest’opera scritta per la prima volta mentre l’Europa precipitava nel gorgo dei totalitarismi, si scopre di conseguenza molto più avanti rispetto al clima culturale e politico dentro cui fu generata. Lungi dal puntare semplicisticamente il dito soltanto contro Hitler o un altro bersaglio circostanziato, è una prodigiosa denuncia dei nudi meccanismi del potere tout court. Direi anzi che è più attuale adesso che allora, perché – terminata l’epoca delle grandi individualità – il potere dei nostri giorni è sempre più una macchina celibe, la quale, senza neanche il bisogno di nascondersi dietro un volto o un’idea ben determinati, celebra la propria nuda volontà di potenza. È un potere insomma sempre più acefalo e pervasivo: pura, mostruosa tecnica che ha meno bisogno di incarnarsi in singole figure mitiche quanto più risulta polverizzata viralmente in ciascuno di noi.
È la macchina, il terribile guscio vuoto, che bisogna combattere, non l’uomo – ecco il messaggio che possiamo (nemmeno troppo tra le righe) decrittare nei deliri dell’imperatore folle di Camus. La dannazione di Caligola nasconde un sogno dentro un incubo: da qualche parte, sempre più lontana ma ancora intatta, riposa la chiave per il nostro affrancamento.

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