IL PIRATA: BELLINI

Tesi n.22 – L’opera italiana nell’800

22.1 – Quadro storico

L’opera teatrale fu di gran lunga il fenomeno musicale dominante in Italia durante il secolo XIX.

L’attenzione del pubblico, dai tradizionali ceti nobiliari ed alto locati alla media e piccola borghesia, dimostrarono assai più attenzione alla produzione operistica rispetto ai generi di musica strumentale e sacra in genere.

La stessa linea di tendenza investì anche i maggiori compositori italiani, che si concentrarono prevalentemente sul genere operistico realizzando un prodotto estremamente apprezzato e riconosciuto anche all’estero.

La realtà artistica dell’opera in Italia fu, nel secolo scorso, anche un fenomeno sociale e di costume, che rispecchiò appieno le mutate condizioni sociali, i mutati equilibri tra i vari ceti e più in generale il crescente spirito patriottico che accompagnava le vicende storiche.

La vera e propria corrente artistica del romanticismo, anche se meno radicale di quella nata in origine in Germania, fu in Italia associata proprio al fermento interiore legata anche alle vicessitudini storiche che la nostra penisola visse in quei decenni; val la pena ricordare che il Romanticismo fu il primo vero e proprio movimento artistico-culturale che non nacque in Italia, ma che venne da noi “importato” dai paesi dell’Europa centrale.

Le tappe che portarono all’affermazione del movimento romantico in Italia possono essere riassunte come segue.

Nel 1816 venne pubblicato l’articolo dell’intellettuale Madame de Stael sulla rivista milanese “La biblioteca italiana”, riguardante l’utilità delle traduzioni. Questo articolo suonò come un monito ed un suggerimento ai pensatori, filosofi ed in generale artisti nostrani affinché ascoltassero ed accogliessero il movimento romantico dall’estero (Germania innanzi tutto).

Nel 1827 venne rappresentata la prima opera tipicamente di estetica romantica prodotta in Italia; si tratta del “Pirata” di Bellini.

http://www.sibemolle.it/materie/storia_musica/tesi/tesi_22.aspx

 

                     Sicilia, XIII secolo

 

ATTO I

Gualtiero, esule costretto a fuggire dalla patria in quanto partigiano di Manfredi di Svevia, è un pirata contro la cui flotta aragonese invano si sono scontrate le forze di Ernesto di Caldora, usurpatore della signoria e seguace di Carlo II d’Angiò.

Durante una tempesta, il Pirata è costretto ad approdare in prossimità della reggia di Caldora. La bella Imogene, amata da Gualtiero e costretta dagli eventi a divenire sposa di Ernesto, corre in soccorso degli sventurati naufraghi, i quali si guardano bene dal rivelare la propria identità.

Tra di essi, Itulbo, il luogotenente di Gualtiero, dà alla nobildonna la falsa notizia della morte del Pirata, che in realtà era stato invitato a nascondersi dal fido Goffredo, unico degli antichi seguaci ad averlo riconosciuto.

Imogene tuttavia crede in cuor suo di aver ravvisato nelle sembianze dello straniero i tratti dell’amato Gualtiero, e, dopo aver incaricato la fida ancella di cercare discretamente conferma a tali impressioni, le trova personalmente nelle parole dello stesso Pirata, che le rivela la propria identità.

La donna ne è però sconvolta: è costretta a propria volta a narrare all’amato del proprio matrimonio col perfido Duca di Caldora, tanto che Gualtiero, in un impeto collerico, risolve di uccidere il figlioletto nato dal matrimonio con Ernesto, frattanto condotto nella stanza dalle damigelle.

L’insano gesto viene evitato per l’implorazione della madre, mentre dall’esterno giungono gli echi festosi del ritorno di Ernesto, dopo la definitiva vittoria sulla flotta dei pirati.

Il Duca si stupisce della tristezza di Imogene in un tale momento di gioia, e, dopo aver avuto notizia della presenza di alcuni naufraghi ospitati all’interno del castello, il dubbio si impadronisce di lui. Sarebbe suo desiderio metterli in prigione fino a che egli stesso non sia perfettamente sicuro della loro provenienza, ma, per intercessione della moglie, concede a costoro di partire non oltre l’alba del giorno successivo.

Gualtiero riesce comunque a farsi promettere da Imogene un ultimo incontro.

 

ATTO II

Il Duca è ormai sicuro del turbamento della moglie, la interroga, e, sebbene questa tenti ancora di sviare le insinuazioni di Ernesto, ben presto la verità ha il sopravvento. Imogene incontra quindi Gualtiero, ma, a sua insaputa, è stata seguita dal marito che, trovata conferma al sospetto, si lancia in duello con il Pirata, rimanendone tuttavia vittima.

Gualtiero, che tenta invano di convincere Imogene a lasciare Caldora ed a seguirlo, anziché fuggire, si consegna al Gran Consiglio dei Cavalieri di Caldora, per rispondere dell’uccisione del Duca. Viene condannato a morte, ed Imogene cade in preda alla follia.

http://www.cataniaperte.com/bellini/opere/opere_pirata.htm

Il libretto fu tratto dal mélodrame di Isidore J. S. Taylor Bertram, ou le Pirate, andato in scena a Parigi nel novembre 1826, a sua volta ispirato alla tragedia in 5 atti Bertram, or The Castle of Saint-Aldobrand di Charles Maturin (1816).

 

Il Pirata di Vincenzo Bellini – Opera Rara

by Gilbert-Louis Duprez, Scritto il

Il Pirata è l’ultimo nato di casa Opera Rara: l’incisione, risalente alla primavere di due anni fa, prosegue, dopo l’interlocutoria Straniera, l’avventura dell’etichetta inglese nel catalogo belliniano. Purtroppo gli esiti sono alquanto modesti, tanto da domandarsi il senso di un’operazione siffatta. I dubbi non derivano da mero pregiudizio (ritengo che Opera Rara svolga una funzione di inestimabile valore nel tramandare repertori poco frequentati in edizioni criticamente attendibili e, al solito, dignitosamente eseguiti), né da atteggiamenti di venerazione verso un passato più o meno glorioso o, peggio, da vero e proprio culto della personalità per alcuni interpreti storici (non credo certo alla fesserie delle “sacre memorie” intangibili). Piuttosto, alla luce dell’ascolto, non trovo ragione di profondere tante energie in un prodotto del genere. Innanzitutto: perché Il Pirata? L’opera, fondamentale snodo del melodramma italiano a cavallo tra reiterazione di sorpassati modelli rossiniani e timidi tentativi “romantici”, pur non essendo “opera di repertorio” al pari di Norma o Sonnambula o Puritani (per stare al medesimo autore), neppure è opera “rara” e dimenticata: anzi, vanta una storia esecutiva (anche recente) di tutto rispetto e di indubbia fascinazione. Senza contare che la scena di Imogene è da tempo un must per grandi dive (la Callas, tra le altre, lo inseriva spesso e volentieri nei suoi concerti). Peraltro l’opera non presenta brani alternativi da esplorare o versioni inedite da approfondire: tanto che sono disponibili diverse edizioni integrali dell’opera. A poco vale l’inserimento della vera scena conclusiva (effettivamente rimasta inedita): la partitura, così come scritta da Bellini, infatti, presenta dopo la gran scena di Imogene (la grande aria “Col sorriso d’innocenza” e relativa cabaletta con cui si è sempre conclusa l’opera), una diversa “scena ultima” in cui Gualtiero, trascinato al patibolo, si getta in mare davanti agli occhi di Imogene – che sviene – tra l’orrore generale. Tre minuti scarsi di accordi cadenzali, clangore di piatti e grida di orrore del coro che difficilmente potrebbe definirsi “musica” e che Bellini – resosi conto della sua perfetta inutilità teatrale (e conscio che nessuna primadonna avrebbe accettato di vedersi attaccata questa “roba” alla propria gran scena) – si affrettò a cassare dopo la prima rappresentazione. Poca roba, dunque, per giustificare un interesse editoriale all’elegante cofanetto Opera Rara. Né, a soccorrerlo, provvede il livello dell’esecuzione: già, perché se dal punto di vista del titolo non si comprende la necessità di una nuova incisione, neppure dal punto di vista dell’interpretazione se ne afferrano le ragioni. Appare tutto chiaro sin dai primi sgraziati accordi della Sinfonia: se “il buon giorno si vede dal mattino”, quella che ci offre David Parry è davvero una pessima giornata! L’incedere è morchioso, pesante e volgare (il chiasso che producono piatti e ottoni è difficile da metabolizzare), i tempi sono impostati su di una estenuante lentezza (tanto da dover “spalmare” l’opera su tre cd), il suono orchestrale è troppo forte e sgraziato, e nessuno spazio è lasciato alla dimensione malinconica, indispensabile all’estetica belliniana (quanto diversa appare la direzione di Gavazzeni – non certo famoso per raffinatezza – o quella del compianto Viotti). Parry non è stato mai interprete particolarmente rifinito o fantasioso (e del resto non ci si aspetta da lui alcuna lettura rivelatrice), ma nelle incisioni di Rossini, Donizetti o Mercadante, se pure non apriva nuovi orizzonti, almeno non faceva danni, limitandosi a controllare con mestiere il suono orchestrale, nascosto in un anonimato che certamente non faceva onore alla professione svolta, ma neppure produceva disastri. Ultimamente qualcuno deve avergli fatto credere di essere un grande direttore, tanto da fargli reclamare uno spazio di visibilità eccessiva (rispetto ai mezzi) che tramuta la modesta professionalità di un tempo, nella parodia di un Toscanini in minore. Perfettamente in sintonia con il nuovo corso di Parry è il coro (il solitamente più corretto Geoffry Mitchell Choir) che – ignorando del tutto la pronuncia italiana e dando chiaramente contezza di non aver la più pallida idea di quel che sta cantando – pare conoscere due sole modalità espressive: il forte e il fortissimo. Tali premesse non possono che rendere la scena iniziale – con la tempesta che tanto ispirò il Verdi di Otello – una brutta serie di accordi e grida, inframezzati da ottoni fuori controllo che dell’ambientazione marina riportano alla mente solo le sirene (delle navi). Poche parole vanno spese per i cantanti. I comprimari, in perfetta tradizione Opera Rara, sembrano presi per sbaglio: pronuncia improbabile e ancor più improbabile tecnica di emissione compromettono inevitabilmente gli interventi di Itulbo, Goffredo e Adele che, proprio perché concentrati quasi esclusivamente nei passaggi di recitativo (senza brani solistici in cui “riscattarsi”), richiederebbero una attenzione particolare al fraseggio e all’articolazione della frase. In questo caso né Mark Le BrocqBrindley SherrattVictoria Simmonds paiono giustificare la presenza, nei credits del libretto d’accompagnamento (sempre elegante e ben fatto), della italian coach Maria Cleva. Improbabili anche i tre protagonisti. Il Pirata ha un personaggio centrale: Gualtiero. Ruolo scritto per Rubini all’apice della carriera e, come tutti i suoi ruoli, centrato sul registro medio alto, sul cosiddetto passaggio, e caratterizzato da lunghe frasi malinconiche ed andamento elegiaco (le caratteristiche del cantante per cui fu scritto), con passaggi di agilità molto scomodi e diverse incursioni nella “stratosfera” (persino un Mi nella stesura originale della Cavatina dell’atto I). José Bros fa quel che può, ossia poco e pare da subito in difficoltà nel gestire il registro acuto e sopracuto: certo le intenzioni vi sarebbero anche, ma l’impossibilità naturale di raggiungere con facilità i Do e i Re compromette l’intera interpretazione e i tentativi di sfumatura. Non si cerchi invano l’utilizzo del “falsettone” e ci si accontenti ora del falsetto più smaccato, ora dell’acuto sforzato. La Cavatina (tradizionalmente abbassata di un tono) e la Cabaletta (eseguita nella sua forma alternativa – non so se di mano belliniana o, più probabilmente, di un maldestro copista di Ricordi –  che semplifica le cadenze finali), appaiono difficoltose e poco sicure, decisamente meglio l’aria dell’atto II (che, invero, è più abbordabile). Inadeguato pure l’Ernesto di Ludovic Tézier: troppo grossolano e squilibrato oltre che carente nel registro acuto…senza contare i vistosi fuori tempo nei duetti e nei concertati (complice Parry) dove ciascuno pare canti con tempi differenti. Tuttavia la peggiore è l’Imogene di Carmen Giannattasio, la cui interpretretazione è compromessa da un peccato originale: la solita, abusata e sciagurata imitazione della Callas! Ora, premesso che la Giannattasio non è dotata di personalità debordante e che, dunque, tende ad ispirarsi a fonti differenti in base ai differenti ruoli (con risultati variabili), mai mi risulta fosse ricorsa alla tecnica dell’emissione ingolata (come se qualcosa ostruisse la libera uscita della voce) nel vano tentativo di riproporre certe sonorità callasiane (peraltro gestite in tutt’altro modo). Questa Imogene, in tal senso, è ancora più sfacciata di quella di Lucia Aliberti che, almeno – tolta la “patata in bocca” con cui si autocastrava – sfoggiava una musicalità nettamente superiore ed un controllo di fiato e linea vocale encomiabili al confronto. La Giannattasio, invece, non riesce a gestire i fiati (anche per colpa di tempi assurdamente lenti) e neppure mostra dimestichezza con le agilità (impastatissime nelle cabalette). Men che meno col registro acuto che conquista con grandi sofferenze. Non vale la pena, infine, soffermarsi su cadenze e variazioni e acuti interpolati: tutti immancabilmente fuori stile o inseriti nei punti sbagliati (Il Pirata è del ’27 e non del ’60). Null’altro da dire per un prodotto inutile nelle premesse e assai deludente nella realizzazione: sicuramente la peggiore incisione di Opera Rara.

La copertina è bella però 😉

http://www.ilcorrieredellagrisi.eu/2012/06/il-pirata-di-vincenzo-bellini-opera-rara/


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