Safe House – Nessuno è al sicuro

Momenti di violenza quasi coreografica e intelligenti variazioni sui più duraturi luoghi comuni dello spy-movie  

Marco Chiani    

 
 

Latitante da dieci anni, Tobin Frost, ex agente della CIA in possesso di un microchip con documenti compromettenti, viene catturato e portato nella Safe House gestita da Matt Weston, ufficiale leale all’organizzazione deciso a migliorare la propria posizione lavorativa. Poco dopo l’inizio dell’interrogatorio, un gruppo di mercenari fa irruzione nella zona protetta cercando di uccidere la pericolosa spia, che riesce però a fuggire insieme al suo custode. Ora, il compito di Matt è quello di portare in salvo il detenuto tra le fughe di quest’ultimo e un gioco sporco in cui il volto dei buoni e dei cattivi paiono confondersi sempre di più.
Sorvegliante di un luogo sicuro e segreto per definizione, il protagonista del riuscito thriller di Daniel Espinosa passa da una situazione di inattività costretta a quella di un’azione sfrenata in cui non ha nemmeno il tempo di focalizzare ciò che gli accade intorno. La forza d’avvio della pellicola sta proprio qui, specificatamente nel repentino cambio di stato del personaggio interpretato da Ryan Reynolds, capace di sintetizzare tutti gli argomenti messi in campo: il tema della crescita, dell’onore, della (s)fiducia nelle istituzioni e, prima di tutto, dello scontro con una realtà sommersa com’è nascosta la sua vera identità agli occhi della compagna.
Nel frastuono di sequenze dirette con buona mano e una vena nichilistica poco comune per una produzione americana emerge una possente struttura che somma all’action-thriller classico le vibrazioni più paranoiche del filone spionistico. Solo a livello epidermico, in realtà, si tratta di una storia in cui nessuno è quello che sembra e il male è proprio lì dove te lo aspetteresti, perché Safe House – Nessuno è al sicuro conta soprattutto per il racconto di due differenti e avverse visioni destinate in qualche modo ad incontrarsi. È il viaggio, nella sua accezione più straniante e piena di insidie, l’orizzonte in cui una tale metamorfosi può avvenire, così come accadeva nell’affine Quel treno per Yuma, classico che lo sceneggiatore David Guggenheim deve aver tenuto presente. La fotografia gravida, ora accecante ora plumbea, segna le varie tappe del cammino fino ad una resa dei conti in perfetto stile western, stemperata da una chiusura del cerchio che sarebbe stato meglio sospendere di più.
Dopo le esitazioni di una prima metà troppo affidata al naturale istrionismo di un Denzel Washington che non può non mettere in ombra l’attor giovane, il regista accosta momenti di spiccata e quasi coreografica violenza a intelligenti variazioni dei più duraturi luoghi comuni del genere. Se Vera Farmiga interpreta il solito ruolo risoluto, la scelta di casting più azzeccata è quella del grande Sam Shepard, monolitico e finissimo nel suo aggiungere spessore ad ogni momento in cui appare.

http://www.mymovies.it/film/2012/safehouse/


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