Sussurri e Grida – Ingmar Bergman [1972]

Se Persona può essere considerato il film registicamente più azzardato di Bergman, Sussurri E Grida potremmo definirlo come la sua opera più intima.

Purtroppo però questo non è un film definibile.

È davvero un’espressione estemporanea che non può essere facilmente paragonata ad altre opere, malgrado svariati richiami alla pittura siano da tener presenti.

Partendo già solo dall’analisi della superfice dell’immagine incontriamo difficoltà interpretative. E’ per bocca dello stesso regista svedese che apprendiamo che «Tutti i miei film possono essere pensati in bianco e nero, tranne Sussurri E Grida». Tutto il film è infatti giocato sulla totale e onnipresente preponderanza del rosso. Un rosso sangue che è sulle pareti, sul pavimento, nelle dissolvenze. È ovunque. E a questo, si alternano soltanto il bianco dei vestiti e il nero degli arredamenti.

E’ il rosso dell’anima e della carnalità.

Ma proprio l’ossessiva ricorrenza tritonale fa di questa pellicola una pellicola esattamente paragonabile ai precedenti bianco e nero di Bergman. Luci e ombre sono gestite come in Persona.

D’altronde a dirigere la fotografia c’è sempre il solito fedele Sven Nykvist che, qui più che mai, si dimostra insuperabile sotto ogni aspetto. Tanto l’ombra quanto la luce hanno una loro presenza materica che definisce ambienti e personaggi esattamente come fanno abbigliamento e arredamento, perché in questo film tutto è materia e tutto è psiche. e tutto è anima.

I prodigi luministici non sono infatti fini a sé stessi, bensì sono atti a scavare a fondo dentro ai personaggi. Vanno così tanto a fondo che non è un gentile scavare con le mani una piccola buca nel terreno, ma un picconare a due braccia per frantumare l’apparenza del sé.

La trama è presente, ma è secondaria. È sottomessa anch’essa all’indagine intima dei rapporti intra e inter personali, e non è comprensibile fino perlomeno dopo aver superato la metà della visione del film.

Film che si caratterizza anche grazie a immagini forti, di una violenza psicologica che trova sfogo nella carne. La scena nella quale una straordinaria Ingrid Thulin si infila un pezzo di vetro nell’organo genitale è quanto di più vicino e distante possa esserci da quanto William Friedkin farà un anno dopo nella famosa scena del crocefisso ne L’Esorcista. In Bergman non c’è la sola dissacrazione dei fondamenti religiosi ma emerge il godimento perverso della mai sopita necessità umana della ricerca della libertà dalle repressioni imposte dalla società. E’ la felicità nel riscoprirsi animali, essere viventi che antepongono l’istinto alla ragione, anzi, ancor meglio, che hanno provato le deprimenti condizioni che la ragione detta nel porsi e che quindi viene coscientemente repressa e subissata.

Fondamentali per la resa psicologica dei personaggi sono i numerosi primi piani, cifra stilistica di Bergman che qui raggiunge il suo apice massimo suscitando nello spettatore un senso d’imbarazzante instabilità che, seppur con altri fini e altri modi, per l’aggressività nei confronti dello spettatore potremmo affermare che è qualcosa che non si vedeva dai tempi de The Great Train Robbery di Porter del 1903.

Ogni volto è un paesaggio, come una tela bruciata di Alberto Burri, è luogo di apparizione dell’anima. E solo una visione forzata e ripetuta può permetterci di vedere ciò che solitamente non vediamo.

Il primo piano capolavoro e prolungato della eccezionale Liv Ullmann di fronte allo specchio è scena da antologia, ma tutti gli altri primi piani non sono da sottovalutare. Soprattutto quelli che si impongono come apparizioni sullo schermo, delimitati da più che significative assolvenze e dissolvenze in rosso.

E se la grandezza di quest’opera è data dalla genialità visionaria di Bergman e dalla mirabolante fotografia di Nykvist capace di portare la diegesi luministica a risultati che potrebbero far rileggere in chiave meno anticipatoria i funambolismi tecnici di Kubrick in Barry Lyndon, non bisogna assolutamente tralasciare la stupefacente interpretazione delle quattro donne uniche protagoniste della scena dall’inizio alla fine del film. Alle già citate Ingrid Thulin e Liv Ullmann si devono affiancare i nomi della sbalorditiva Harriet Andersson nei panni della morente Agnes, vera e propria figura catalizzatrice di paure, angosce e amori delle sue coinquiline, e di Kari Sylwan la domestica della casa, figura materna nell’animo e visivamente vicina alle modelle dipinte da un George de la Tour o da qualche pittore scandinavo del XIX secolo.

Anzi, l’influenza che alcuni dipinti hanno esercitato in Bergman per la realizzazione di questo film appare evidente in più punti.

L’utilizzo del colore è estremamente espressionistico anche se, a mio avviso, più che qualche pittore fauve alla Matisse, sarebbero da menzionare le rosse pareti de Le Café De Nuit che Van Gogh dipinse nel 1888, anno già avanzato per la sua breve ma intensissima carriera, che si inserisce proprio nel discorso bergmaniano di una ossessiva e ineludibile concatenazione fra instabilità psichica e repressione della e nella carne.

Per le ambientazioni e le atmosfere invece chiamerei in causa il densissimo pittore danese Carl Vilhelm Holsoe e la sua connazionale e coeva [stesso anno di morte, il 1935] pittrice Anna Ancher punto cardine della cosidetta Scuola di Skagen.

Sussurri E Grida è tutto ciò ed è molto altro ancora, ma l’infinita limitatezza della parola non può e non deve ostacolare la nostra percezione. E di fronte a quest’opera, si percepisca!

Danilo Cardone

http://cinefobie.com/2011/05/21/sussurri-e-grida-ingmar-bergman-1972/

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