Il silenzio Tystnaden : il film più tosto di Bergman, per me

Bergman Ingmar

Il silenzio

Lun, 26/06/2006 – 13:32 — Léon

 

 The rest is silence“.

William Shakespeare, Amleto, AttoV, Scena II 

 Di ritorno dalle vacanze, le sorelle Anna ed Ester – insieme a Johan, figlio di Anna – sono costrette a fermarsi in un albergo di Timoka, città d’un Paese straniero. La sosta è figlia della malattia di Ester, oramai debilitata e prossima alla morte. Un albergo grande, con pochi clienti, è lo scenario di una dolorosa vicenda: il muro di silenzio tra le due sorelle. Ester è un’affermata traduttrice, ma la lingua del luogo le risulta incomprensibile. Johan girovaga per i corridoi in cerca d’attenzione, svago e protezione. Anna infatti è una madre distratta, dedita alla ricerca di fuggevoli incontri sessuali e animata dalla propensione per un oblio catartico che la allontani dalla malattia della sorella. Le incomprensioni di una vita hanno allontanato le due sorelle; il tempo di Ester, prossimo alla fine, è l’unico rimasto per un chiarimento. Lo scontro è aspro ma impari, non c’è più tempo per riconciliarsi. Resta solo l’umana disperazione. Il piccolo Johan è testimone silente di questo vuoto sospeso: è l’innocente spettatore di un distacco definitivo. Ester crolla; la malattia la logora, con inesorabile velocità. Anna continua il viaggio con Johan, abbandonando Ester al suo destino. Ma Ester lascia una lettera a Johan, perché comprenda, perché capisca il significato di alcune parole sconosciute imparate in quel luogo straniero, lontano. Tra queste, il bimbo legge alla madre la più emblematica, l’ultima che la zia le aveva lasciato nello scritto: anima.

Ennesimo viaggio di Bergman nell’abisso e nelle profondità dell’animo umano, Il Silenzio è una pellicola allusiva e simbolica, dai dialoghi scarni ed essenziali, abilmente affidata alla potenza e all’evocazione dell’immagine. Il bianco e nero, consueto ed amato da Bergman, evidenzia come sempre il realismo allegorico tanto caro al regista scandinavo, qui al suo meglio nel caratterizzare il linguaggio gestuale che si fa arma concettuale e filosofia dell’esistenza. Il rapporto d’amore-odio che instaura con i suoi personaggi gli permette di non far trasparire giudizi netti sulle loro spinte motivazionali; non si evince mai, nemmeno in un soggetto come quello in questione, un giudizio morale o un caratterizzato orientamento etico. E questo è un bene, perché permette al regista di avventurarsi in analisi impietose che restano a significarci la contraddittorietà e le debolezze degli esseri umani. Ester ha sempre giudicato Anna, per la sua facilità con gli uomini, per il suo essere l’esatto opposto di ciò che suggeriva una “vita retta”. Anna si sente odiata e inadeguata, sceglie di vivere alla giornata e in un modo il più possibile gaudente, ma è insoddisfatta, senza una direzione, senza una meta. L’insoddisfazione di Ester, però, in punto di morte, è ancor più forte e figlia del manifestarsi virulento di un’anima imprigionata, tra il desiderio e l’inadeguatezza di poterlo avvicinare. Ester rifiuta gli uomini nonostante sia ancora una donna piacente, perché li trova lascivi e animaleschi, forse. Ma il reale motivo, probabilmente, è vissuto più in profondità; la pellicola, nel suo silenzio immaginifico, lo lascia solo intuire. Johan ha il volto puro e curioso del bimbo spaesato ma che sa, comprende, interiorizza e sviscera attraverso gli sguardi: è difficile crescere senza un padre (lontano…), anelando l’amore della madre e trovando gli ultimi sospiri affettivi della zia. Intenso e coinvolgente è il brevissimo richiamo al teatro che Bergman anche in questo caso si concede e ci regala: Johan, invitato dalla madre a leggere un libro alla zia, inscena un simbolico teatrino delle marionette che ruba al volto di Ester un ultimo ed emblematico sorriso. Ingrid Thulin è perfetta nel ruolo di Ester, si cala con partecipazione in un personaggio che è decisamente nelle sue corde, e dà prova di essere, probabilmente, la migliore interprete femminile delle opere del grande regista scandinavo – è una bella lotta con Liv Ullmann, compagna di Bergman e musa della seconda parte della cinematografia dell’autore. Gunnel Lindblom, nel ruolo di Anna, restituisce un diverso tipo di inquietudine rispetto alla Thulin, più mimetizzata e rarefatta, meno evidente nei faccia a faccia tra le due attrici. Dominano la pellicola: la bellezza estetica, la splendida fotografia di Nykvist ed un soggetto corrosivo ed intimista dalle tinte fosche.

In Immagini, le suggestioni che hanno ispirato il dramma bergmaniano ed alcune considerazioni del regista:

Il silenzio originariamente si chiamava “Timoka”. Avvenne per pura combinazione. Vidi la parola su un libro estone, senza sapere che cosa significasse. Pensavo che fosse un bel nome per una città straniera. La parola significa “appartenente al boia”. (…) La città straniera era un motivo che mi appassionava da tempo. Prima de Il silenzio avevo scritto un film che rimase incompiuto. (…) A voler ben guardare in profondità, credo di poter dire che il motivo della città proviene originariamente da un racconto di Sigfrid Siwertz. Nella raccolta Il circolo del 1907 ci sono alcuni racconti che si svolgono a Berlino. Uno di essi, che si intitola La tenebrosa dea della vittoria, deve aver colpito fortemente la mia giovane coscienza. (…) Quando oggi rivedo Il silenzio, devo ammettere che in alcune parti risente di una certa letterarietà. Si tratta, in primo luogo, dell’intesa tra le sorelle. Il dialogo conclusivo è un po’ timoroso tra Anna e Ester. Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare.”

Un film ispirato, che creò scalpore e fu censurato, subendo anche manomissioni nel doppiaggio dell’edizione italiana. Un’opera che conferma l’indiscusso genio autoriale e registico di Bergman, figlio del suo consolidato realismo onirico tanto caro a una folta schiera di letterati ed artisti scandinavi  – Stig Dagerman su tutti, le cui storie sono comunque vissute con più partecipazione personale rispetto a quelle di Bergman, ma egualmente animate dal sogno come esigenza per la spiegazione della realtà. Il linguaggio dell’anima, lascia intendere Bergman, non ha, in fondo, bisogno di troppe parole. Ci sono le immagini e si spengono le luci. È il momento di lasciarsi andare e di immedesimarsi, e di ascoltare. In silenzio.

Regia: Ingmar Bergman. Soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. Fotografia: Sven Nykvist. Montaggio: Ulla Ryghe. Interpreti principali: Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Jorg Lindstrom, Hakan Jahnberg, Birger Malmsten. Musica: P. A. Lundgren. Produzione: Svensk Filmindustri. Titolo originale: Tystnaden. Origine: Svezia, 1963. Durata: 95minuti.

Info: sito ufficiale del regista

http://www.lankelot.eu/cinema/bergman-ingmar-il-silenzio.html

Ingmar Bergman’s, The Silence, is the third installment in the artist’s so-called “spiritual trilogy” which investigates the artist’s relationship, or lack thereof, with god or his spirituality. It was interesting to finally see this film so as to close the case on the collective effect of the trilogy, having studied all of its parts respectively. Having read up on the film a bit before watching it, I must say it was certainly liberating to see the camera move after coming from Winter Light and Through a Glass Darkly in which the camera barely moves at all. As Peter Cowie explains in his interview on the greater significance and overall critical interpretation of the film, some shots are even taken from the point of view of the boy; thus, giving the cinematography a subjective dimension apparently quite novel to Bergman films. The idea for this film that Bergman wrote about in his autobiography, Images: My Life in Film, was this notion that the entire screenplay was based on a dream; moreover, it was based on an alternate world, similar to our own, but a world without social rules or guidelines where anything can happen.
I found it most compelling the way the character of Ester had this profound inability to engage in social interaction, thus, leading her into alcoholism and social withdrawal. To that end, I also found it disturbing the way Anna is such a maliciously spiteful character to Ester as she tries to reach out to her. I think the entire film speaks to an inability of humans to interact socially, morally and virtually; and therefore, if the closest thing to spirituality lies in human interaction (in the mind of Bergman), what do we do if we can no longer communicate? Anna’s son, Johan, is representative of the purity of individuals before they are corrupted by society; still fresh and naïve to the world he is able to interact with all of the grotesque individuals he encounters throughout the hotel. It seems that both Anna and Ester are perpetually trying to escape as a result of their inherent inability to socially interact. Ester is constantly using alcohol and her work to escape the reality of her life and her inability to engage in social interaction and it seems Anna’s over-sexualized character seems to escape into sexual interaction as best exemplified in the scene where she makes love and ends up crying with the man she has met in the café. The notion of the dwarves is also quite interesting, Peter Cowie mentions this as well; Johan is able to interact with them, yet, Esther is unable to interact with them not due to their infirmity or grotesqueness but due to her own. Ester is obviously a figure suffering from an internal crisis, as is Anna, as they are both shown to be relatively beautiful women; yet, both seem rather grotesque psychologically.
The cast is quite small; yet, the two leading women are both Bergman favorites, quite competent and believable in their performances. We are familiar with Gunnel Lindblom from The Virgin Spring and The Seveneth Seal and with Ingrid Thulin from Wild Strawberries and Winter Light. Bergman says something in his autobiography about this film possibly being responsible for sabotaging both of these highly talented actresses careers due to some of the risqué more obscene portions of the film. For example, Gunnel Lindblom’s breasts are shown in clear view for a few second as she washes them off in the sink and then afterwards, she barges in on a couple having sex in the movie theatre; this moment too, is quite vividly portrayed. Furthermore, there are scenes of violent sex between Gunnel Lindblom and a waiter she picks up in a café, who doesn’t speak her language; a perfect candidate for Anna, emphasizing the theme of the inability of the characters in the film to communicate and truly engage in human interaction. I found it interesting to see, as Peter Cowie points out, the reflection of the ending of Through a Glass Darkly and Minus’ “Papa spoke to me” moment in Johan’s reading of Ester’s letter. Also, as Anna opens the window and gets covered with rain and water I see it as representative of the other water imagery we have seen in Bergman suggesting a sort of resurrection or rebirth; thus, maybe there is hope after all.

http://mubi.com/reviews/21389


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