Dissociazione e pacificazone: percorsi, valutazioni, documenti

Dissociazione e pacificazone: percorsi, valutazioni, documenti

Posted on novembre 11, 2012

Per completare una sorta di riassunto del percorso della “dissociazione” degli anni Ottanta, riporto i documenti che ne sono stati il motore, insieme a quelli che potete trovare qui, qui e qui.

Inizialmente con una differenza dialettica tra di loro, poi ricomposti, o meglio, appiattiti sulla proposta di legge parlamentare (approvata il 18 febbraio del 1987, n.43) che imponeva: «Agli effetti della presente legge si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo della lotta politica» (art. 1, L. 18-2-1987, n. 43).

Questi i due documenti della fine del 1982 che scandirono il percorso della dissociazione:

Quello che segue è un altro documento, firmato da compagni/e che cercò di confrontarsi col precedente, proponendo un ragionamento leggermente diverso della dissociazione.

… sul percorso della “dissociazione” e la normalizzazione del carcere per mezzo della “premialità”, Salvatore Verde sul rapporto tra “Dissociazione” e normalizzazione del carcere dà questa interpretazione (tratto da: “Massima Sicurezza – Dal carcere speciale allo stato penale” di Salvatore Verde-Odradek ed. 2002)

«Nell’ottobre del 1986 entra in vigore la legge n. 663 di riforma dell’Ordinamento Penitenziario, meglio conosciuta come “legge Gozzini“. Il 18 febbraio del 1987 viene varata la legge n. 34, recante “misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo”.
La coincidenza dei due provvedimenti legislativi non è affatto casuale ma segna, anzi, un punto di approdo importante del processo di trasformazione del nostro carcere. Nel corso del dibattito parlamentare sull’approvazione di questi due provvedimenti, diversi relatori riconoscono il peso che il movimento della dissociazione dalla lotta armata ha avuto nel promuovere l’approvazione della Gozzini. È lo stesso Mario Gozzini, primo firmatario della legge, a sostenerlo nel suo intervento in aula durante la discussione: “Il clima è profondamente mutato, in tutti i carceri, e credo che il disegno di legge che discuteremo consecutivamente a questo, la seconda riforma penitenziaria, undici anni dopo il ’75, sia il risultato ed il frutto delle aree omogenee“.
Gozzini è anche firmatario della proposta di legge sui dissociati, che la sinistra presentò al Senato nell’86. La prima firma posta in calce a questa proposta è quella del senatore Ugo Pecchioli, il ministro degli interni ombra del Partito Comunista Italiano negli anni del compromesso storico e delle politiche dell’emergenza.
Quando vengono emanati questi due provvedimenti gli echi delle rivolte carcerarie sono ormai impercettibili. Le irruzioni dei corpi speciali negli istituti, gli omicidi ed i sequestri degli uomini dell’apparato penitenziario sono definitivamente consegnati ad una storia archiviata nelle cancellerie delle Procure della Repubblica.
Il vortice repressione-rappresaglia in cui si era chiusa la “prospettiva rivoluzionaria” e l’isolamento dei quadri del movimento carcerario nel circuito degli speciali avevano progressivamente allontanato le avanguardie dalla massa dei reclusi, mentre il nuovo carcere riformato cominciava ad applicare diffusamente gli istituti decarcerizzanti della riforma penitenziaria.
Nei primi tre anni dall’entrata in vigore del nuovo ordinamento vengono concesse 11.409 semilibertà e 3.918 affidamenti. Una cifra rilevante, se si considera che nell’agosto del ’78 un indulto ridusse notevolmente proprio quella fascia di detenuti che avrebbero potuto accedere alle misure alternative. È estremamente interessante il dato riguardante il numero di richieste accolte dalle Sezioni di Sorveglianza sul totale delle richieste presentate: il 45% degli affidamenti ed il 70% delle semilibertà.
I destinatari di queste misure erano prevalentemente persone detenute per reati contro il patrimonio. La presenza di recidiva non costituiva un fattore significativo di discriminazione, così come anche la provenienza geografica. Anzi, fu proprio il Sud del paese che sembrò cogliere con maggiore entusiasmo le nuove opportunità (il 49% del totale dei provvedimenti fu emesso dai tribunali meridionali). È illuminante il caso della Sezione di Sorveglianza di Napoli, che da sola concesse il 24% del totale delle semilibertà dell’intero paese, segno evidente che la Magistratura e l’Amministrazione Penitenziaria fecero largo uso dei nuovi strumenti per intervenire nella drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri di quella città.
Sottratta al conflitto la massa dei detenuti comuni, l’emergenza carceraria rimase esclusivamente un problema del circuito degli speciali, dove era ospitata la quasi totalità dei militanti delle formazioni politiche armate detenuti.
Ed è proprio dalla variegata area dei detenuti politici che tra l’81 e l’83 prese corpo il “movimento per la dissociazione dalla lotta armata“, che dimostrerà una grande capacità di penetrazione sia verso il basso, il popolo dei reclusi, sia verso l’alto, il sistema dei partiti, creando le condizioni per un rilancio della riforma carceraria.
Nel settembre dell’82, 51 militanti politici detenuti nel carcere romano di Rebibbia, appartenenti a diverse anime del movimento (dalle UCC agli autonomi, da Guerriglia Comunista a quelli del processo Moro) inviano al quotidiano Il Manifesto un documento intitolato “una generazione politica detenuta“. In questo documento i firmatari pongono il problema della ricerca di una “soluzione politica alla questione delle migliaia di compagni oggi detenuti, latitanti, esiliati in libertà provvisoria. Essa si dà – continuano – a partire da una pratica politica di netto rifiuto di posizioni e comportamenti combattenti terroristici”. Gli interlocutori di questa posizione sono “quelle forze sociali e politiche che intendono superare la politica delle leggi speciali e del terrore ed aprire una fase di trasformazione“.
Il documento dei 51, divenuto negli anni un vero e proprio manifesto della dissociazione, declama due punti di approdo del dibattito sul superamento della strategia della lotta armata, e formula due proposte per la fuoriuscita dalla fase dell’emergenza.
L’avvilupparsi della lotta di classe nella logica della guerra – sostengono i firmatari del documento – ha portato lo Stato ad incentivare la bipolarità tra pentiti e combattenti, misconoscendo una nutrita varietà di posizioni intermedie che si pongono soggettivamente al di fuori di questa dicotomia. Ciò che si chiede è che una rinnovata politica repressiva tenga conto di queste posizioni, dismettendo le armi della rappresaglia.
I movimenti sociali e la lotta armata – continuano – sono ormai separati da distanze incolmabili, per cui si rende attuale e praticabile una nuova prospettiva riformista che riconsegni il processo della trasformazione agli strumenti della democrazia. Il movimento per la dissociazione rivendica una piena legittimità a porsi come soggetto attivo su questo nuovo terreno, concorrendo a sconfiggere “la barbarie per il reinserimento attivo di una generazione politica nei processi di trasformazione sociale“.
Il percorso che i dissociati indicavano andava esplicitamente verso la depenalizzazione del reato associativo della banda armata, la modifica della legislazione penale speciale ed il superamento della politica carceraria dell’emergenza.
In primo luogo si proponeva la riduzione drastica della carcerazione preventiva, la revisione dei criteri di imputabilità per i reati associativi, la riapertura dei processi già definiti su richiesta degli interessati, maggiori garanzie dei diritti di difesa: in parole povere, il superamento del diritto da rappresaglia e la conseguente riquantificazione delle pene detentive erogate dai tribunali dell’antiterrorismo.
C’era poi, non secondariamente, il problema delle condizioni di vita e degli assetti istituzionali del carcere. E questo era il piano che immediatamente si proponeva all’azione concreta della nuova prospettiva riformatrice. Nelle cosiddette aree omogenee, sezioni che accoglievano coloro che avevano espresso posizioni dissociative, dovevano essere innanzitutto accuratamente selezionati i soggetti in ragione delle “affinità culturali, politiche, affettive e processuali” che essi esprimevano, perché soltanto un alto livello di attenzione e conoscenza dei singoli avrebbe potuto garantire adeguati livelli di sicurezza.
Le aree omogenee dovevano costituire momenti di sperimentazione e di rilancio di quella parte della riforma penitenziaria che prevedeva la permeabilità dell’istituzione totale a quelle istanze della società esterna capaci di incidere sui meccanismi di isolamento, deprivazione e depauperamento propri degli universi internanti. Ciò significava attrezzare la vita istituzionale con attività culturali, lavorative e socializzanti che la riforma del ’75 aveva elencato sotto il titolo di “elementi del trattamento individualizzato“.
Doveva essere rilanciata, inoltre, una nuova politica penitenziaria che ampliasse il ventaglio delle misure alternative alla detenzione, cancellando, al contempo, quelle norme ostative che impedivano l’accesso ai percorsi decarcerizzanti alle categorie dei criminali pericolosi.
La piattaforma politica del movimento per la dissociazione dalla lotta armata incontrò nell’Apparato Penitenziario un inatteso ed influente interlocutore, che darà un apporto importante al percorso ed agli esiti di questo progetto.
La dialettica interna all’Amministrazione Penitenziaria tra l’anima borbonica e forcaiola ed i tecnocrati della modernizzazione trovò nel fenomeno della dissociazione una forte accelerazione. Mentre il dibattito politico tra i partiti era concentrato sui ritorni immediati di consenso delle politiche giudiziarie emergenziali, l’apparato mostrò di avere uno sguardo più lungimirante, ed intuì, prima ancora dell’intellighentia e della classe politica, l’enorme potenzialità innovativa che la dissociazione esprimeva.
Se la stagione della specialità del diritto e del carcere duro ha avuto nel generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa il suo uomo simbolo, la fase della sconfitta politica della lotta armata ebbe nell’ex pubblico ministero del tribunale di Roma, Nicolò Amato, un sicuro protagonista.
Esponente di punta di quella nuova schiera di magistrati cresciuti nelle aule dei tribunali dell’antiterrorismo, Nicolò Amato arrivò alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena direttamente da quello straordinario palcoscenico che fu il primo processo Moro.
Dalla requisitoria contro i NAP, a quella per l’attentato a Giovanni Paolo II, fino al processo permanente contro le BR del caso Moro, il Pubblico Ministero romano era stato uno dei più spregiudicati ed inflessibili inquisitori degli anni dell’emergenza, tra i più disinvolti intellettuali organici di quel giustizialismo che non esitò a consumare il più feroce scempio dello stato di diritto, in ragione delle esigenze di consenso di un sistema politico in profonda crisi di transizione.
Dopo aver alacremente lavorato alla accumulazione di quell’incredibile patrimonio di secoli di carcere realizzatosi in meno di un decennio, il più famoso PM del paese arrivò alla Direzione delle carceri con un preciso mandato: dare continuità, nel campo dell’esecuzione penale, a quei principi dell’arbitrio e della discrezionalità che avevano fatto la fortuna del diritto penale speciale.
Nicolò Amato si insediò al vertice del sistema penitenziario del nostro paese per gestire proprio quel patrimonio di pene che aveva così tenacemente concorso ad accumulare. Strano destino per un inquisitore: quelle sentenze non dovevano avere fine, non potevano semplicemente concludersi con la chiusura dei cancelli dietro le spalle dei militanti della lotta armata. Oggetto del processo, di quei processi, fu l’uomo, non il reato; il pensiero, oltre all’azione; la soggettività politica, oltre alla singolarità del soggetto.
Quel carcere, sempre più illimitato nella sua durata, sempre più efferato nella qualità della sofferenza che infliggeva, sempre più invisibile ed ermeticamente sigillato, doveva adesso trasformarsi in una casa della speranza, un involucro di vetro antiriflesso dove fosse a tutti visibile lo spettacolo dell’uomo in trasformazione, del criminale in rieducazione, della sua lotta civile e pacifica per la riconquista del diritto a vivere.
Con Nicolò Amato l’Amministrazione Penitenziaria si assunse il compito di tradurre in domanda politica il disagio che proveniva dalle prigioni, indirizzò la protesta verso le forme della non violenza e della propositività riformista, facendosi istanza di mediazione tra “il movimento” ed il sistema politico.
Il nuovo corso della direzione di Amato al vertice delle carceri sarà segnato, sin dall’inizio, da un inedito protagonismo dell’Amministrazione Penitenziaria, da una sua forte ed influente presenza politica e da una intelligente capacità di iniziativa.
Il deciso personalismo del suo uomo guida guadagnerà a questo apparato una grande visibilità, e gli assicurerà, per tutto l’arco della sua gestione, un ruolo di soggetto politico ascoltato ed influente. Amato iniziò a dialogare direttamente con le rappresentanze dei detenuti, favorendone la costituzione, contrattando con esse forme e contenuti dei regimi disciplinari, promuovendo le loro iniziative. Al contempo, presenziava a salotti televisivi, occupava pagine e pagine della carta stampata, concertava direttamente con le forze politiche ipotesi legislative di riforma.
Il flirt tra l’ex PM d’assalto e l’area della dissociazione dalla lotta armata sarà immediato, duraturo e ricco di risultati.
Il primo provvedimento che caratterizzerà il cambio di gestione del sistema penitenziario fu la istituzionalizzazione paranormativa della realtà delle “aree omogenee“. In piena autonomia dalle indecisioni delle forze politiche sulla fuoriuscita dalla lotta armata, Amato guidò la sua amministrazione in un personalissimo ed ambizioso progetto di soluzione politica, utilizzando la forza propulsiva del ceto politico prigioniero che si riconosceva nelle nuove posizioni dissociative.
Con una famosa circolare del novembre 1983, che ha i toni più di un proclama politico che del freddo documento burocratico, l’Amministrazione penitenziaria istituì formalmente il circuito delle cosiddette “aree omogenee”.
Amato parla ai suoi uomini ed indica loro l’opportunità che il momento storico gli offre di entrare da protagonisti nella fuoriuscita dall’era della lotta armata. “Ormai, a prescindere da un fenomeno di riproduzione che, fortunatamente, accenna a diminuire, si trovano ristretti negli istituti di pena quasi tutti gli esponenti della eversione armata… sia dei gruppi maggiori, come le BR, PL, NAR, che dei gruppi minori compresi i cosiddetti capi storici e gli stolti ideologhi che nel corso di questi ultimi anni l’idea ed i programmi della lotta armata hanno lanciato, sviluppato, propagandato”.
Come a dire: il fenomeno della lotta armata è ormai affare nostro; tutti i militanti sono in carcere ed il problema che si pone, consumata ormai la sconfitta sul piano militare, è quello della soluzione politica del conflitto.
Gli obiettivi da perseguire – prosegue la circolare – sono essenzialmente due. In primo luogo, incoraggiare e favorire al massimo il processo di disgregazione all’interno del partito armato. In secondo luogo, avviare, dopo la fase della lotta che è stata… dura ed implacabile, una fase di pacificazione sociale, attraverso il riassorbimento nelle regole del gioco democratico e la riconversione al rispetto verso le istituzioni e la Costituzione di quelle tensioni e di quelle richieste di cambiamento, di rinnovamento e di trasformazione sociale che si sono poste fuori e contro il sistema“.
Beh, niente male come biglietto da visita. Un compito alto per l’amministrazione delle carceri, chiamata a misurarsi con un mandato nuovo ed impegnativo: recuperare una generazione politica alle ragioni del sistema democratico. Incredibile, un uomo che parla ad un apparato istruito all’esercizio della violenza, all’uso delle celle di isolamento, dei letti di contenzione, delle squadrette punitive, indicando la necessità di una strategia che deve privilegiare le armi della persuasione, del convincimento, del cambiamento degli orientamenti etici.
Per Amato bisogna partire dall’attuale articolazione della differenziazione penitenziaria e dare ad essa piena espansione. Le aree omogeneevanno potenziate, incoraggiate, estese, pur con l’attenzione e la cautela necessaria ad evitare inquinamenti che ne vanificherebbero e ne frustrerebbero il senso e le finalità… In tal modo presentandosi come spazi penitenziari nei quali concretamente operano e si fanno sentire, per un verso, le istanze del recupero, della risocializzazione, del rapporto e della comunicazione tra carcere e comunità esterna, per l’altro, l’ansia di pacificazione sociale che percorre il paese… Sono situazioni e momenti dai quali la società libera può trarre utili motivi di riflessione nella ricerca tesa ad individuare gli strumenti ed i metodi atti a superare nel modo più radicale e sollecito il fenomeno terroristico“.
Contemporaneamente non devono essere assolutamente abbassati i livelli di blindatura degli speciali: “non si può in alcun modo permettere ai detenuti politici ed agli esponenti della grossa criminalità organizzata di fare opera di proselitismo o di affiliazione“.
La circolare confermava, nella sostanza, tutti i provvedimenti limitativi in vigore negli speciali, dai vetri divisori alla censura sulla corrispondenza, e preannunciava, inoltre, alle Direzioni degli istituti di massima sicurezza l’arrivo di cinque agenti di custodia di “buona esperienza ed affidabilità” con il compito, evidentemente, di lavorare specificamente all’opera di induzione alla scelta dissociativa. Sempre in ragione di questo obiettivo, viene liberalizzata la diffusione nelle sezioni speciali della stampa e delle pubblicazioni in libera vendita all’esterno, in modo da “permettere che il dibattito della e sulla dissociazione raggiunga anche il circuito della differenziazione se e nella misura in cui questo… approfondisca ed acceleri la crisi e la disgregazione dall’interno del terrorismo ed estenda il numero di coloro che rinnegano le ideologie, i progetti e la pratica“.
Intelligentemente Amato non teme, ma anzi auspica, la libera circolazione dei mezzi di comunicazione di massa all’interno delle carceri speciali, immaginando l’effetto moltiplicatore che il racconto mediatico della sconfitta poteva avere nell’indebolimento del fronte dei militanti incarcerati.
Amato pensa, a ragione, che il grande racconto della deriva “terroristica” in cui era impegnato tutto il sistema massmediatico non doveva essere negato a quella platea. Inoltre, il suo protagonismo riformista, nonché qualche evidente tratto di megalomania, non poteva rinunciare alla cassa di risonanza dei mass media, perché la riuscita del suo progetto di normalizzazione era anche legata alla capacità di bucare il sistema dell’informazione.
Per l’amministrazione dei penitenziari si avvia così la stagione dei convegni e dei seminari. Nelle diverse aree omogenee istituite nei vari istituti della penisola si promuovono iniziative politiche, dove vengono chiamati uomini delle istituzioni, politici ed intellettuali.
In pieno delirio di onnipotenza, così Nicolò Amato racconta il momento in cui vengono istituite le aree omogenee. “Si è sviluppato un discorso politico, il processo della dissociazione dalla lotta armata. E per facilitarne e favorirne lo sviluppo abbiamo addirittura riservato ai detenuti che vi partecipavano o intendevano parteciparvi apposite sezioni dove potessero meglio approfondire le loro riflessioni e le loro elaborazioni, sia ciascuno per conto suo, sia tra di loro, sia nei rapporti con gli operatori penitenziari e con i rappresentanti del mondo esterno: politici, sindacalisti, sacerdoti, docenti universitari, registi, attori, musicisti, giornalisti, volontari, dei quali abbiamo consentito ed anzi incoraggiato l’ingresso».
Potrebbe suscitare una certa ilarità l’immagine di questo piccolo esercito di intellettuali organici affollarsi ai cancelli delle carceri, ansiosi di timbrare il loro cartellino marcatempo per misurarsi alla catena di montaggio della coscienza critica.
Potrebbe apparire ridicolo se non fosse per le delicate e profonde trasformazioni delle forme del potere che questa esperienza ha sedimentato.

La dissociazione
«Agli effetti della presente legge si considera condotta di dissociazione dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo della lotta politica» (art. 1, L. 18-2-1987, n. 43, recante Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo).
I benefici previsti dalla legge sulla dissociazione sono veramente consistenti. Le pene vengono ridotte di un quarto o della metà, in relazione alla gravità dei reati specifici commessi; in sostanza si tratta dell’azzeramento degli effetti catastrofici delle aggravanti previste dalla legislazione d’emergenza.
Per coloro che hanno subito più condanne, sempre per reati di lotta armata, e questa è senz’altro la misura di maggiore efficacia, la pena complessiva non può eccedere i ventidue anni e sei mesi; inoltre, viene garantita l’applicazione di quelle misure discrezionali comunemente applicate dalla giustizia ordinaria (quali le attenuanti e la esecuzione delle pene concorrenti) che consentono un notevole abbattimento delle pene detentive stabilite nelle singole sentenze e che erano state sempre negate agli imputati per reati di lotta armata.
A rendere ancor più conveniente la scelta di dissociazione sono le ricadute che essa ha nel campo dell’esecuzione penale. Come vedremo successivamente, la legge Gozzini, approvata pochi mesi prima, cancellando il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai delinquenti pericolosi, prometteva una sicura apertura delle porte del carcere a chi si dissociava, consentendo l’entrata nei percorsi decarcerizzanti sulla base dell’unico criterio della “pericolosità sociale” del soggetto deviante. Ed una “dichiarazione di dissociazione” sarebbe stata una carta di credito che avrebbe sicuramente aperto le maglie selettive dei percorsi premiali.
Ma quali sono le condizioni necessarie per ottenere il riconoscimento dello status di dissociato? Formalmente la legge considera dissociati coloro che tengono “congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica”.
Sono due i dispositivi di aggressione penale che agiscono in questa norma. Il primo, cioè l’ammissione delle attività effettivamente svolte, è tutto dentro la logica della guerra e si pone in naturale continuità con la normativa sui pentiti. La confessione qui non è soltanto un atto che attiene alla sfera della coscienza individuale, ma ha anche importanti risultati pratici nei teoremi accusatori dei processi in corso contro le formazioni politiche armate. Queste dichiarazioni entrano nella dialettica del processo, divengono “riscontri oggettivi” di capi di imputazione, concorrendo attivamente alla costruzione della verità processuale.
Ma, pur essendo questo risvolto per nulla secondario nelle vicende che hanno segnato la storia dei processi ai partiti armati, ciò che più interessa qui è la seconda condizione che viene posta come necessaria al riconoscimento dell’autenticità della scelta dissociativa: cioè la messinscena di quei “comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo“.
Nella scelta di collaborazione del pentito la merce di scambio è ben concreta e visibile: dichiarazioni di correità, indicazioni di basi, depositi di armi, strutture organizzative ed organigrammi; così come è abbastanza agevole valutare l’utilità della “confessione” dei reati chiesta a chi si dissocia.
Con l’osservanza della seconda condizione posta a chi compie questa scelta si ha l’impressione che venga chiesta la disponibilità di un bene diverso, difficilmente riconducibile a criteri materiali di misurazione: la rinuncia alla propria “scelta di devianza” e il disinnesco della carica conflittuale ad essa connessa.
Lo status di dissociato, cioè il giudizio di cessata pericolosità sociale che viene pronunciato, è qui validabile evidentemente sul piano discorsivo, ed è funzione della capacità del singolo di produrre rappresentazioni rassicuranti di sé, utilizzabili per le esigenze di legittimazione del potere. Con questo dispositivo le istanze del controllo cercano di penetrare fin dentro la coscienza del reo, nei suoi desideri di vita e di felicità, nei suoi sogni di liberazione, cercando di riconsegnare al corpo sociale in subbuglio un’anima normalizzata, permeabile ai valori dominanti e disponibile all’eloquio pacificatore. Qui il potere cerca di affermare la sua supremazia sul piano dei valori, oltre ad esercitare il dominio della forza; vuole sedurre il pensiero, oltre a coartare il corpo; cerca di modificare l’intenzionalità e la direzione dei comportamenti, oltre ad impedire il loro movimento spontaneo; seduce e premia, oltre a sorvegliare e punire.
La pesante pretesa correzionale di questa norma impone all’individuo di presentarsi nudo davanti al potere, offrendo la sua singolarità all’azione manipolatoria dello staff, per concorrere alla costruzione del suo progressivo isolamento, della sua condizione di fragilità e ricattabilità. Così, all’individuo atomizzato e disperso, non resta altro che depositare il senso e l’integrità del sé nei linguaggi dispotici del disciplinamento, abdicare alle pretese egemoniche dei discorsi normalizzanti, coartando i propri movimenti e le proprie attese di liberazione nelle scansioni atemporali dei meccanismi premiali.
Chi deve valutare l’effettività della scelta dissociativa? Da cosa è orientato questo processo di valutazione?
In linea con la logica dello scambio, affermatasi già con la legge sui pentiti, questa nuova norma giuridica rappresenta una tappa importante della costruzione di quel sistema penale premiale centrato non più sulla valutazione del fatto reato, ma del suo autore, sul giudizio della personalità del delinquente, delle sue qualità soggettive. Oggetto del processo sull’uomo sono le dimensioni della coscienza, le scelte di appartenenza, l’attualità delle motivazioni a delinquere.
La rilevanza di questa legge sta nel suo essere, emblematicamente, espressione di un mutamento profondo della penalità materiale e del controllo sociale, dove il processo di formazione del giudizio si emancipa progressivamente dal sistema di garanzie che il liberalismo aveva posto a contenimento della repressione penale. Si tratta di un “non diritto” fondato su pratiche fortemente discrezionali e arbitrarie, che si presentano sotto la forma di atti amministrativi, ma che comportano pesanti effetti penali.
Il lungo percorso parlamentare della legge sulla dissociazione darà un contributo importante di pensiero giuridico al dibattito che si era aperto contemporaneamente intorno all’ipotesi di una seconda riforma dell’ordinamento penitenziario, che, nell’ottobre del 1986, porterà all’approvazione della legge n. 663. L’istituto giuridico introdotto dalla Gozzini che meglio rappresenta questa dinamica di movimento della penalità è, senza dubbio, l’articolo 30ter, cioè, i permessi premio».

http://contromaelstrom.com/2012/11/11/dissociazione-e-pacificazone-percorsi-valutazioni-documenti/

Questa voce è stata pubblicata in documenti politici, memoria e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.