De tranquillitate animi, De Otio: Lucio Anneo Seneca

La morte di Seneca, 1684, olio su tela di Luca Giordano, Parigi, Museo del Louvre

« Post quae eodem ictu brachia ferro exsolvunt. Seneca, quoniam senile corpus et parco victu tenuatum lenta effugia sanguini praebebat, crurum quoque et poplitum venas abrumpi.  »

« Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un solo colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia.  »

Nerone, tuttavia, continuava a nutrire una crescente insofferenza verso Seneca e Sesto Afranio Burro, Prefetto del Pretorio, morto nel 62. Egli non aspettava che un pretesto per eliminarlo. L’occasione venne col fallimento della congiura dei Pisoni (aprile 65) contro la sua persona, della quale Seneca forse era solamente informato, ma di cui non si sa se sia stato partecipe. Ricevette quindi l’ordine di togliersi la vita. Si tagliò le vene, ma poiché il sangue, lento per la vecchiaia e la denutrizione, non defluiva, dovette ricorrere alla cicuta, veleno usato anche da Socrate. Tuttavia la lenta emorragia non gli permise di deglutire; così, secondo la testimonianza di Tacito, si immerse in una vasca di acqua calda per favorire la perdita di sangue e raggiungere una morte lenta e straziante, che arrivò per soffocamento.

Il togliersi la vita, d’altronde, fu in perfetta armonia con i principi professati dallo stoicismo di età imperiale, di cui Seneca fu uno dei maggiori esponenti: il saggio deve giovare allo stato, res publica minor, ma, piuttosto che compromettere la propria integrità morale, deve essere pronto all’extrema ratio del suicidio.

La vita non è, infatti, uno di quei beni di cui nessuno ci può privare, rientrando quindi nella categoria degli indifferenti, quelli sono solo la saggezza e la virtù; la vita è piuttosto come la ricchezza, gli onori, gli affetti: uno di quei beni, dunque, che il saggio deve essere pronto a restituire quando la sorte li chiede indietro. Seneca, perciò, affrontò l’ora fatale con la serena consapevolezza del filosofo: egli, come racconta Tacito (Annales, LXII), non potendo fare testamento, lasciò in eredità ai discepoli l’immagine della sua vita, richiamandoli alla fermezza per le loro lacrime, dato che esse erano in contrasto con gli insegnamenti che lui aveva sempre dato loro. Il vero saggio deve raggiungere infatti l’apatheia, apatia, ovvero l’imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte

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8] Tunc illos et paenitentia coepti tenet et incipiendi timor, subrepitque illa animi iactatio non inuenientis exitum, quia nec imperare cupiditatibus suis nec obsequi possunt, et cunctatio uitae parum se explicantis et inter destituta uota torpentis animi situs.


9] Quae omnia grauiora sunt ubi odjo infelicitatis operosae ad otium perfugerunt ac secreta studia, quae pati non potest animus ad ciuilia erectus agendique cupidus et natura inquies, parum scilicet in se solaciorum habens.
Ideo, detractis oblectationibus quas ipsae occupationes discurrentibus praebent, domum, solitudinem, parietes non fert; inuitus aspicit se sibi relictum.

 

Allora prende il rimorso per le loro iniziative e la paura di ricominciare, e s’insinua l’agitazione dell’animo che non trova via d’uscita, perché non sanno ne dominare ne assecondare le loro ambizioni; ecco l’incertezza, tipica di una vita incapace di svilupparsi, e il torpore di un animo paralizzato tra le speranze deluse.
[9] E tutto ci risulta più grave quando, disgustati da qualche cocente insuccesso, ci si rifugia nella vita privata, nella solitudine degli studi, cose insopportabili per un animo tutto preso dalla vita politica, amante dell’azione ed irrequieto per natura, che in se stesso, si capisce, trova poche soddisfazioni.  Senza le gratificazioni che il lavoro  offre a chi  è molto attivo, non sopporta la casa, l’isolamento, le mura domestiche e malvolentieri si vede lasciato a se stesso.

Est et illa sollicitudinum non mediocris materia, si te anxie componas nec ullis simpliciter ostendas, qualis multorum vita est, ficta, ostentationi parata: torquet enim assidua observatio sui et deprehendi aliter ac solet metuit. Nec umquam cura solvimur, ubi totiens nos aestimari putamus quotiens aspici. Nam et multa incidunt quae invitos denudant, et, ut bene cedat tanta sui diligentia, non tamen iucunda vita aut secura est semper sub persona viventium.
At illa quantum habet voluptatis sincera et per se inornata simplicitas, nihil obtendens moribus suis! Subit tamen et haec vita contemptus periculum, si omnia omnibus patent: sunt enim qui fastidiant quicquid propius adierunt. Sed nec virtuti periculum est ne admota oculis revilescat, et satius est simplicitate contemni quam perpetua simulatione torqueri. Modum tamen rei adhibeamus: multum interest, simpliciter vivas an neglegenter.
Multum et in se recedendum est: conversatio enim dissimilium bene composita disturbat et renovat affectus et quicquid imbecillum in animo nec percuratum est exulcerat. Miscenda tamen ista et alternanda sunt, solitudo et frequentia. Illa nobis faciet hominum desiderium, haec nostri, et erit altera alterius remedium: odium turbae sanabit solitudo, taedium solitudinis turba.

Un’altra cosa che ci dà motivo non lieve di inquietudine è la mancanza di spontaneità e naturalezza.

Si è costretti troppo spesso ad assumere pose forzate, a non mostrarsi al prossimo per quello che si è. La vita di molte persone è condizionata dall’ostentazione. Eppure è un tormento doversi sempre controllare e stare perennemente in guardia, col timore di essere sorpresi in un atteggiamento diverso da quello consueto. Come ci si può sentire sereni, liberi dall’angoscia, se si vive nel perenne timore di essere osservati e giudicati?

Sono parecchie le situazioni che ci disarmano mettendo a nudo il nostro vero io, e, anche ammettendo che possa essere utile l’atto di controllarsi in sé, non è piacevole né rilassante la vita di chi indossa perennemente una maschera. Quant’è serena invece la semplicità schietta e spontanea, non priva di grazia, di un comportamento senza veli! E’ vero che un siffatto modo di vivere spesso attira critiche, se non disprezzo, come accade inevitabilmente quando tutto è sotto gli occhi di tutti: c’è infatti chi disprezza facilmente ciò che ha sotto gli occhi. Ma la virtù non teme alcuna perdita di valore agli occhi di nessuno, ed è preferibile essere disprezzati per la propria spontaneità che tormentati da una continua, soffocante finzione. Anche della spontaneità, comunque, si faccia un uso equilibrato: c’è differenza tra il vivere in modo autenticamente spontaneo e in modo trasandato e volgare.

E’ importante sapersi ritirare in se stessi: un eccessivo contatto con gli altri, spesso così dissimili da noi, disturba il nostro ordine interiore, riaccende passioni assopite, inasprisce tutto ciò che nell’animo vi è di debole o di non ancora perfettamente guarito. Vanno opportunamente alternate le due dimensioni della solitudine e della socialità: la prima ci fa farà provare nostalgia dei nostri simili, l’altra di noi stessi; in questo modo, l’una sarà proficuo rimedio dell’altra. La solitudine guarirà l’avversione alla folla, la folla cancellerà il tedio della solitudine.

Traduzione Silvio Ruffo

Seneca, De Otio:

estratto da: Seneca. Tutti gli scritti. A cura di Giovanni Reale, Rusconi Libri, Milano 1994

I. Tutti sono d’accordo nel ritenere che, vivendo in società, è difficile essere immuni dai vizi, e allora, se non abbiamo altro mezzo per salvarci da essi, isoliamoci: già questo solo fatto ci renderà migliori. D’altronde chi c’impedisce, pur vivendo appartati, di avvicinare uomini virtuosi e ricavarne un esempio su cui modellare la nostra esistenza? E ciò non è possibile se non in una vita tranquilla, lontana dalle pubbliche faccende: solo così potremo mantenere fermi i nostri propositi, non avendo accanto nessuno che, sollecitato dalla grande massa che gli sta intorno, possa distoglierci dalla nostra decisione, ancora instabile, all’inizio, e perciò facile a sgretolarsi. Allora sì la nostra vita potrà procedere uniforme e costante, perché non turbata dalle idee più diverse e contrastanti. Inoltre, come se già non bastassero i numerosi mali che ci affliggono, passiamo da un vizio all’altro, e questo è il guaio peggiore: restassimo almeno attaccati a un vizio solo, quello che ci è più familiare e che abbiamo ormai sperimentato! Così a questo inconveniente si aggiunge pure il tormento che ci rode nel constatare come le nostre scelte, oltre che cattive, siano anche incostanti. Siamo sballottati di qua e di là come dai flutti o dal vento, ed ora ci attacchiamo ad una cosa, ora ad un’altra, lasciamo ciò che avevamo cercato e ricerchiamo ciò che avevamo lasciato, in un altalenante avvicendarsi di desideri e pentimenti. Questo perché dipendiamo sempre dalle opinioni degli altri, ci sembra migliore ciò che ha un gran numero di aspiranti e di elogiatori e non ciò che va lodato e ricercato per il suo intrinseco valore, così come una strada la giudichiamo buona o cattiva non di per se stessa ma dalla quantità delle impronte e dal fatto che fra di queste non ce ne sia nessuna che torni indietro.
Qualcuno mi dirà: “Ma Seneca, che fai? Tradisci la tua scuola? I tuoi compagni stoici, infatti, dicono chiaramente che bisogna partecipare alla vita attiva sino all’ultimo fiato, adoperarsi per il bene comune, aiutare gli uomini, singolarmente, soccorrendo persino i propri nemici, operare, insomma, in modo concreto, sforzandosi in prima persona. “Noi siamo quelli”, così essi dichiarano, “che non conoscono congedi o aspettative, e come dice quel facondissimo poeta (Virgilio, En. IX, 12; ndr) anche vecchi e canuti combattiamo.
Noi siamo quelli che non hanno un solo attimo di tregua finché non giunga la morte, al punto che – se mai fosse possibile – la morte stessa per noi non sarebbe un riposo.” E allora? Perché innesti i precetti di Epicuro sui principi basilari di Zenone? Se non ti va più a genio la tua scuola, perché non ti premuri di lasciarla, invece di comportarti come un traditore?”. Gli rispondo così, per il momento: “Io seguo i miei maestri: cosa vuoi che faccia di più? Cammino sulle loro orme, non mi spingo più oltre, dove essi non sono ancora arrivati”.
II. Ora ti dimostrerò che io non mi allontano dagl’insegnamenti della scuola stoica, come non se ne sono allontanati neppure i suoi discepoli; ma anche se seguissi gli esempi di questi, invece che i precetti dei maestri, sarei più che scusato. E te lo proverò dicendoti due sole cose, prima di tutto che ci si può dedicare interamente alla contemplazione del vero fin dalla fanciullezza, cercando una propria norma di vita e praticandola nell’isolamento, in secondo luogo che si può fare altrettanto e a buon diritto anche dopo essersi concretamente impegnati nella sfera sociale e quando ormai la vita volge al suo tramonto, passando ad altri il testimone, cioè la cura delle cose pratiche, come fanno, ad esempio, le Vestali, che si dividono i compiti secondo l’età, per cui prima imparano a compiere i sacri riti e poi, finito il tirocinio, si dedicano all’insegnamento.
III. Ciò, del resto, è conforme alla dottrina stoica, e te lo dimostrerò, non perché qualche scrupolo mi vieti di andar contro i precetti di Zenone o di Crisippo, ma perché è proprio l’argomento stesso che mi trova d’accordo con loro due: quando si segue il parere di un solo non si è più in un senato, fra gente libera, indipendente, ma in una fazione, in una corrente di partito. Magari sapessimo già tutto e la verità fosse così palese e incontestabile da mantenerci sempre nella stessa opinione! Noi ricerchiamo il.verQ insieme ai nostri maestri, che non ne sono i depositari unici ed infallibili. Quanto alla vita meditativa, la scuola stoica e l’epicurea la pensano in modo diametralmente opposto e tuttavia, seppure per strade diverse, conducono entrambe a quel fine. Epicuro dice: “Il saggio non partecipi alla vita pubblica, se non costretto da qualche accidente”. Zenone, invece: “Il saggio partecipi alla vita pubblica, se non vi sia qualcosa che glielo impedisca”. L’uno sostiene l’isolamento come principio, l’altro come evenienza. E questa compatta o discontinua, con degli spazi vuoti che si frammettono al pieno; e, ancora, dove risieda Dio, se Egli muova la sua creazione e se ne prenda cura o si limiti a contemplarla, se ne sia fuori e l’abbracci, diffuso intorno ad essa, o la compenetri tutta, se il mondo, infine, sia eterno o si debba piuttosto annoverano fra le cose caduche e temporanee. Chi guarda a tutto questo rende un servizio a Dio: testimonia infatti l’opera sua. Noi diciamo che il sommo bene è vivere secondo natura, e la nostra natura ha due facce, una rivolta alla contemplazione e l’altra, invece, all’azione.
IV. Immaginiamoci due tipi di Stato, uno immenso e veramente tale, nel senso che abbracci dèi e popoli diversi, e in cui lo sguardo nostro non si fermi su questo o su quell’angolino, ma ne misuri i confini seguendo il corso del sole; l’altro assai più piccolo e specifico, in cui siamo nati per sorte e (intendo dire Atene, Cartagine, o qualunque altra città), che non sia comune a tutti gli uomini ma sol ad una parte di essi. Ebbene, c’è chi si adopera per entrambi gli Stati, per quello più grande e per quello più piccolo, chi solo per uno dei due. Il più grande possiamo servirlo anche conducendo vita ritirata, dedita alla meditazione, anzi, non so come si potrebbe farlo meglio che in questo caso, a condizione, però, che ci si dedichi allo studio della virtù, indagando se ve ne sia una sola oppure tante, se quel che rende virtuosi sia l’indole naturale o l’educazione, se ciò che abbraccia mari e terre coi loro rispettivi contenuti sia in sostanza un solo elemento o se, invece, Dio abbia disseminato nello spazio tanti elementi di tal fatta, se la materia da cui nascono tute le cose sia una massa ininterrotta e compatta o discontinua, con degli spazi vuoti che si frammettono al pieno; e, ancora, dove risieda Dio, se Egli muova la sua creazione e se ne prenda cura o si limiti a contemplarla, se ne sia fuori o l’abbracci, diffuso intorno ad essa, o la compenetri tutta, se il mondo, infine, sia eterno o si debba piuttosto annoverarlo tra le cose caduche e temporanee. Chi guarda a tutto questo rende un servizio a Dio: testimonia infatti l’opera sua. Noi diciamo che il sommo bene è vivere secondo natura e la nostra natura ha due facce, una rivolta alla contemplazione, l’altra, invece, all’azione.
V. Quanto alla prima, la contemplazione, la prova della sua validità sta già nel fatto stesso che in ciascuno di noi è insito il desiderio di conoscere l’ignoto e vivo l’interesse per ciò che di lui si racconta. C’è chi si mette in mare e sopporta i fastidi di un lunghissimo viaggio per il solo ed unico premio che può derivargli dallo scoprire cose sconosciute e lontane: è questo che attira le folle agli spettacoli, che c’induce a spiare attraverso le fessure ciò ch’è precluso al nostro sguardo, ad esplorare i più profondi segreti, a consultare i libri antichi o ad apprendere i costumi di popoli stranieri. Questa curiosità ce l’ha data la natura, la quale, conscia della propria arte e del suo fascino, ci ha creati quali testimoni di un così stupendo spettacolo. Quale scopo, quale utilità avrebbe avuto la sua opera se cose tanto grandi e meravigliose, così accuratamente rifinite, così eleganti e splendide di mille e più bellezze le avesse sciorinate davanti ad un deserto? Ma non ci ha fatti soltanto testimoni e spettatori passivi delle sue bellezze esteriori, essa vuole essere anche esaminata, scrutata, e a conferma di ciò basta considerare il luogo che ci ha assegnato: ci ha posti proprio nel suo centro, dandoci così la facoltà di vedere tutto ciò che ci circonda; e non solo ha dato all’uomo una posizione eretta, ma gli ha messo il capo in alto e sopra un collo snodabile, affinché possa osservarla più facilmente, seguire il rotante corso degli astri, dal loro sorgere al loro tramonto, e accompagnare il suo sguardo al movimento dell’intero universo. Poi, col far procedere le costellazioni, sei di giorno e sei di notte, gli ha spiegato davanti ogni parte di sé, in modo che, per mezzo delle cose visibili che cadono sotto i suoi occhi, nasca in lui il desiderio di conoscere anche il resto. Noi, infatti, vediamo solo una parte delle cose, e molte, per di più, neppure nella loro grandezza reale, ma il nostro sguardo, acuto com’è, si apre la strada alla ricerca, avviandosi verso la verità, per cui la nostra indagine si sposta dalle cose visibili a quelle invisibili, sino a tentare la scoperta di una realtà ancora più antica del mondo stesso…
[…] Vive dunque secondo natura chi si dedica completamente a lei, per contemlarla e venerarla. Ma la stessa natura vuole anche che ci si dedichi all’azione, sicchè possiamo fare entrambe le cose e così faccio io, tanto più che pure la contemplazione è, in definitiva, un’azione.
VII. […] sono tre i generi di vita fra cui si discute quale sia il migliore: il primo si prefigge il piacere, il secondo la contemplazione, il terzo l’azione. Per prima cosa – messe da parte la polemica e l’implacabile avversione che mostriamo sempre nei confronti di chi segue una dottrina diversa dalla nostra – vediamo se questi tre generi, anche se sotto aspetti diversi, giungano alla stessa conclusione. Tanto per cominciare, il piacere non esclude la contemplazione, come la contemplazione non esclude il piacere, e l’azione, a sua volta, comprende pure la contemplazione. “Però i fini sono diversi”, mi obietterai. D’accordo, ed è anche notevole la loro differenza, però il fine e l’elemento accessorio che caratterizza i tre generi di vita sono strettamente legati fra loro: il contemplativo non può contemplare senza essere contemporaneamente attivo, l’attivo, a sua volta, non può agire senza contemplare l’oggetto del suo agire, e il gaudente, che tutti concordemente giudichiamo male, non cerca un piacere inerte, cerca un piacere attivo e duraturo, che solo per via della razionalità può rendere tale, fissandolo dentro di sé in una continua contemplazione. Vista così, anche la scuola del piacere rientra nella vita attiva. E come potrebbe non rientrarvi, quando lo stesso Epicuro sostiene di essere pronto a rinunciare al piacere, e a cercare anzi il dolore, se il piacere fosse soltanto minacciato dal rimorso, o a scegliere il minore fra due mali? Dove voglio arrivare con questo discorso? A dimostrare, chiaramente, che la contemplazione piace a tutti, con la differenza che altri vi aspirano come ad una meta finale senza ritorno, per noi invece è solo uno scalo, non un porto definitivo.
VIII. Andando avanti dirò che secondo i principi di Crisippo la vita contemplativa è più che legittima, quando però derivi da una nostra libera scelta e non dall’adesione passiva ad uno stato d’inattività. Gli stoici dicono che il saggio non parteciperà alla vita dello Stato quale che esso sia: se questo avvenga perché lo Stato manca al saggio o perché il saggio manca allo Stato cosa importa, quando lo Stato, prima o poi, viene a mancare a tutti? E mancherà sempre, a chi pretende troppo da lui. Ora io mi chiedo a quale tipo di Stato potrebbe accedere il saggio: a quello ateniese, che mandò a morte Socrate e costrinse Aristotele a scappare per non fare la stessa fine? Uno Stato in cui l’invidia strozza ogni virtù? È evidente che il saggio non darà mai la sua opera ad un regime siffatto. E allora? Si accosterà a quello cartaginese, dove la guerra civile non ha un minuto di tregua, dove la libertà è rovinosa ai migliori ed onestà e giustizia sono tenute a vile, dove contro i nemici si consuma una crudeltà disumana e i cittadini stessi sono guardati di traverso, come persone pericolose? Anche da questo tipo di Stato il saggio si guarderà. E se li passassi in rassegna uno per uno non ne troverei nessuno capace di sopportare il saggio, o viceversa. E allora? Se quello Stato ideale, che pur ci raffiguriamo nella nostra mente. non si trova da nessuna parte, ecco che la vita contemplativa s’impone a tutti come una necessità, essa è la nostra ancora di salvezza, dal momento, ripeto, che non esiste al mondo l’unica cosa che avrebbe potuto esserle anteposta.

http://www.ozioforli.it/ozio.asp

I terremoti,Naturales quaestiones, VI, 21, 2 ss. : Lucio Anneo Seneca

http://www.controappuntoblog.org/2012/05/29/i-terremotinaturales-quaestiones-vi-21-2-ss-lucio-anneo-seneca/

Seneca e il teatro elisabettiano

http://www.controappuntoblog.org/2012/08/27/seneca-e-il-teatro-elisabettiano/

RIPASSO PER IL COMMISSARIO DI QUI SOTTTONON SI SA MAI DOVESSE FARE UN ESAME PER UNA PROMOZIONE!

“Noi con la democrazia ci caghiamo sul cesso!” : O COMISSARIO E’ ACCULTURATO! NE ERO SICURA, tag cultura!

http://www.controappuntoblog.org/2012/10/07/noi-con-la-democrazia-ci-caghiamo-sul-cesso-o-comissario-e-acculturato-ne-ero-sicura-tag-cultura/

 

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