L’autonomia operaia: il convegno di Bologna ’73

L’autonomia operaia: il convegno di Bologna ’73

Posted on giugno 20, 2011

BOLOGNA – Convegno marzo 1973

A Bologna la partecipazione sarà qualificata e di massa: oltre 400 delegati, in rappresentanza di decine di situazioni, si confrontano su un documento complessivo preparatorio del convegno, che fissa con chiarezza i termini dello scontro di classe dentro la crisi del sistema capitalistico, individuando i compiti dell’avanguardia rivoluzionaria rispetto alla fase e rispetto al ruolo svolto dai partiti della sinistra storica e dai sindacati. La mozione conclusiva finale assume il carattere di una piattaforma programmatica che gli organismi dell’Autonomia operaia organizzata si assumono il compito di portare avanti, non in rappresentanza dell’Autonomia operaia in quanto tale, ma per creare i presupposti di una sua ulteriore promozione e per avviare concretamente il processo di centralizzazione delle forme già esistenti.


Dalla relazione introduttiva:

Le lotte del ’68-’69

Le lotte del ’68-’69 vedono infrangere il sogno dei riformisti e del grande capitale di integrare la classe operaia all’interno del ciclo capitalistico europeo. La scelta del capitale di fondare l’espansione e il rilancio produttivo su forti aumenti salariali e maggiori consumi viene rifiutata dalla capacità politica della classe operaia di porsi proprio contro quell’organizzazione del lavoro che era stato oggetto del lancio dell’economia italiana a livello internazionale. Il ritrovarsi come classe, da parte degli operai, spezzando le barriere frapposte dalle direzioni sindacali e dai partiti riformisti, imprime alle stesse rivendicazioni un carattere di imposizione non mediato, quello che la classe non sa e non può ancora esprimere è l’organizzazione. Così l’enorme potenziale di lotta – da Mirafiori all’Alfa, all’Autobianchi, all’Italsider, a Marghera – in assenza di strumenti nuovi di organizzazione, esprime tutta la sua forza nella contrattazione, e quindi nell’istituto sindacale. La minaccia dell’organizzazione, questa grande scoperta del ’68, si mostra insufficiente e nel momento in cui anche i padroni si sono accorti di questa conquista operaia, che però poneva man mano la classe al di fuori della scadenza contrattuale per scendere sul terreno del rifiuto del lavoro, hanno svalutato questa conquista scagliando contro gli operai la crisi del lavoro. E’ dal ’68 che il rifiuto di massa da parte operaia di accettare il lavoro come terreno di scontro, rifiutandolo e basta, prende il nome di autonomia. Gli operai riconoscono il valore della pratica del rifiuto del lavoro: il salto della scocca dell’Alfa, dell’Autobianchi, della Zanussi; le grandi vertenze Fiat e Zanussi del 71, nonostante il bidone che conclude il ciclo sindacale << del cavalcare la tigre>> per riprendere il posto di razionalizzatori della produzione, mettono sottozero gli indici della produttività nazionale. Entra in crisi il sistema produttivo italiano fondato sul mercato dell’esportazione, sui bassi costi del lavoro: entra in crisi la politica delle riforme, cioè in quel modo nuovo di programmare gli aumenti salariali in funzione degli indici di produttività e redistribuendone parte in beni sociali (riforme). Lo Stato della programmazione, nel giro di due anni, diventa lo Stato della crisi, della violenza antioperaia.

La crisi

La crisi internazionale dl sistema capitalistico, la crisi del sistema monetario internazionale, le cui burrasche sono ormai maree periodiche, per le borse e le bilance di pagamento delle borghesie europee, è crisi interna dell’assetto dei paesi a capitalismo avanzato, crisi di un modello di sviluppo, quello degli USA, fondato sull’enorme esportazione di capitali, sulla supremazia del dollaro o su aree di influenza e controllo garantite dall’enorme apparato bellico mondiale.
Le lotte di liberazione nei paesi asiatici (Vietnam, Laos e Cambogia), le lotte di liberazione in Africa, in America Latina, le lotte del proletariato industriale in Europa, hanno provocato una rottura dell’equilibrio determinatosi nei rapporti internazionali dopo la seconda guerra mondiale. Il sistema economico USA entra in crisi per l’enorme divario tra attivo della sua economia e passivo derivante dall’enorme potenziale bellico sparso in tutto il mondo e che la guerra del Vietnam ha definitivamente acuito. Di fronte alla impossibilità di costruire un nuovo modello di sviluppo, capace di rilanciare il ciclo del capitale, di fronte al fatto che i costi di questa scelta sarebbero al disopra di ogni possibilità per qualsiasi altro paese a capitalismo avanzato, diventa più facile accettare la crisi, tentare di esportarla, distribuirne i costi. Questo è quanto avviene da due anni, dove gli USA sono riusciti ad imporre agli alleati non più la parità della moneta rispetto all’oro, bensì al dollaro, un dollaro di carta svalutato ed inflazionato, dove gli USA sono riusciti ad imporre forti tassazioni ai partner europei per il mantenimento delle truppe americane e la protezione dell’ombrello atomico. I contrasti sviluppatisi tra paesi capitalistici non portano ad una rottura del mondo capitalistico, bensì alla ricerca di un nuovo assetto che permetta agli USA di esportare la crisi in Europa, e agli europei e ai giapponesi la possibilità di contropartite adeguate (Ostpolitik e trattati di pace, interscambio CEE-URSS, mercati Est per il Giappone, ecc.). la crisi stessa diventa il <<modello di sviluppo>> accettato dall’insieme dei paesi capitalistici, compresi i compiti repressivi che ne derivano. C’è consenso di fondo al progetto del capitale USA; questo consenso ha la sua ragione nel significato e nell’ampiezza stessa della crisi. In questo senso il progetto del capitale non è quello di eliminare la crisi, cioè di superarla, ma di ricostruire il saggio di profitto nonostante la crisi. Per noi il dato con cui fare i conti è, allora, una recessione di lungo periodo, come caratteristica degli anni ’70 e,accornpagnata ad essa, una forte componente repressiva, fondamento dello sviluppo capitalistico.
E’ in questo quadro che va collocato il fallimento del riformismo, sia nella versione amendoliana per un nuovo modello produttivo (appoggi alla piccola-media impresa contro i monopoli e recupero delle sacche di sottosviluppo) sia nella versione razionalizzatrice e pianificatrice lamalfiana. Possiamo dunque sottolineare come si stabilisce oggi la necessità per il capitale di una nuova equazione repressione-profitto aperta ad uno sbocco corporativo e settoriale delle contraddizioni capitalistiche; anzi, questo obiettivo è primario per il capitale, premere sugli interessi particolari di diversi strati sociali e categorie (nelle fabbriche: nuova professionalità come gerarchia e controllo, privilegio contro egualitarismo) per impedire la riunificazione politica della classe; e ristabilire a un livello superiore l’egemonia borghese e il ruolo dello stato garante dell’ordine repubblicano […] La questione non è tanto quella di avere obiettivi generali, che sono invece ben chiari: salario garantito, rottura, cioè, del binomio che lega il pane al lavoro (il salario al rilancio produttivo e al superamento della crisi); 36 ore senza cottimi e straordinari; contratto unico per tutte le categorie. Questi obiettivi non sono un generico diritto alla vita, inadeguato, come obiettivo, per la dimensione legalitaria della richiesta, e inadeguato anche perché un diritto alla vita è ancora e soltanto diritto alla sopravvivenza, cioè alla riproduzione della forza-lavoro. La questione oggi non è tanto quella dell’obiettivo generale, quanto quella della coscienza degli obiettivi (obiettivo come pratica militante per tutta la classe), è quella della coscienza dell’organizzazione come appropriazione della politica, capacità di rifiuto della delega, pratica dell’autonomia: la conquista di questo livello di coscienza nella classe è la condizione per unificarne i livelli, cioè per superare il corporativismo, l’egemonia borghese sulla classe. Noi sottolineiamo fino in fondo la saldatura oggi esistente fra crisi ed autonomia proprio perché la classe deve partire dal dato della crisi, cioè approfondirla, radicalizzarla. La coscienza, la scelta dell’autonomia quale alternativa organizzata ai bisogni del capitale e alle organizzazioni tradizionali della classe legate a questi bisogni, deve essere sempre più profonda e generale.

Politica sindacale

Nell’attuale fase di crisi strutturale il capitale monopolistico ha necessità impellente di ristrutturazione per ottenere la riduzione dei costi, la concentrazione degli investimenti nei settori chiave per il mercato economico europeo e internazionale, l’eliminazione delle fabbriche meno produttive all’interno di questi settori e la lotta ai settori parassitari dell’economia. […] La politica di CGIL – CISL – UIL si fa carico di questa esigenza con il “nuovo modo di lavorare” di cui l’elemento centrale è la voce “inquadramento unico” del contratto metalmeccanici. Essa significa intensificazione dello sfruttamento in forme nuove e la forma nuova è la polivalenza chiamata “mobiliutà” o “ricomposizione delle fasi”.Polivalenza vuol dire guerra ai tempi morti, ai “minuti di riposo”; ricoprire più mansioni; sostituire i compagni che non ce la fanno più sotto l’incalzare dei ritmi di lavoro, e gli assenti. Inoltre è divisione e gara fra operaio e operaio, è in fabbrica aumento degli incidenti mortali; fuori, aumento della disoccupazione e peggioramento dei rapporti nell’ambito familiare. Se si tiene conto che la “professionalità”, proposta da CGIL – CISL – UIL, è basata sulla polivalenza, se ne deduce che gli interessi per cui si fa lottare la classe operaia non sarebbero altro che gli interessi dei monopoli. Estesa a livello nazionale e definita “mobilità” internazionale, la polivalenza è un’arma nelle mani del padronato per selezionare gli operai e attuare i licenziamenti.

Il contratto dei metalmeccanici

Il primo tentativo di attuare “la nuova organizzazione del lavoro” è avvenuto all’Italsider di Bagnoli (Napoli), dove il 23 dicembre 1970 FIOM – FIM -UILM approvano il cosiddetto “accordo sostitutivo delle paghe di classe”. Questo accordo introduceva la divisione in otto livelli, con passaggi legati alla “mobilità” orizzontale e verticale, alla “professionalità” da acquisire con la rotazione su più posizioni di lavoro. Il carattere repressivo del contratto metalmeccanici è stato ulteriormente evidenziato con i chiarimenti che la FLM ha dato al padronato ad Ariccia (gennaio 1973), e con le successive dichiarazioni di Lama al Direttivo confederale della CGIL il 30 gennaio 1973. La FLM assicura che i cinque livelli richiesti saranno senz’altro aumentabili e portati quindi a 6 o 7. Lama assicura poi che la contrattazione articolata sarà bloccata e sarà rigidamente collegata al controllo delle segreterie nazionali e provinciali quando dichiara “disponibilità del sindacato a non perseguire la monetizzazione delle rivendicazioni aziendali tra un contratto e l’altro”. GIL-CISL-UIL dichiarano inoltre il loro appoggio al piano Coppo per il rilancio dell’economia, accettando l’abolizione delle feste infrasettimanali, la eliminazione dell’assenteismo e la piena utilizzazione degli impianti. I contratti diventano sempre meno una scadenza operaia sia per il tipo di gestione che ne fa il sindacato, sia perché gli operai hanno capito che dal ’69 ad oggi nonostante migliaia e migliaia di lotte, proprio sul terreno sociale i padroni hanno avuto la loro rivincita. Da qui la necessità di allargare la base sociale dello scontro, dentro e fuori i contratti, dalla casa ai trasporti, contro lo Stato.

I Consigli dei delegati

[…] Il movimento dei consigli dei delegati non ha suggerito nulla di sostanziale in questo scorcio di tempo sull’autonomia operaia: anzi, oggi assume compiti di denigrazione, controllo, distruzione dell’autonomia, specie laddove questa ha saputo darsi forme consistenti di organizzazione. A maggior ragione resta tutto da risolvere il problema del taglio del cordone ombelicale, della costruzione di un polo alternativo dell’autontomia, capace di crescere per un lungo periodo accanto a quello istituzionale, un polo di riferimento tanto più reale e credibile quanto più strumento capace di imporre al padrone, al capitale, le sue condizioni, defraudando cosi il sindacato del potere derivatogli dalla contrattazione. Problema ancora aperto tra le forze rivoluzionarie, quello del rapporto con i consigli di fabbrica, stante il falso rapporto che si tenta di far passare tra possibilità di direzione delle esigue forze dell’autonomia organizzata e la mastodontica forza dei consigli di fabbrica. Qui non si mette in discussione che con la struttura del sindacato moderno bisogna farci i conti, che alcuni consigli esprimono una ampia autonomia decisionale, che molti di essi sono dei parlamentini aperti a molte tendenze, ma il giudizio di fondo e la verifica pratica è che queste strutture sono state costruite per controllare il comportamento della classe operaia, per ingabbiare le lotte spontanee, per reprimere l’autonomia crescente dal lavoro salariato, cioè la capacità del sindacato di ripresentarsi alle trattative col padronato fornendogli garanzie sicure sulla programmazione e sulla produttività. Per questo è illusorio e/o opportunista fare la scelta di lavorare nei consigli per una loro evoluzione; è possibile pensare a un loro uso strumentale che la totalità delle volte si riduce ad essere “usati” come grilli parlanti che danno un certo decoro dli sinistra all’istituzione, o al massimo ad accordarsi su questioni generali (antifascismo, repressione statale, Vietnam), per cogestire, però, produttività, ristrutturazione, dissociazione dal comportamento dell’autonomia operaia. Va sciolto quindi il nodo e va fatta la scelta prioritaria della costruzione in ogni fabbrica, laddove ce ne siano le premesse, del comitato operaio. […] La spinta più forte contro la “linea” sindacale la si costruisce proprio sul terreno dell’organizzazione alternativa del movimento di massa, come condizione per una contestazione effettiva del “merito”; senza l’orgnizzazione dell’autonomia, anche la critica di merito al sindacato si riduce a uno sterile moralismo, a una vuota tattica riassorbita puntualmente dall’istituzione. […]

 Il governo Andreotti, l’antifascismo, la nostra lotta

[…] Ma se è vero che la crisi ha una soluzione repressiva, significa questo una rapida fascistizzazione delle istituzioni e dello Stato? No, la soluzione repressiva oggi è gestita tutta in nome dell’ordine democratico e dell’ordine costituzionale. E questa area della legalità borghese che si assume oggi il compito di coprire lo spazio aperto al fascismo, d’impedire soluzioni diverse da quella della integrazione europea. […] E’ chiaro che bisogna puntare all’abbattimento del governo Andreotti, ma deve essere altrettanto ben chiaro alla coscienza operaia che qualsiasi governo verrà messo dai padroni, sia di centro-destra che di centro-sinistra risponderà con gli stessi strumenti repressivi, quando la lotta di classe minaccia i privilegi su cui si regge il potere capitalistico. Qualsiasi governo dovrà assolvere a questi compiti, lo potrà fare in modo più o meno elegante ed efficiente, ma lo farà. Quindi la parola d’ordine “abbattere il governo Andreotti”, rischia di fare confusione e di diventare un diversivo opportunistico. Inoltre, nel caso specifico dell’abbattimento del governo Andreotti, bisogna stare bene attenti a non dare spallate ad una porta già aperta. Infatti la valutazione che abbiamo dato circa la svendita dei contratti e delle forme di lotta da parte dei sindacati, in pieno accordo con i partiti della sinistra parlamentare, potrebbe prevedere già come contropartita, da parte del potere, l’ipotesi del ritorno al centro-sinistra. In tal senso agire da sollecitazione per la caduta del governo Andreotti senza mettere in discussione nel contempo, con la lotta, lo stesso sistema di produzione capitalistica, significa facilitare il gioco a quelle forze che mirano solo a portare la classe operaia da un ingabbiamento più rigido ad un ingabbiametito più riformista, senza però dar spazio all’alternativa rivoluzionaria. […]In questo senso, tutta l’ipotesi a cui si dà molto fiato in questi ultimi tempi, cioè di usare un discorso unitario e nello stesso tempo di lotta dura sulla base dell’antifascisino, come sollecitazione per l’abbattimento del governo Andreotti, rischia di essere un obiettivo fuorviante. Da una parte perché si sta dando al movimento tutta una caratterizzazione manifestaiola, che poi porta allo svuotamento del movimento stesso. Dall’altra, l’ipotesi della lotta unitaria, e nel contempo dura, alla fine diventa, per l’impostazione che si è data, sempre più unitaria e meno dura e sempre più recuperabile alle organizzazioni riformiste. Non ci può essere una crescita di lotta antifascista se non parte concretamente e organicamente dalla situazione di classe e se non si articola in obiettivi che siano nello stesso tempo anticapitalistici, cioè di attacco all’organizzazione del lavoro (contro la nocività, i ritmi, contro la produttività, le qualifiche) e della società (affitti, prezzi, trasporti, ecc.); se non si esprime nelle forme proprie dell’illegalitarismo proletario. Nel momento in cui la situazione è effettivamente difficoltosa all’interno delle fabbriche, per la posizione frenante ormai assunta dal sindacato, stiamo bene attenti a non cadere in suggestive fughe manifestaiole, che poi sono bolle di sapone che si rompono al primo urto: frutto di questa tendenza è la direzione esterna ed intellettualistica del movimeuto che trova, in alcuni gruppi, la propria tendenza organizzativa.

Caratteristiche organzzative dell’autonomia operaia

Gli organismi dell’autonomia operaia, i comitati politici, assemblee autonome, sono strutture permanenti della classe, con una capacità di superamento del sindacato verificata non sull’ordine di uscita dal sindacato ma sulla conquista della classe alla pratica dei propri bisogni e alla direzione dell’organizzazione proletaria. […] Lo sviluppo corretto dell’autonomia operaia deve muoversi su tre linee di tendenza:

a) la natura anticapitalistica e antiproduttivistica, cioè di attacco della struttura del lavoro, degli obiettivi che il movimento si pone;

b) il terreno non legalitaristico, ma legato alle necessità di lotta che richiedono gli obiettivi che ci poniamo è condizionato solo alla coscienza del nostro rapporto di forza;

c) sviluppo continuo della capacità di autogestione dello scontro, in tutti i suoi aspetti, condotto direttamente dalle stesse masse sfruttate.

Obiettivi:

L’analisi di questa crisi di lungo periodo vuole sottolineare l’impraticabilità di una linea difensiva. L’unica via possibile è quella dell’attacco. Il cammino si percorre ormai soltanto sulla base di un progetto rivoluzionario consapevole: i tempi dello scontro non precipitano, ma se ne acuiscono i livelli e se ne allarga la forbice, coinvolgendo sempre più direttamente ed ampiamente lo Stato. Lo strumento da costruire è l’organizzazione dell’autonomia operaia, cioè il progetto rivoluzionario stesso. La crisi, per le sue stesse caratteristiche, ha riposto al centro il nodo politico del salario e dell’occupazione: il problema è di non risolverlo ancora una volta nella parola d’ordine pane e lavoro. […] La semplice parola d’ordine della difesa del salario è inadeguata, difensiva, legata al livello medio della coscienza operaia, interna all’organizzazione sindacale, come la difesa del lavoro è interna alla strategia sindacale della richiesta di lavoro, dalla ripresa produttiva, di rinsaldamento del ciclo capitalistico, di uscita dalla crisi. Quando ci poniamo il compito politico di “cavalcare la crisi”, quando intendiamo uscire con la crisi dalla crisi, spingerla cioè alla rottura, sappiamo bene che il terreno che contribuiamo a consolidare è quello della recessione e sappiamo anche come su questo terreno, il terreno principale con cui dover fare i conti, è la disoccupazione di massa. Rompere il binomio pane-lavoro è intanto capire l’impossibilità di difendere l’occupazione attraverso una politica delle riforme, stendendo la mano al capitale per mettere in moto il suo volano: in questo senso innanzitutto avremo a che fare, a lungo, con la politica delle riforme. […] Produrre una crisi dei meccanismi capitalistici assumendo la logica della difesa dell’occupazione e del salario è illusorio: o l’incremento di occupazione e l’aumento salariale esprime il rilancio produttivo, oppure l’approfondimento della crisi si traduce in emarginazione generalizzata dalla produzione e abbassamento del livello salariale. Nè la solidità di alcune grandi imprese può essere sufficiente copertura per milioni di disoccupati (politica aumento degli organici attraverso la riduzione dei ritmi e l’abolizione di cottimi e straordinari: a minore sfruttamento, maggiore occupazione). Se aggiungiamo che non si può contare su altrettanta solidità delle piccole-medie imprese e che, insomma, non si può puntare sui soli occupati per risolvere il problema di una disoccupazione montante, si vede come si ridimensioni lo spazio per una lotta contro l’organizzazione del lavoro che intenda essere anche lotta in difesa dell’occupazione. E’ però vero che in fase sfavorevole di congiuntura economica il padrone attacca intensificando i ritmi (la riduzione della produzione è minore della riduzione dell’oc-cupazione); ma questo è solo un aspetto del problema; essendo insufficiente una lotta sui ritmi per risolvere l’occupazione (non può pesare sugli occupati tutto il peso dello scontro sulla disoccupazione), diventa necessità politica il coinvolgimento del disoccupato in una lotta che altrimenti lo vede dall’altra parte della barricata. Così, anche la lotta sull’autoriduzione dei costi (casa, trasporti, servizi, ecc.), ha un senso solo in rapporto ad un salario, che al sottosalariato e al disoccupato è stato innanzitutto tolto. Anticipare la crisi, ma senza fughe in avanti, significa costruire le tappe intermedie di questi obiettivi dell’autonomia operaia, per unificare la classe sul tema generale del salario.
Cassa integrazione al 100% e interamente come prelievo sul profitto; riappropriazione del reddito prodotto da lavoro, come appropriazione di servizio sociale (casa, servizi, ecc.), salario pieno garantito, a carico dell’azienda, ai licenziati fino a nuova assunzione, rifiuto dell’emigrazione, ecc.; blocco attorno a questi obiettivi del proletariato agricolo: salariati, braccianti, compartecipanti, oltre ai semiproletari senza terra ampiamente colpiti dalla necessità di emigrazione (piccoli affittuari e piccoli coloni non appoderati); blocco degli edili; della mano d’opera femminile, di tutti quegli operai sottosalariati, la cui occupazione raggiunge a volte soltanto la sesta parte dell’anno, ecc.


Fare del salario l’obiettivo centrale dell’autonomia e della ricomposizione di classe non significa rifiutare il terreno su cui si è fin qui camminato, ma andare oltre: la fabbrica, il salario come attacco all’organizzazione del lavoro in fabbrica (qualifiche), il salario come attacco ai carichi di lavoro (ritmo, cottimo, straordinario), il salario uguale non è un terreno diverso, ma il terreno su cui si consolida un polo dell’alleanza di classe, tuttavia, senza la cui generalizzazione del salario garantito, non si salda all’altro, che è fuori della fabbrica, e apre la strada ad una profonda divisione di classe e alla sconfitta.

Centralizzazione: rapporto coi gruppi

La necessità di puntare alla centralizzazione dal basso dell’autonomia operaia non è una scelta fine a se stessa, cioè un puro dato organizzativo quindi quantitativo, bensì centralizzazione intesa come organizzazione politica e non federazione dei comitati politici e delle assemblee autonome, finalizzata alla costruzione del processo rivoluzionario e quindi alla nascita del partito rivoluzionario. Questo per chiarire un dubbio di fondo che potrebbe ingenerarsi e dare allora spazio a ipotesi di quarto sindacato e di un nuovo gruppo, magari quello super, perché ci sono gli operai ed è diretto da operai. La centralizzazione degli organismi autonomi deve far fronte alla necessità che l’autonomia operaia esprime rendendo saldi questi principi:

la gestione della lotta nella fabbrica, in tutte le sue implicazioni, e fuori della fabbrica, attraverso collegamenti diretti, deve essere assicurata dalla capacità della direzione operaia;

– l’organismo autonomo deve saper saldare, negli obiettivi, la lotta economica con quella politica rifiutando il riprodursi della separazione tipica delle organizzazioni della sinistra tradizionale, tra sindacato da una parte e partito dall’altra e che oggi i gruppi, in forme nuove, tendono a ripetere;

– l’organismo autonomo deve diventare un momento centrale in cui, dall’interno della situazione di classe e sotto il diretto controllo della direzione operaia, si elabora e si verifica nello stesso tempo la linea complessiva che deve tendere strategicamente ad opporsi al disegno del capitale, attaccandolo sul piano rivoluzionario.

Per poter svolgere correttamente questa funzione si devono attuare collegamenti sempre più stabili fra i vari organismi autonomi di fabbrica e sul terreno sociale, che emergono nella situazione di classe. Questo collegamento deve essere fatto in forma diretta e non attraverso un gruppo politico specializzato in tal senso. Oggi non si tratta di raccogliere tutto e tutti in un unico mazzo, ma di centralizzare intorno ad alcune realtà organizzate alcune proposte valide per tutto il movimento, date cioè delle gambe capaci di reggere il peso delle proposte operaie e di lotta. Rifiuto di subire il comando dei padroni attraverso il lavoro e salario garantito sono un primo passaggio che il movimento sta affrontando: il compito delle avanguardie è, appunto, scoprire cos’è l’organizzazione attorno a queste proposte. Per questo non si può fare a meno di avere un rapporto politico con le avanguardie organizzate, con gli spezzoni di organizzazione che, quando non si autoeliminano arrogando a sè il ruolo di partito della classe, sono indispensabili nella costruzione di quella che sarà l’organizzazione operaia della rivoluzione comunista. Costruire cioè una dialettica (rapporto e scontro) tra programma politico, corpo operaio e proletario centralizzato dal basso e proposte generali dei singoli gruppi; le scadenze politiche faranno giustizia dei gruppi, decideranno di chi è destinato a sopravvivere. Intanto stronchiamo, però, l’illusione che il partito nasca dai gruppi, stronchiamo l’illusione che si possa saltare l’organizzazione dell’autonomia operaia, la centralizzazione dal basso delle avanguardie di massa. C’è oggi un unico modo per costruire un processo unitario di promozione dell’organizzazione rivoluzionaria: quello di puntare sull’autonomia e fare di essa il polo dialettico dei gruppi, costringendoli ad una verifica con la classe stessa. Questo nuovo problema organizzativo che si presenta come un approfondimento del significato che diamo all’autonomia, impone un nuovo compito politico, di cui dobbiamo farci carico: l’organizzazione politica operaia non esiste senza coscienza dell’autonomia e questa non si attua senza una presa di coscienza del problema del potere; il nostro compito è quello di ricostruire nella classe operaia questa coscienza del potere proletario che le organizzazioni tradizionali hanno distrutto nella classe. Se non saremo in grado di ricostruire questa coscienza del potere nella classe non saremo capaci di costruire la strada per un’alternativa di potere, e la lotta ristagnerà dentro gli schemi di una coscienza puramente rivendicativa.

Il potere: la violenza proletaria

[…] Non vogliamo con questo dire che il potere sta alle porte domani; vogliamo dire che esso si costruisce ogni giorno nella lotta, assegnando ad essa questo significato, questa consapevolezza del potere: solo con questo l’autonomia fa un salto politico, solo così la rivendicazione diventa tutta politica, e l’organizzazione diventa partito rivoluzionario. Il problema del potere è quello di praticare questa coscienza del potere, tradurlo in prassi politica. E’ per questo rapporto tra autonomia e potere che rifiutiamo l’azione esemplare, la coscienza esterna e la rivoluzione fatta in nome e in luogo della classe. Per questo il problema del potere per noi è il problema di una violenza di massa o di avanguardia, come espressione diretta della coscienza di massa. Intanto riaffermiamo che il proletariato deve agire non nella convenzione delle leggi borghesi, ma nella convenzione della propria lotta. Detto questo, è necessario darsi dei criteri di valutazione per verificare quando la violenza è braccio armato o no, quando è espressione di chi si fa carico della lotta illegale proletaria, quando è invece espressione naturale della classe; bisogna che ogni volta si realizzino i seguenti scopi:

– l’azione susciti adesione, partecipazione, riproduzione nelle masse;
– l’azione e l’uso degli strumenti devono essere legati all’obiettivo politico da perseguire;
– il fatto sia proporzionale alle capacità della classe di reagire e contrattaccare la repressione;
– ogni azione sia coordinata all’azione politica generale, cioè funzionale al conseguimento degli obiettivi prefissati.

Tutto deve essere riversato sulla capacità prolifica dei nuclei operai di saper colpire nel momento buono, nella direzione giusta, secondo il polso e il grado di coscienza operaia, contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, contro gli strumenti della repressione padronale. Questo, compagni, non perché quest’anno vedrà uno scontro diretto e generale con lo Stato, ma perché il dato a lungo termine è la violenza borghese, del capitale e dello Stato. In questo piano di violenza a lungo termine, l’inflazione, la disoccupazione, la politica dei redditi, l’ordine democratico repubblicano, i sindacati e i partiti come forme di questo ordine, le grandi provocazioni come l’assassinio dei militanti, vengono orchestrati e pianificati in funzione del profitto, perché non è più possibile per il capitale, come ieri, utilizzare le lotte operaie in funzione del rilancio produttivo. La violenza è la legge dei padroni necessaria per conservare il saggio di profitto all’interno della crisi capitalistica. Noi vediamo una crisi repressiva di lunga durata: la classe deve poterla praticare a suo vantaggio solo organizzandosi sui temi del potere, solo rispondendo con la violenza alla violenza, non come sterile spirale repressione-lotta-lotta alla repressione, ma come espressione del potere proletario, della sua coscienza di massa, della sua organizzazione.

Soccorso rosso

Il Soccorso Rosso è uno strumento tutto da costruire. Oggi esistono rapporti più o meno organici con Soccorsi rossi locali o singoli compagni “tecnici”, che però sono puri strumenti di servizio. Quello di cui ha bisogno la classe e la sua avanguardia organizzata, non sono i tecnici “al servizio della classe” ma militanti politici capaci di stare allo stesso livello del movimento, di sottoporsi alla direzione operaia, di rispondere alle esigenze di organizzazione. Uno strumento efficace di difesa del livello di organizzazione e di scontro che ha raggiunto la lotta di classe. Spetta all’organizzazione dell’autonomia operaia saper coinvolgere nel lavoro politico questi compagni, e non aspettare che maturino in altri campi le loro contraddizioni.

http://contromaelstrom.com/2011/06/20/lautonomia-operaia-il-convegno-di-bologna-73/

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