Perché l’isolamento carcerario?

Perché l’isolamento carcerario?

Posted on agosto 22, 2012

      …perché l’isolamento carcerario…

       «[…] Nel 1790, sotto l’influenza diretta dell’ambiente quacchero, fu inaugurata a Filadelfia la prigione di Walnut Street dove furono internati in solitary confinement i condannati a pena detentiva. La nuova disciplina carceraria si fondò sull’isolamento cellulare continuo dei reclusi, sull’obbligo del silenzio, sulla meditazione e sulla preghiera. In realtà questa forma di esecuzione penitenziaria, che permetteva di ridurre drasticamente le spese di sorveglianza, non fu del tutto originale: la Maison de force istituita in Belgio e il modello del “Panopticon” di Bentham in Inghilterra già preannunziavano l’introduzione del carcere cellulare.

Nell’organizzazione del carcere di tipo filadelfiano le formulazioni più estremistiche del pensiero protestante trovarono piena attuazione. Secondo i riformatori, il solitary confinement era in grado di risolvere ogni problema penitenziario; esso impediva la promiscuità fra i detenuti e permetteva, attraverso l’isolamento continuo, il silenzio e la preghiera, quel processo psicologico di introspezione che veniva ritenuto il veicolo più efficace per il ravvedimento. La religione costituì lo strumento privilegiato per educare alla soggezione e riformare i devianti.

Il sistema filadelfiano

fu imitato da numerosi Stati americani ed europei; introdotto in America nel 1796 a Newgate nello Stato di New York, nel 1804 a Charleston nel Massachusetts e a Baltimora nel Maryland, e nel 1803 a Windsor nel Vermont.

 […] Malgrado fosse considerato il sistema di imprigionamento più umano e civile, il tasso crescente dei suicidi e della pazzia tra gli internati, quale effetto diretto dell’isolamento continuo, generarono dubbi e perplessità circa l’efficacia e la capacità rieducativa del sistema. Fu comunque il mutamento nel mercato del lavoro, con un sensibile aumento della domanda ed un conseguente rialzo del livello salariale, che determinò la crisi definitiva dell’esperienza filadelfiana.  Il solitary confinement, infatti, non solo privava il mercato di forza lavoro detenuta, ma attraverso l’imposizione di un lavoro antieconomico, quale era il lavoro svolto dai detenuti all’interno delle singole celle, diseducava e privava gli internati delle loro originarie capacità lavorative.

L’isolamento dei detenuti garantiva l’esercizio di un potere assoluto nei loro confronti, un potere che non poteva essere bilanciato da nessun’altra influenza; la solitudine era infatti la condizione prima della sottomissione totale.  Questa tecnica quacchera, fondata sulla solitudine e sulle cure spirituali ed applicata con successo in America, fu sperimentata anche in Europa ed il cattolicesimo la recuperò presto nei suoi discorsi. Gustave De Beaumont e Alexis de Tocqueville, inviati dal governo francese a visitare e studiare le prigioni statunitensi, individuarono il vantaggio incontestabile del carcere degli Stati Uniti, nella sua capacità di garantire l’isolamento e la separazione dei detenuti.» [da Valentina Panzani, L’Assistenza Religiosa in Carcere. In L’Altro Diritto.

«Il ‘continuum’ temporale che vige in carcere, sganciato com’è dalle scadenze reali significative (emotive, affettive, istituzionali), crea nei soggetti delle reazioni innaturali ad ogni evento. Reazioni di odio, di aspettativa e di ansiaassolutamente immotivate rispetto all’avvenimento cui si rivolgono. Pensiamo al colloquio: si attende tutta la settimana per vivere mezz’ora in parlatorio, dove l’ingorgo delle emozioni creerà una situazione irreale e dove si va non solo per consumare pochi minuti in compagnia di persone care, ma per accumulare sensazioni da rivivere per l’intera settimana successiva.

Il meccanismo di fondo utilizzato dall’istituzione è, secondo Masi, quello dello stress. Si fa il vuoto più o meno assoluto nell’individuo e poi lo si riempie di stimoli «esplodenti». E’ la classica goccia d’acqua che cade nel silenzio totale: ogni volta sembra un colpo di maglio.

Esiste un legame stretto fra stress e modificazione della “percezione del tempo“.

Già i benedettini, con la tipica scansione del tempo monastico, avevano tenuto conto del pericolo di quella che possiamo definire “malattia del tempo”. Alla fantasticheria mistica alternavano infatti il lavoro, il gioco, l’attività libera e anche la socialità, forse più mondanizzata e «aperta» di quanto si sia disposti a ritenere. La sofferenza legale si può considerare perciò non semplicemente malattia delle sbarre, ma malattia del tempo: «La menomazione dello spazio genera senza dubbio ansia, angoscia, senso di soffocamento, che possono sfociare nell’asma, nella stanchezza cronica, nell’astenia; ma la menomazione temporale, a mio avviso, è più grave. La mente, immersa in una dimensione del tempo innaturale, reagisce in modo imprevedibile. C’è chi non esce più dalla cella, neppure durante l’aria. Chi guarda la televisione di notte e dorme di giorno. Chi rifiuta di pensare e chi pensa troppo. Senza considerare le lacerazioni che non sono visibili e che si manifesteranno più tardi, dopo la scarcerazione

(da Ermanno Gallo – Vincenzo Ruggiero, Il Carcere Immateriale, -La detenzione come fabbrica di handicap- Ed. Sonda 1989)

«Gettato nella solitudine, il condannato riflette. Posto solo, in presenza del suo crimine, impara ad odiarlo, e se la sua anima non è ancora rovinata dal male, è nell’isolamento che il rimorso verrà ad assalirlo»  (Foucault)

http://contromaelstrom.wordpress.com/2012/08/22/perche-lisolamento-carcerario/

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