La scozzese di Carlo Goldoni in traduzione giudeospagnola

La scozzese di Carlo Goldoni in traduzione giudeospagnola

Patrizia Panico

 

Antefatto

 

La comédie intitulée l’Écossaise, nous parut un de ces ouvrages qui peuvent réussir dans toutes les langues parce que l’auteur peint la nature, qui est partout la même”[1].

Con queste (profetiche) parole si introduceva un’opera francese che nel 1760 riempì le sale di molti teatri d’oltralpe; il successo fu tale che la commedia venne quasi immediatamente tradotta e interpretata in Italia. Prima di parlare dei consensi ottenuti dalle peripezie della bella e virtuosa scozzese in Italia (ed in particolare a Venezia) è interessante soffermarsi brevemente sull’autore francese, visto che si trattava del popolare e polemico ingegno della Francia illuminista François-Marie Arouet, al secolo Voltaire.

Intorno alla paternità de l’Écossaise Voltaire si divertì a creare un piccolo “giallo” celando la propria identità dietro quella di uno scrittore inglese, Mr. Hume, e del traduttore Jérôme Carré, e spacciando quindi la commedia per la traduzione di un’opera inglese. Il perché crediamo che risieda nella polemica che si sviluppa nel corso dei cinque atti, in cui viene esplicitamente deriso Mr. F… ossia Élie-Catherine Fréron strenuo nemico degli enciclopedisti, attraverso il personaggio di Frélon, un malevolo giornalista (l’associazione è rafforzata dall’assonanza dei due nomi che si distinguono solo per la consonante liquida). L’espediente del falso originale inglese permette a Voltaire non solo di attaccare lo scrittore “non-illumininato/ista”, ma anche di affermare con (crediamo) un sorriso malizioso: “Comme ce F… avait eu l’inadvertance de se reconnaître dans al comédie de l’Écossaise, quoique Mr. Hume ne l’eût jamais eu en vûe, le public le reconnut aussi[2]. L’astuzia di Voltaire non inganna il pubblico e l’opera gli viene quasi subito attribuita.

Nella commedia francese si intrecciano due filoni: da un lato, lo spunto polemico del quale abbiamo fatto menzione sopra e dall’altro, la storia d’amore tra la protagonista, Lindane, e Lord Murai ostacolata dall’odio atavico che intercorre tra le famiglie di appartenenza dei due giovani. Le vicende dei due innamorati restano tuttavia un po’ sullo sfondo oscurate dai divertenti sproloqui del giornalista Frélon.

Come dicevamo all’inizio, questa commedia spopolò sia in Francia che in Italia e il soggetto piacque tanto da spingere Carlo Goldoni a riadattarlo per il suo pubblico. Come afferma nei suoi Mémoires lo stesso autore veneziano (che stimava – ricambiato – Voltaire), la commedia francese ebbe, solo a Venezia, ben tre diversi allestimenti, tanti quante erano le compagnie di comici che allora vi operavano: un primo adattamento, venne messo in scena dall’abate Pietro Chiari con il titolo La bella pellegrina ma riscosse una tiepida accoglienza; un secondo allestimento che consisteva nella semplice traduzione dal francese della commedia raccolse anch’esso un modesto consenso. Per ultimo, l’adattamento di Goldoni incontrò, finalmente, il favore del pubblico e le ragioni del successo le menziona l’autore stesso: “…più ch’io m’inoltrava nella traduzione, vedea chiaramente, e con pena, che non sarebbe gustata, com’era, sui teatri d’Italia […] convien presentarla [la natura umana] con gli abiti, e con gli usi, e con quelle nozioni e prevenzioni, che sono meglio adattate al luogo, dove si vorrebbe farla gustare[3].

Il Goldoni si ispira all’opera francese ma la riadatta al gusto italiano. La prima notevole differenza tra le due commedie risiede nel personaggio di Frélon. Lo scrittore veneziano (che lo ribattezza “M. La Cloche”) ne riduce considerevolmente la presenza scenica e ne modifica il carattere, trasformandolo da malevolo giornalista in un perditempo pettegolo che passa la sua giornata al caffè. La decisione di sminuire questo personaggio è dovuta ad una questione di “costume”: mancando, infatti, in Italia, questo tipo di giornalisti non sarebbe stato credibile. Nella versione italiana si perde totalmente lo spunto polemico originale e si impone in primo piano la travagliata storia d’amore di Lindana e Murrai che ben si confaceva al gusto per la comédie larmoyante dell’epoca[4].

Diverso è anche il carattere di Lady Alton; pur rimanendo l’antagonista per eccellenza di Lindana, nella traduzione italiana è meno frivola e passionale, ma più orgogliosa.

Se, da una parte, Goldoni interviene riducendo l’importanza e la presenza in scena dei due antagonisti, dall’altra, dà maggior rilievo ad altri personaggi della commedia, come la cameriera Marianna (Polly nella versione francese) e il mercante Friport.

La prima, in entrambe le versioni, è fedele e affezionata alla virtuosa scozzese e assume il ruolo topico di “aiutante” della protagonista; tuttavia, nel rifacimento goldoniano, il suo carattere ci sembra meglio tratteggiato e la giovane pare maggiormente intrisa delle virtù della padrona (cfr. atto I, scena III).

Il Friport goldoniano presenta un carattere apparentemente scortese, burbero e misogino; tuttavia, si dimostra estremamente generoso nei confronti di Lindana e di suo padre. È un uomo saggio, privo di affettazione che sembra in grado di leggere negli animi degli altri personaggi ed agire di conseguenza. Non nutre sospetti nei confronti di Sterlingh pur non conoscendo la sua identità e prova una istintiva avversione per Miledi Alton. Anche nella versione francese è burbero e generoso tuttavia il suo interesse per Lindane non è solo mosso da compassione per la sua povertà e dignità, ma sfocia (o pare sfociare) in amore. Ponendo in primo piano la storia d’amore dei due giovani, Goldoni sminuisce l’attrazione di Friport per Lindana in quanto avrebbe sviato l’attenzione dal soggetto principale.

Goldoni, nel suo rifacimento, pur ispirandosi alla commedia francese, puntò maggiormente sul pathos e sui sentimenti dei protagonisti, enfatizzando la drammaticità di alcune scene, come, per esempio, quella dell’incontro tra Lindana e suo padre. Nell’originale francese il riconoscimento è graduale, non immediato e avviene prima dello scontro tra questi e Murai. Goldoni riunisce invece i due incontri in un’unica scena finale di maggiore drammaticità: Sterlingh (o Monrose) si avventa contro Murei; Lindana accorre sentendo che il suo amato è in pericolo e riconosce nell’aggressore suo padre: “Lind: Ah! Milord, chi v’insulta, chi vi assalisce? Ah mio padre! Si getta ai piedi del conte. /Con: Ah mia figlia […] / Murr: Oh stelle! Il padre dell’idol mio è padrone della mia vita[5].

 

La trama de La Scozzese è la seguente: la protagonista, Lindana, di origini scozzesi, si trova a Londra in incognito in seguito alla condanna a morte del padre e all’espropriazione dei beni di famiglia da parte del Governo. Pur essendo innocente, il padre fu costretto a fuggire per una macchinazione condotta da Murrai padre e la giovane, rimasta intanto orfana di madre, si è imbarcata su una nave diretta in America facendo tappa a Londra. Qui alloggia nell’albergo del premuroso Fabrizio e conosce e si innamora di Milord Murrai che si rivelerà figlio del nemico della sua famiglia. La fidanzata di Murrai, Miledi Alton, si oppone alla relazione tra due, così come l’odio tra le famiglie dei giovani (topico piuttosto ricorrente in letteratura). L’epilogo è a lieto fine: Lindana ritrova suo padre il quale, dopo la riappacificazione con Murrai figlio, che gli permette di rientrare in possesso dei suo i beni, acconsente alle nozze tra i due.

La vicenda è la medesima però le scelte dei due autori sono diverse: una commedia più polemica e divertente quella di Voltaire; un’opera più centrata sui sentimenti quella di Goldoni.

 

Edizioni italiane e traduzione sefardita

 

Nel 1883 venne pubblicata sulle pagine di un giornale di Istanbul la traduzione sefardita (o giudeospagnola che dir si voglia) di un’opera goldoniana intitolata La Escoĉeśa, quasi a conferma delle parole di Jérôme Carré-Voltaire riportate all’inizio, secondo le quali il soggetto della commedia poteva essere con successo tradotto e rappresentato in tutte le lingue. Come abbiamo visto, Goldoni non fu un pedissequo traduttore dell’opera francese, ma un “ricreatore” che trasse spunto dalla vicenda ampliandone tuttavia l’intreccio e adattandola alla realtà e al gusto italiani.

Confrontando invece la versione sefardita con l’opera goldoniana risulta subito chiaro che non si tratta di una rielaborazione ma di una traduzione vera e propria, benché siano evidenti alcune piccole differenze che consistono sostanzialmente in omissioni di brevi parti di testo o nella traduzione imprecisa di alcuni termini.

Queste piccole differenze ci hanno spinti a verificare tutte le edizioni italiane pubblicate tra la fine del 1700 e il primo ventennio del 1800, per stabilire se ci fossero più versioni della stessa commedia e quindi per stabilire di quale di queste edizioni fosse in possesso del traduttore. Servendoci delle preziose informazioni riportate nel lungo e articolato studio della professoressa Scannapieco Scrittoio, scena, torchio: per una mappa della produzione goldoniana[6], siamo venuti a conoscenza dell’esistenza di una sola edizione spuria dell’opera, pubblicata a Bologna nel 1772 presso l’editore San Tommaso d’Aquino. Tuttavia, il confronto tra questa edizione e la versione sefardita ci ha immediatamente permesso di escluderla dal novero dei possibili originali in possesso del traduttore in quanto le medesime differenze che si rilevano tra l’edizione bolognese e le altre edizioni italiane si riscontrano anche tra detta edizione spuria e la traduzione.

Recuperando poi i testi delle edizioni successive è emerso che, a partire dal 1775, si rifanno tutte alla Pasquali e questo ci porta a concludere, in primo luogo, che il nostro traduttore doveva disporre di una di queste edizioni (a meno che non ne esistano altre “spurie” delle quali tuttavia non vi è traccia nelle bibliografie) e, in secondo luogo, che le differenze che intercorrono tra l’originale italiano e la traduzione sefardita siano il frutto dell’intervento sul testo del traduttore stesso.

Le differenze più evidenti consistono nella omissione di alcune frasi o di brevi battute; in alcuni casi sembra facile stabilire il criterio del traduttore, per esempio, all’inizio della commedia nella versione italiana si citano alcuni “fogli” (giornali) come La Gazzetta d’Olanda, Il Mercurio di Francia, ecc. che hanno un preciso referente nella realtà ma che, probabilmente, non avevano nessun valore o riscontro per i lettori sefarditi residenti ad Istanbul alla fine del XIX secolo e vengono quindi omessi.

In altri casi comprendere il perché di alcuni tagli è più complesso; per esempio nel terzo atto, scena terza sono state omesse in traduzione tutte le battute inerenti alla ricerca della chiave della camera del conte da parte di Fabrizio e, sempre in questo atto tutti i riferimenti della cameriera Marianna al cibo (scene sesta e ottava). Queste omissioni non modificano lo svolgimento della vicenda in quanto riguardano battute se vogliamo “accessorie”, non creano problemi di comprensione o continuità e forse hanno l’obiettivo di rendere più veloce il dialogo (nel primo esempio citato, quello della ricerca della chiave, si perde tuttavia il clima alberghiero ricreato nella versione italiana).

Un altro tipo di omissione potrebbe essere di carattere “ideologico”; così almeno ci sembra logico interpretare la decisione di non tradurre un paio di battute di Friport (atto II, scena II) che definiscono le donne come sorgenti del male comune (mentre il commercio è la sorgente del bene comune) e che suonano alquanto misogine.

Per quel che riguarda infine le differenze stilistiche, si rileva nella traduzione, un linguaggio meno ricercato. Alcuni termini sono infatti tradotti in sefardita con parole d’uso più comune (per esempio, “procacciare un insulto” è reso con “hablar mal de la honor”) o eufemistiche (“secretos” per l’italiano “arcani”, “tristes” per “afflitte”, “males” per “sventure”, “corajosa” per “eroica”, ecc.).

 

Caratteristiche linguistiche della traduzione

 

Prima di stabilire le “caratteristiche” (o, almeno, “alcune” caratteristiche) del sefardita, ci sembra opportuno cercare di definire la lingua stessa e la comunità linguistica che se ne servì (e ancora se ne serve, benché solo nell’ambito familiare) per secoli. Per “Sefarditi” intendiamo gli Ebrei spagnoli che vennero espulsi con un editto del 1492 dall’amata patria e si dispersero in numerosi paesi europei e del bacino mediterraneo, fondando fiorenti comunità (come quelle sorte nei territori dell’ex-Impero Ottomano) o assimilandosi, col passare del tempo, alla popolazione dei paesi ospitanti (come avvenne in Olanda o in Italia). Emigrando, portarono con sé non solo il ricordo della Spagna e la propria religione (solo chi abiurava la propria fede per abbracciare quella cristiano cattolica poteva esimersi dall’obbligo di emigrare) ma, anche la propria lingua, lo spagnolo.

Forse per questo, è piuttosto diffuso il luogo comune che vede nel sefardita un vestigio dello spagnolo medievale soprattutto in virtù della conservazione di alcuni suoni totalmente scomparsi dalla moderna fonetica castigliana.

In realtà sarebbe più corretto parlare di una evoluzione parallela del sefardita rispetto allo spagnolo normativo dovuta alla lontananza secolare delle due comunità linguistiche. Il fatto che si ritrovino alcuni elementi propri dello spagnolo cinquecentesco non significa che il sefardita sia rimasto fermo alla lingua di questo periodo; infatti, come ogni lingua viva e parlata, si è evoluto nel corso dei secoli acquisendo nuovi termini, coniandone altri, assumendo tratti peculiari.

Servendoci della nostra traduzione, possiamo rilevare da una parte questi tratti arcaici e dall’altra quelli peculiari del sefardita e cercare di darne una breve descrizione.

L’aspetto che maggiormente denuncia la diretta discendenza del sefardita dallo spagnolo medievale è probabilmente la fonetica. Nel nostro testo del XIX secolo sopravvivono dei suoni consonantici che nella penisola iberica si estinsero nel XVI-XVII sec. quali: l’opposizione tra la s sonora e la s sorda; le due fricative palatoalveolari sonora e sorda che in castigliano confluirono in un unico fonema velare sordo (la jota) nel XVI secolo; l’opposizione tra l’occlusiva bilabiale sonora e la fricativa labiodentale sonora oggi totalmente assimilate nello spagnolo normativo che pronuncia indistintamente b e v come occlusive bilabiali all’inizio di parola e come fricative bilabiali in posizione intervocalica; infine, sopravvive ancora in alcuni casi (anche se nel nostro testo se ne riscontrano pochi) la f iniziale di parola, scomparsa in spagnolo per influenza del sostrato basco. Anche nell’ambito della morfologia si rilevano dei tratti arcaici come attestano le prime persone singolari del presente indicativo dei verbi dar, ir, estar, ser che in sefardita conservano le forme do (discendente dal latino volgare *dao), vo (‹*vao), estó (‹*stao) e so (‹son‹sum) sostituite nello spagnolo normativo dalle attuali doy, voy, estoy, soy nel XVI secolo, dopo, quindi, l’espulsione degli Ebrei.

Molti termini, infine, oggi totalmente in disuso nella Penisola Iberica, sono invece ampliamente utilizzati nella conversazione di un sefardita come: piadad, pobredad, contentez, caler, atorgar, despartir, destruidor, estonces, menester, ecc.

Come dicevano però definire il sefardita come lo spagnolo dei secoli XIV-XV è limitante e scorretto. Benché nell’ambito della fonetica si presenti più conservativo del castigliano, alcuni suoni hanno subito un’evoluzione anche in questa lingua. È il caso per esempio della coppia /ts/ e /dz/ (affricate alveolari sorda e sonora) che passa da affricata a fricativa confondendosi rispettivamente con la s sorda e la s sonora. Un’altra peculiarità della fonetica giudeospagnola è la pronuncia “seseante” (in spagnolo la consonante fricativa interdentale compare solo nel XVII secolo) e “yeìsta” per cui la consonante ll si legge in modo meno pronunciato, come la y. In alcuni casi, quando la ll si trova in posizione intervocalica, non solo si pronuncia più debole, ma cade, come dimostrano questi esempi tratti dal testo: aquea al posto di aquella, cuchío al posto di cuchillo, estreas al posto di estrellas.

Più significativi sono alcuni aspetti della morfologia soprattutto per quel che riguarda la dittongazione verbale e le desinenze della seconda persona plurale. Mentre in spagnolo persiste la allomorfia e/ie e o/ue in relazione all’accento (puedo/podemos; pienso/pensamos), in sefardita c’è una tendenza all’unificazione e, quindi, all’abolizione di questa oscillazione tra la vocale semplice e il dittongo. In alcuni casi prevale il dittongo che si estende a tutte le persone della coniugazione (quindi alla prima e alla seconda plurale) in tutti i modi, compreso l’infinito; a questo proposito l’esempio più emblematico è quello del verbo pueder (poder). Come dicevamo, per assimilazione, il dittongo si estende all’infinito che passa da poder a pueder così come a tutti gli altri modi verbali; leggiamo quindi accanto a “puedo”, “pueda” ecc. le forme innovative “puedía”, “puedré”. Nel caso contrario, si afferma, invece, la vocale semplice come nei verbi pensar, mostrar, querer.

Un altro aspetto sintomatico della modernità del sefardita (o almeno della sua indipendenza evolutiva dallo spagnolo normativo) è la dittongazione della seconda persona plurale. Lo sviluppo delle desinenze della seconda persona plurale nelle tre coniugazioni fu il seguente: -ades/-edes/-idis si evolsero e diedero in un primo momento –aes/-és/ís per poi passare a –áis/-éis/-is nello spagnolo moderno. Il sefardita presenta un ulteriore stadio evolutivo con la caduta della yod nei dittonghi –áis/-éis e la palatalizzazione della sibilante che portò a: -aš/-eš (e –iš per assimilazione). Anche nel passato remoto della seconda persona plurale il giudeospagnolo presenta uno stadio evolutivo più avanzato; ai passaggi –stis>-stes>-steis aggiunge un ulteriore sviluppo: adottando il suono palatale nell’ultima s si produsse, infatti, la caduta della yod così come della prima s e, quindi, la nascita delle desinenze –(a/i)teš.

Segnalare in questo breve articolo tutte le peculiarità rilevate nel testo è impossibile; ci limitaremo a citarne ancora qualcuna tra le più evidenti. L’uso, per esempio del pronome mos accanto al “normativo” nosotros; l’uso di con mí e con ti; la frequente metatesi soprattutto del nesso consonantico “rd” (godro, tadre, recodrarse); l’uso della congiunzione y con valore avverbiale di también, incluso dovuto probabilmente all’influenza del bulgaro (e dell’uso della и slava) sulla lingua delle comunità sefardite ivi residenti.

Importante, per concludere, fu l’influenza di alcune lingue straniere sul sefardita; l’ebraico condizionò fortemente la lingua dei testi religiosi giudeospagnoli non solo per quel che riguarda il lessico ma anche per quel che riguarda la sintassi. Dall’italiano presero a prestito molti vocaboli soprattutto di carattere commerciale (anche se il nostro testo presenta molti italianismi dovuti forse all’influenza sul traduttore dell’originale); dal turco adottarono molte parole proprie della vita quotidiana, ma è al francese che si devono i maggiori prestiti (a partire dalla seconda metà del 1800 per opera dell’Alliance Israélite Universelle[7] si promosse l’apertura di scuole francesi nelle comunità ebraiche presenti in territorio ottomano che importarono la letteratura, la lingua e i costumi francesi; anche se in realtà il nostro testo non presenta un gran numero di gallicismi questi dovevano essere estremamente diffusi).

Se si escludono alcuni termini meno usuali presenti nel testo, possiamo affermare che questo non presenta grandi ostacoli di comprensione per un lettore di lingua spagnola, anche perché rientra nel gruppo di opere composte (o tradotte) dopo la rivoluzione letteraria e linguistica che interessò le comunità sefardite nel XIX secolo (dovuta in grande parte al lavoro dell’Alliance suddetta). La lingua delle opere del XVIII secolo, che fanno parte dei cosiddetti generi patrimoniali (coplas, commenti rabbinici, raccolte di racconti folcloristico-tradizionali con finalità didattica, ecc.), è meno facile da comprendere per la forte influenza dell’ebraico sulla sintassi e per la maggiore presenza di arcaismi.

 

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Il confronto tra l’originale della commedia e la traduzione sefardita ha portato alla luce delle differenze tra le due versioni, tuttavia dall’esame delle molteplici edizioni pubblicate in Italia tra il 1700 e il 1800, è emerso che si rifanno tutte ad un unico modello, l’edizione Pasquali del 1775. Abbiamo quindi supposto che il traduttore, in possesso di una delle edizioni da questa discendenti, abbia operato delle modifiche sul testo, ma la questione dell’originale resta avvolta nel mistero. Misterioso è anche il cammino che la “scozzese” ha intrapreso per giungere ad Istambul; l’ipotesi più accreditata è che sia arrivata in Turchia attraverso le scuole di lingua italiana che vennero istituite a partire dal XIX secolo, sul modello di quelle francesi. Il periodico El Amigo de la Familia che l’ospitò non ci fornisce informazioni utili per identificare l’edizione italiana e, quindi, non si può attualmente escludere nessuna possibilità, neanche la più semplice e banale, e cioè che La scozzese sia stata tradotta da un appassionato di cultura italiana che ne conservava una copia nella sua biblioteca personale.

http://www.cisi.unito.it/artifara/rivista3/testi/goldoni.pdf

Note sul testo

 

La traduzione de La Scozzese di Goldoni fu pubblicata a puntate sulle pagine della rivista storica, scientifica e letteraria El Amigo de la Familla nel 1883; il giornale aveva frequenza settimanale e la pubblicazione dell’opera si protrasse per un periodo abbastanza lungo, vista anche la sua estensione. Ogni pagina del giornale si compone di tre colonne e reca in alto il nome ed il numero di pagina; benché sia scritto in una lingua romanza vi si impiegarono i caratteri ebraici, come nella maggior parte delle opere scritte in sefardita.

Sulla traslitterazione e sui segni diacritici impiegati per rappresentare alcuni fonemi giudeospagnoli ci soffermeremo in seguito. Adesso è interessante citare brevemente alcune peculiarità “formali” della traduzione.

Come dicevamo l’opera venne pubblicata a puntate e in ogni numero le si dedicano due o tre pagine; tuttavia, i criteri di divisione del testo non sono da ricondurre tanto alla spazio quanto piuttosto alla scelta di interrompere la narrazione in un momento importante o cruciale e l’espediente della suspense non può stupirci se pensiamo che in questo modo si stimolava la curiosità del lettore e quindi l’acquisto della rivista (in nota si troveranno indicate queste cesure).

Una peculiarità interessante che salta agli occhi leggendo il testo sono le glosse che il traduttore aggiunge tra parentesi per spiegare il significato di alcune parole o espressioni; la cosa curiosa è che quasi tutte le glosse sono rappresentate da parole turche e ciò indica che probabilmente queste erano più frequenti o di uso più comune di quelle spagnole (cosa questa che non stupisce se pensiamo che ampi strati della comunità sefardita erano continuamente in contatto con la popolazione autoctona).

Nella traslitterazione dal testo aljamiado (scritto cioè impiegando i caratteri ebraici) al testo latino è importante tener presente che: la י (yod) può rappresentare tanto la “i” quanto la “e”; la ו (vav) può rappresentare sia la “u” che la “o”. La ה (he) rappresenta la “a” in sede finale e la א (alef) la “a” all’inizio o all’interno della parola ma si antepone anche alla yod e alla vav quando queste sono iniziali di sillaba (in questo caso la alef non ha valore fonetico ma serve solo per indicare che la lettera che segue è una vocale). La doppia yod è più complessa perché può indicare tanto i dittonghi “ie” e “ei” che “y”. Interessante è il caso della consonante “ghimal” (ג) la quale normalmente corrisponde alla occlusiva velare sonora (la g spagnola davanti a o, a, u e gui, gue). Quando si rese necessario rappresentare alcuni fonemi spagnoli che non avevano un corrispettivo in ebraico, si adottarono le consonanti a disposizione e con l’uso di un apostrofo si crearono nuove coppie di consonanti; così, per esempio, la ghimal sovrastata da un accentino (‘ג) passerà ad indicare due suoni palatali: la affricata palatoalveolare sorda (la ch spagnola) e la affricata palatoalveolare sonora (la g italiana davanti a “i” ed “e”). Lo stesso dicasi per la zayn (ז) la quale corrisponde alla s sonora (come casa in italiano), ma se sovrastata da una virgoletta (‘ז) passa a indicare la fricativa palatoalveolare sonora (la j francese). Una cosa simile si produsse al momento di rappresentare le consonanti “ñ” e “ll”; anche in questo caso i sefarditi si servirono dei mezzi forniti dal proprio alfabeto e crearono le seguenti combinazioni: nun seguito da doppia yod per il fonema nasale (ניי) e lamed seguita da doppia yod o, in alcuni casi, solo la doppia yod, per rappresentare la ficativa velare sonora (ליי).

Il problema delle trascrizioni iniziò a porsi nel XIX secolo quando i sefarditi vennero a contatto con la lingua francese nelle scuole dell’Alliance ma anche quando in Turchia si impose l’adozione dell’alfabeto latino (1928).

Tuttavia non vi è un solo sistema di trascrizione perché uno stesso fonema non ha un’unica rappresentazione in tutte le lingue. Le trascrizioni realizzate dai sefarditi conoscitori del francese denotano una chiara influenza di questa lingua, per esempio, nella rappresentazione di suoni come la fricativa palatoalveolare sorda (rappresentata con una ch come in francese) o della affricata palatoalveolare sonora trascritta tch; ulteriormente distanti dalla grafia francese, ma anche dello spagnolo moderno, sono le trascrizioni realizzate nella zona balcanica o in Turchia.

Nella nostra trascrizione seguiamo i criteri esposti in Transcripción normalizada de textos judeoespañoles del professor Hassán[1] in cui si legge “Sobre una ortografía basada hasta donde sea posible en la del español normativo, los rasgos diferenciales de la fonética sefardí se representan mediante la adición de puntos, tildes u otros signos diacríticos a ciertas letras”. Questo sistema rispetta il più possibile la grafia spagnola (rendendo quindi il testo meglio “leggibile”) senza trascurare l’indicazione di fonemi non propri dello spagnolo moderno. Andiamo a vedere quali fonemi si celino dietro i segni diacritici impiegati nella trascrizione:

• b, ṿ, ḅ: occlusiva bilabiale sonora (se al “v” compare senza segno diacritico si legge sempre come fricativa). Viene indicata l’occlusiva con un puntino sotto la lettera solo quando si trova in un contesto in cui in spagnolo é fricativa (per esempio, se nel testo la occlusiva si trova in posizione intervocalica);

• ĉ equivale al fonema affricato palatoalveolare sordo rappresentato in spagnolo da “ch”;

• j˘, š, ž: rappresentano la fricativa palatoalveolare sorda (“sci” italiano);

• ĝ, ĵ: rappresentano l’affricata palatoalveolare sonora (la “g” italiana davanti ad “i” ed “e”);

• s̀, j́: corrisponde alla fricativa palatoalveolare sonora (la “j” francese);

• ź, ś, ć: rappresentano la sibilante sonora come la “s” intervocalica italiana;

• x́: rappresenta il suono composto dalla occlusiva velare sonora seguita dalla sibilante (come la “x” intervocalica francese”.

 

Infine, con il trattino in basso (_) si indicano due parole che, nel testo aljamiado erano unite; il trattino (-) inserito all’interno di una parola indica che le due parti della parola che unisce erano originariamente divise.

 

 

http://www.cisi.unito.it/artifara/rivista3/testi/sefardita.asp

 

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