Rigore a pancia vuota

di  Dante Barontini

miracoli non abitano in Europa. E questa crisi, in ogni caso, non ne permette.

Il primo incontro tra Hollande e la Merkel ha confermato le più scontate previsioni. Ognuno ripete quel che ha già detto per rassicurare i suoi, ma con dei mezzi toni più bassi, in modo da evitare di ingigantire le differenze e preparare l’indispensabile compromesso.

Questa è la parte facile. Trovare un compromesso, in politica, non è mai un problema enorme. Ma qui va trovata invece una “soluzione”. Ovvero un’idea che funzioni, non un escamotage che accontenti un po’ tutti. È la realtà economica a prevare sulle cuciture della politica. E questa realtà dice che si possono benissimo scrivere alcune migliaia di articoli diversi su come “coniugare rigore e crescita”, ma l’una cosa – da sempre – esclude l’altra.

Non si tratta di aver fede, ma di fare calcoli.

Nella situazione attuale, senza prospettive positive a breve-medio termine, gli imprenditori privati di tutto il mondo non investono. Nel migliore dei casi investono meno. Il che rallenta un’economia globale già imballata di suo, anche nei paesi emergenti che fin qui hanno marciato a due cifre. Il motivo è semplice: con la delocalizzazione produttiva, o la globalizzazione della manifattura, il baricentro del “fabbricare” si è spostato dai paesi industrializzati a quelli “emergenti”. L’illusione era che qui da noi si potesse conservare la preminenza per quanto riguarda progettazione, servizi avanzati e finanza. Non è andata proprio così e ora – noi “avanzati” – non cresciamo più. Anzi ci andiamo impoverendo e facciamo sempre più fatica a comprare le merci fisiche prodotte altrove. Tra gli emergenti il “mercato interno” – i consumi di massa – sono ancora a un livello insufficiente (causa i salari troppo bassi) e quindi il rallentamento diventa globale.

Le banche, che dovrebbero erogare credito per riaverlo poi indietro con gli interessi, da cinque anni a questa parte chiedono soldi invece di prestarli. Li chiedono agli stati nazionali, che gliene danno senza riserve. Ma questo ha disseccato la sorgente sussidiaria che prima alimentava gli investimenti (e i consumi), sopperendo alla carenza di quelli privati nei momenti di crisi.

Anzi, le politiche di “rigore” si concentrano nell’eliminare la spesa pubblica che non sia diretta al finanziamento degli istituti finanziari; nel drenare risorse dall’economia reale per trasferirle, seppure insufficienti, a quella di carta. Si tolgono le tutele al mercato del lavoro, si abbassano dunque i salari sia direttamente che indirettamente (tramite l’aumento della tassazione, la riduzione dei servizi essenziali, l’aumento delle tariffe controllate, ecc), si allunga l’età pensionabile riducendo al tempo stesso l’assegno pensionistico. Una gelata sui consumi che deprime naturalmente “la domanda” e induce ancor più l’industria globale a contrarre la produzione. L’avvitamento recessivo sta tutto in questo giro di valzer.

O si fa rigore o si cresce. Non c’è proprio nulla da “contemperare”. Se lo Stato non fa il keynesiano (e non può neppure farlo, perché ci vorrebbe uno “Stato mondiale”), investendo direttamente nella produzione in luogo dei “privati”, non c’è alcuna possibilità di crescere.

Possibilità, non certezza. La scala dei problemi e la complessità della loro interconnessione sfugge ormai al controllo anche dei più potenti protagonisti dei mercati. Non è insomma affatto detto che una politica di “sostegno alla crescita”, con finanziamento in deficit, possa invertire la tendenza. Ma se si continua a predicare “rigore” c’è una sola certezza: l’avvitamento recessivo.

Dunque, quando ci dicono che bisogna trovare la “formula legale” che consenta di tenere insieme “rigore e crescita” ci stanno prendendo per i fondelli. Prendono tempo. Il nostro.

Noi non ne abbiamo più, ce lo vogliamo riprendere.

 

http://www.contropiano.org/it/archivio-news/editoriale/item/8879-rigore-a-pancia-vuota

Mercati in tensione, spread di nuovo impazzito. Siamo come a novembre? Non proprio…

Siamo sempre grati a chi lavora bene sui dati economici, senza indulgere in ricette ideologiche alla Giavazzi-Alesina.

E consigliamo dunque la lettura di questo articolo di Morya Longo, su Il Sole 24 Ore. Di particolare interesse è anche il grafico che lo accompagna, da cui emerge con notevole chiarezza – oltre alla posizione di straordinario vantaggio per la Germania – qual’è la differenza tra le tensioni di mercato registrate in novembre e quelli di oggi (e per oggi): il ruolo della Bce è di fatto cambiato, avvicinandosi molto a quello di “prestatore di ultima istanza” ricoperto dalla Federal Reserve statunitense.

Un cambiamento che non è inscritto nello statuto della Bce e dipende solo da valutazioni “tattiche” del suo attuale board, presieduto da Mario Draghi. Anche questo è a suo modo un “fattore di rischio”, perché una differente composizione del consiglio potrebbe determinare comportamenti diversi in situazioni simili, togliendo “certezza” agli operatori sul mercato.

C’è una seconda considerazione da fare. Il nuovo ruolo momentaneo della Bce sostituisce quello degli Stati nazionali. Ovvero concentra ancora di più in mani puramente “tecniche” decisioni che riguardano tutto il continente (non solo l’eurozona strettamente intesa), per di più senza che questa concentrazione sia neppure regolata. Se non altro a livello di statuto.

Detto altrimenti, il “centro di comando” che coordina i soccorsi si è fortemente ridotto di numero e rappresentatività. Di “democrazia”, in situazioni del genere, è meglio parlare sottovoce.

 

Venti di crisi. Ma chi comanda davvero?

di  Redazione Contropiano

 

La trincea dell’euro al test della speculazione

Morya Longo

Dopo le elezioni greche, che hanno fatto emergere l’ostilità del Paese ellenico verso le politiche di austerità imposte dalla tecnocrazia europea, la sensazione che qualcosa stia per esplodere è concreta sui mercati: se Atene dovesse uscire dall’euro, come ormai tanti economisti ritengono probabile, l’effetto domino potrebbe investire anche altri Paesi. Il timore che l’euro si spacchi in mille pezzi è diffuso.

È nei report degli economisti. È nei meeting interni di banche e imprese. È nelle facce cupe degli operatori. Come la consapevolezza che se questo accadesse, l’Europa andrebbe probabilmente incontro a un crack generalizzato.
Eppure, nonostante il timore diffuso (ma non unanime), le quotazioni sui mercati finanziari non mostrano livelli di stress paragonabili a quelli dello scorso novembre. I BTp italiani decennali rendono oggi il 5,80%: molto meno del 7,20% toccato il 9 novembre scorso. Solo la Spagna ha tassi più alti. Anche l’euro, seppur in caduta, è più forte oggi dello scorso gennaio. I casi, dunque, sono due: o i mercati credono che la Grecia stia semplicemente “negoziando” condizioni migliori con l’Europa ma non voglia realmente abbandonare l’euro; oppure credono che prima o poi la Bce inventi qualche misura eccezionale per salvare, almeno temporaneamente, la baracca.

La sensazione che l’Europa stia giocando con il fuoco è diffusa. Ma, evidentemente, è anche diffusa la convinzione che – rispetto a novembre – oggi ci siano più estintori.

I passi avanti da novembre
In effetti molto è cambiato rispetto a novembre, momento più acuto della crisi europea sui mercati finanziari. Alcune novità positive oggi ci sono. La maggiore si trova, per esempio, nel mondo bancario: allora gli istituti di credito del Vecchio continente erano quasi tutti a corto di liquidità e rischiavano di fallire come birilli. Oggi, dopo che la Bce li ha foraggiati con mille miliardi di euro, questo rischio è ridotto. Il “cross currency basis swap” (un indicatore che più diventa negativo più mostra la difficoltà delle banche europee a reperire fondi in dollari) lo dimostra chiaramente: a novembre, segnala un economista, era a -155, mentre ora è “solo” a -50.
È vero che oggi le banche hanno molti più crediti deteriorati in bilancio e che soffrono per la recessione. Ma è anche vero che la crisi di liquidità, l’unica che può veramente essere fatale per una banca, è in gran parte scongiurata. Anche a livello di Stati molte cose sono state fatte. Solo la Spagna ha peggiorato le sue condizioni generali. «Ma soprattutto oggi – osserva Silvio Peruzzo, economista di Rbs – c’è la consapevolezza che raggiunti certi livelli di stress la Bce intervenga come ha fatto dopo la crisi di novembre».

I passi indietro
Purtroppo, però, a fronte di questi minimi passi in avanti, oggi i rischi sono molto più grandi. Se la Grecia uscisse dall’euro, e venisse smentita la convinzione generale secondo cui è impossibile abbandonare la moneta unica, si rischierebbe una fuga di capitali e di depositi dai Paesi ritenuti più deboli: perché tenere i propri soldi in una banca italiana, spagnola o portoghese, quando c’è il rischio che quei depositi vengano un giorno convertiti in valute più deboli? Perché comprare BTp italiani o Bonos spagnoli, quando i Bund tedeschi saranno potenzialmente denominati in marchi? È questo il motivo per cui i rendimenti decennali tedeschi continuano a scendere: la logica di chi compra Bund all’1,47% (ben sotto l’inflazione) è principalmente valutaria. Di fatto, chi compra Bund compra marchi.

E in effetti la fuga di capitali e di depositi è già iniziata. Non solo in Grecia, dove solo dalle elezioni del 6 maggio sono usciti 700 milioni di euro dalle banche. Ma anche in Spagna, secondo una stima di Ubs, già 65 miliardi sarebbero fuggiti negli ultimi mesi dai conti correnti. In Italia il totale depositi resta stabile, anzi in lieve aumento. Ma quello che preoccupa – guardando i dati dell’Abi – è la fuga dei capitali esteri: a febbraio 2012, per l’ottavo mese consecutivo, i depositi dall’estero sono infatti calati del 16,3% rispetto al febbraio 2011. Idem per i titoli di Stato.
Altro elemento peggiore, rispetto a novembre, è rappresentato dall’economia. Le stime sulla crescita in Europa del 2012 sono tutte peggiorate (si veda grafico a fianco). Per di più la disoccupazione è in aumento, fino a diventare una piaga in Paesi come la Spagna (24%) o la Grecia (21,7%). Questo sta fomentando le tensioni sociali (ovvie e legittime) e sta impantanando la classe politica nell’indecisionismo. «Il rischio maggiore – sostiene un banchiere – è quello della balcanizzazione della politica in Europa».

La cautela dei mercati
Eppure oggi i mercati finanziari mostrano inferiori segnali di stress. I rendimenti dei titoli di Stato, con l’eccezione spagnola, sono più bassi: lo sono quelli italiani (dal 7,20% di novembre al 5,80% attuale), ma anche quelli francesi (3,20% contro il 2,89%). Le Borse europee rispetto ai minimi toccati a novembre restano in rialzo del 4%. E anche gli indicatori “risk reversal” oppure quelli che calcolano le posizioni “corte” (cioè in vendita) mostrano tensioni inferiori oggi rispetto a novembre.
C’è solo un indicatore che, dietro le quinte, mostra allarme crescente: il mercato dei credit default swap. Secondo i calcoli di Martingale Risk, le probabilità di default implicite nelle quotazioni sono oggi più alte per tutti gli Stati (tranne l’Italia): la Spagna ha una probabilità di finire insolvente nei prossimi 10 anni del 58%, contro il 49% di novembre. Persino la Germania oggi è più a rischio (18%). Segno, forse, anche i mercati adottano il motto «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio». Segno che la speranza di futuri interventi della Bce sono compensati dalla consapevolezza che l’indecisione politica potrà peggiorare la situazione

http://www.contropiano.org/it/esteri/item/8909-venti-di-crisi-ma-chi-comanda-davvero

Falso bilancio,

Falso bilancio, Severino: “Errori li c Così, il ministro della giustizia, Paola Severino si è vista costretta ad intervenire da New York dove si trova in visita ufficiale. Si è verificata infatti un po’ di confusione:

li correggeremo in aula

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