Povera gente di Dostoevskij Fëdor

Fëdor Mihailovič Dostoevskij Povera gente www.liberliber.it

Quando questo romanzo venne pubblicato, Fëdor Dostoevskij aveva ventiquattro anni; fu un successo travolgente: la critica fu subito concorde nel dichiarare che il suo autore era un genio, un genio, però, che viveva nella miseria più nera, quella miseria senza speranza che ispira, appunto, “Povera gente”. Due giovani si scrivono, si raccontano le loro piccole vicende quotidiane, le loro speranze, i loro sogni. Nasce così un amore che potrebbe aprire a entrambi la via della felicità, ma la loro miseria è tale che la ragazza deciderà di sposare un uomo non più giovane, ma ricco nella folle speranza di poter aiutare il suo infelice amico. Un romanzo epistolare che scosse la Russia e segnò l’inizio della carriera di un titano della letteratura mondiale. Introduzione di Fausto Malcovati.

L’USO STRUMENTALE DELLA FEDE DI DOSTOEVSKIJ, SCRITTORE AI LIMITI DELLA FOLLIA

Quando questo romanzo venne pubblicato, Fëdor Dostoevskij aveva ventiquattro anni; fu un successo travolgente: la critica fu subito concorde nel dichiarare che il suo autore era un genio, un genio, però, che viveva nella miseria più nera, quella miseria senza speranza che ispira, appunto, “Povera gente”. Due giovani si scrivono, si raccontano le loro piccole vicende quotidiane, le loro speranze, i loro sogni. Nasce così un amore che potrebbe aprire a entrambi la via della felicità, ma la loro miseria è tale che la ragazza deciderà di sposare un uomo non più giovane, ma ricco nella folle speranza di poter aiutare il suo infelice amico. Un romanzo epistolare che scosse la Russia e segnò l’inizio della carriera di un titano della letteratura mondiale. Introduzione di Fausto Malcovati.

Nei confronti di Dostoevskij i fondamentalisti cattolici han sempre cercato, con fare tra il patetico e il ridicolo, di presentarlo come un campione della fede religiosa, senza rendersi conto che per almeno tre motivi non poteva esserlo.

  1. Anzitutto Dostoevskij, che non è mai stato a favore della chiesa ortodossa di stato, tanto meno avrebbe accettato uno stato della chiesa cattolica, che invece è quello preferito p.es. da un movimento come Comunione e liberazione. E’ vero che credeva nella religiosità del popolo russo, come forma di “tradizione culturale”, da opporre al cinismo della società borghese dell’Europa occidentale, ma è anche vero che per tutta la vita considererà la chiesa istituzionale un semplice instrumentum regni nelle mani dell’autocrazia zarista. Se non fu scomunicato come Tolstoj fu semplicemente a motivo del fatto che non affrontò mai la religione come forma di esperienza ecclesiale, ma solo come idea di tipo filosofico.
  2. In secondo luogo Dostoevskij non è mai stato un ortodosso praticante, neppure dopo la conversione religiosa maturata nel carcere siberiano (che gli venne comminato – ricordiamolo – per le sue idee socialiste). Dell’ortodossia al massimo stimava le esperienze monastiche (quelle che gli ispireranno le figure di Aljoscia e dello starec Zosima nei Fratelli Karamazov), perché, per il resto, conduceva una vita individualista, da protestante, se vogliamo, analoga a quella di un altro grande esistenzialista europeo a lui coevo, S. Kierkegaard.
  3. In terzo luogo la filosofia religiosa ch’egli, ad un certo punto, cominciò a professare, era solo uno degli aspetti della sua complessa personalità; certamente non l’unico, tant’è che le idee socialiste condivise in gioventù (1845), nel circolo politico-culturale fondato da M. V. Petraševskij (che gli costarono otto mesi di carcere duro, quattro anni di lavori forzati in Siberia e sei anni di servizio militare, sempre in Siberia, come soldato semplice), gli ritornarono in mente nella maturità, quando parteggiava per la Comune di Parigi, specie per il regime di separazione tra chiesa e Stato, ovvero per la possibilità di costruire una società atea e democratica, in cui alla scomparsa della religione sarebbe sicuramente subentrata la riscoperta della natura. Non a caso dagli archivi segreti della polizia zarista, resi pubblici dopo la rivoluzione d’Ottobre, si scoprì ch’egli fu tenuto costantemente sotto controllo sino alla morte.

Il romanzo L’adolescente, l’unico interamente compiuto dopo i Demoni, venne scritto nel 1874, sette anni prima di morire, su una rivista di sinistra, “Quaderni patriottici”. Il ceto colto russo, qui impersonato da Versilov, non appare certo sfavorevole all’ateismo, anzi Dostoevskij sembra pervenire a una rivalutazione del nichilista Nečaev, già criticato nei Demoni. Il tema dell’ateismo verrà ripreso esplicitamente nel racconto fantastico Il sogno di un uomo ridicolo e nei Fratelli Karamazov.

Indubbiamente Dostoevskij fu un uomo molto controverso, che rifiutò l’esilio e che preferì sottostare alla mortificante censura e repressione poliziesca del suo paese, a quel tempo incredibilmente forti. A nessuno sarebbe stato possibile pubblicare esattamente ciò che pensava. Sicché non ha davvero alcun senso – come fa p.es. il sito Cultura Cattolica – estrapolare singoli brani dall’opera di un autore del genere, la cui complessità è davvero enorme, facendoli passare come pensiero dominante.

Forse è più facile annoverare Dostoevskij nel campo dei nichilisti teorici, ma anche qui bisognerebbe fare parecchi distinguo. Indubbiamente egli era un individualista della piccola-borghesia che avrebbe voluto vivere una vita da gaudente nobiliare, avendone formalmente i titoli. Le circostanze e soprattutto la sua personalità disturbata, lo indussero invece a vivere con un piede nella melma dell’indigenza. Il che, sotto un certo aspetto, fu la sua fortuna, in quanto lo fece diventare un grande scrittore.

Dostoevskij era un genio letterario, sapeva di esserlo e, per far colpo sul suo pubblico pietroburghese, intellettualmente molto curioso, molto influenzato dallo stile di vita degli europei dirimpettai, amava stupirlo con effetti speciali, ch’erano quelli dell’introspezione psicologica, della continua confessione interiore, in cui le sofferenze potevano giocare un ruolo tra l’epico e il lirico (sempre con significato catartico), in cui complicati intrecci narrativi potevano svolgersi con una carica emotiva assolutamente originale.

Dostoevskij era un uomo che quando appariva troppo uguale a se stesso, voleva diventare l’opposto. Non a caso il primo romanzo in cui viene delineato questo sdoppiamento della personalità, che non piacque per nulla a Belinskij, che pur aveva esaltato Povera gente, scritto l’anno prima, ebbe come titolo Il sosia. Questo perché non voleva essere etichettato in alcuna maniera, anche a costo di apparire eccentrico, stravagante. Non amava essere ideologicamente unilaterale: “Se mi chiedessero di scegliere tra la verità e Cristo, sceglierei Cristo”, disse una volta con quel fare paradossale che sempre lo caratterizzava.

Avrebbe potuto essere più coerente accettando l’esilio, come altri scrittori impegnati del suo paese, oppure continuando a rischiare, coi suoi romanzi, d’essere deportato in Siberia. Ma all’estero ci andò soltanto per sottrarsi ai suoi creditori e per convincersi che, nonostante l’autocrazia e il servaggio, il popolo russo era migliore di qualunque altro popolo europeo. Questa sua fede nella natura mistica della propria patria e nel proprio popolo religioso, è sempre parsa una evidente forzatura negli ambienti progressisti del suo tempo.

Continuamente ai limiti della follia, Dostoevskij non aveva pace. Era convinto di potersi risparmiare la follia con la sofferenza, vivendo una vita precaria, di stenti, circondato da creditori, spie e avversari politici. Indubbiamente sotto lo zarismo per un intellettuale era impossibile pensare con la propria testa, tanto più per un romanziere, che nella Russia dell’Ottocento veniva paragonato a un politico tout-court, oltre che a un filosofo, un umanista, un profeta della patria.

In lui i contemporanei videro la mancanza di misura, il grottesco travisamento della vita reale, l’insufficiente disciplina artistica, la tendenza agli effetti crudamente emozionali, l’indifferenza per le descrizioni della natura, l’assurda idea che l’epilessia potesse essere vissuta come una forma di sentimento di armonia con l’universo, per quanto gli riconoscessero un’enorme padronanza nella conoscenza della morbosità umana, una capacità di analisi psicopatica del tutto inedita nella storia della letteratura russa.

Chi era estremista apprezzava il suo nichilismo, chi era conservatore preferiva il suo attaccamento alle tradizioni russe, chi era progressista non riusciva a capire perché un perseguitato politico avesse atteggiamenti così sconcertanti. Sino all’ultimo nessuno è riuscito a capire s’egli fosse ateo o credente. Si è parlato di “nuovo cristianesimo”, in quanto Raskolnikov, quando vuole affermare la propria individualità senza dio, fallisce. Eppure nei Demoni e ne Il sogno di un uomo ridicolo si prospetta un socialismo senza dio, in cui la religione viene sostituita dalla natura, in cui l’amore universale è frutto “terreno” degli effetti catastrofici della malvagità umana.

La “santa idiozia” del principe Myškin (ne L’idiota) è non meno fantasiosa della predicazione dello starec Zosima e del puro di cuore Alëša (ne I fratelli Karamazov). Le soluzioni da lui prospettate per le contraddizioni del suo paese stanno a un livello molto più basso e superficiale dei drammi e delle tragedie racchiusi nei suoi romanzi, anche perché appaiono di tipo assolutamente metafisico. La sua filosofia religiosa resta meno irrazionale di quella di un altro grande esistenzialista, S. Kierkegaard, ma resta anche molto meno pregnante di quella elaborata dal suo connazionale Tolstoj, che contribuì non poco a formare una coscienza rivoluzionaria tra le masse contadine.

Sotto questo aspetto bisogna dire che anche sul presunto “realismo” di Dostoevskij le polemiche non sono mai finite. Per il suo interessamento alle questioni sociali, per la sua simpatia filantropica verso l’umile, per la scelta delle ambientazioni dei suoi capolavori, per l’elaborazione del concreto particolare, per i discorsi di taluni suoi immortali personaggi, certamente egli appartiene alla “scuola realistica”, ma sarebbe assurdo pensare che nei suoi romanzi vi siano rappresentazioni più “realistiche” della vita russa sotto Alessandro II di quelle fornite da Tolstoj, Turgenev, Gončarov, Aksakov e tanti altri.

Sarebbe meglio dire che Dostoevskij fu soprattutto interessato a se stesso, alle proprie riflessioni esistenziali, che poi proiettava verso i centri realistici della vita quotidiana. I suoi personaggi non possono essere concreti come quelli di Tolstoj, che avevano problemi urgenti da risolvere e che non potevano tergiversare sulle loro mille sfaccettature: nei romanzi di Dostoevskij i protagonisti sono anime, spiriti, avviluppati in una vita morbosa, senza via d’uscita, incredibilmente contorti, angosciati, per i quali la ricerca di una “soluzione” ai propri drammi non è poi così fondamentale, in quanto si dà per scontato che subito dopo si presenteranno nuovi problemi non meno gravi, non meno laceranti.

D’altra parte – e su questo A. Lunaciarskij ha perfettamente ragione – mentre Tolstoj recepì la crisi della Russia feudale come un proprietario fondiario, facendosi portavoce dei contadini, Dostoevskij invece la riflesse come un cittadino piccolo-borghese che nella sua Pietroburgo stava assistendo alla nascita del capitalismo.

Paradossalmente Dostoevskij, che pur criticava di “occidentalismo” i tanti intellettuali russi (liberali e socialisti) che volevano nel loro paese riforme politiche e sociali analoghe a quelle dei paesi capitalistici avanzati, era molto più “occidentalista” di loro. Cioè anche se pensava che le immani sofferenze del popolo russo, abituato a sentirsi oppresso non solo da nemici esterni (i Tartari, i Variaghi, i Polacchi, i Francesi di Napoleone), ma anche e soprattutto da nemici interni (l’autocrazia zarista in primis), avrebbero potuto far risparmiare a questo popolo i rischi di una vita corrotta e dissoluta come quella europea, e anzi avrebbero potuto costituire una soluzione alla crisi drammatica cui la vita borghese occidentale prima o poi sarebbe andata incontro, egli, di fatto, per come si comportava, si sentiva incredibilmente attratto da questa stessa vita, e non solo per la passione che aveva per il gioco d’azzardo. E fu sicuramente la sua fortuna se non poté viverla come avrebbe voluto, se il fatto cioè di essersi rovinato al gioco non l’avesse costretto a ripensarsi come romanziere non solo per se stesso ma per l’intera nazione.

Se quella volta in cui venne condannato a morte, il plotone d’esecuzione avesse sparato, noi non avremmo avuto un grande scrittore ai limiti della follia, ma uno scrittore promettente che, con la sua prima opera, Povera gente, aveva mostrato una grande sensibilità per l’umana sofferenza.

http://www.homolaicus.com/letteratura/dostoevskij2.htm

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