i vecchi e i giovani : luigi pirandello

I vecchi e i giovani – Liber Liber

Don Ippolito Laurentano se ne sta arroccato, fedele ai Borboni malgrado la vittoria dei garibaldini e l’avvenuta unità d’Italia, nel suo feudo di Colimbètra, nell’estrema Sicilia. Vedovo, dispone di una pittoresca milizia privata composta da venticinque uomini, tutti in uniforme variopinta, capeggiati dal poco marziale Placido Sciaralla.

Il fratello del principe, don Cosmo, vive appartato a Valsanìa, il cervello “sconvolto” dai libri di filosofia, scetticamente convinto della vanità del tutto. Si tratta di un alter ego di Pirandello, di un uomo che, più che viverla, la vita la contempla e la seziona cercando di comprenderne moventi e significati. Per le questioni pratiche che concernono la conduzione delle sue terre, don Cosmo si serve di Mauro Mortara, un vecchio garibaldino fedele agli ideali del Risorgimento.
È Mauro Mortara una delle figure centrali del romanzo, una sorta di avventuroso personaggio conradiano, rotto a tutte le esperienze, circondato dai suoi tre cani mastini, grande viaggiatore ora dedito alle cure della campagna, ma soprattutto rude e genuino patriota, a disagio nella nuova società postrisorgimentale.

La sorella di don Ippolito e di don Cosmo, donna Caterina Laurentano, è vedova di un eroe della patria, morto nella battaglia di Milazzo: Stefano Auriti. Caterina vive lontana dai parenti e rifiuta con nobiltà e ostinazione gli aiuti economici che le offre generosamente il fratello principe.

Flaminio Salvo è un borghese che si è arricchito con le solfare. Imprenditore privo di scrupoli, egli è disposto a servirsi di tutte le astuzie e di tutti gli intrighi della politica, pur di accrescere il suo potere e i suoi averi. Il suo braccio politico è il deputato del partito clericale Ignazio Capolino, della cui moglie Salvo è l’amante. Capolino, i cui rapporti coniugali sono fondati su una rappresentazione tutta esteriore di rispettabilità borghese, è un burattino i cui fili sono manovrati dal Salvo.
Tuttavia l’esistenza di Flaminio Salvo, come quella di tutti, non è priva di problemi: la vita privata gli è fonte di grandi amarezze, causate almeno in parte dalla distruttività del suo stesso carattere: gli è morto un figlio bambino, la moglie è pazza, mentre la figlia, Dianella, è una creatura molto intelligente e delicata, la cui fragilità psichica la rende inadatta ad affrontare gli urti della vita. Per migliorare ulteriormente la sua posizione economica e sociale, il Salvo propone in moglie a don Ippolito la propria sorella, Adelaide.

Il matrimonio ha luogo, ma è troppa la differenza di sensibilità e di cultura tra i due, che presto vedono naufragare la propria unione fra incomprensioni, noia e disgusto. Adelaide è una gaffeur vacua e sempliciona, poco adatta al carattere raffinato e ombroso del principe.

Intanto il figlio di donna Caterina, Roberto Auriti, dopo una brillante carriera politica nel partito di governo, viene poco onorevolmente coinvolto nello scandalo finanziario della Banca Romana, mandando in frantumi le speranze di quanti speravano dall’unità nazionale e dalle nuove generazioni subentranti, l’avvento di una classe dirigente che sapesse completare il lavoro degli artefici del Risorgimento. Roberto Auriti viene arrestato e la mamma, donna Caterina, per lo strazio ne muore. Un altro deputato, Selmi, vero responsabile dell’ammanco, alla cui superficiale, ma affascinante mercurialità la vita ha sempre sorriso, si suicida

La Sicilia è, nel romanzo, teatro delle prime rivolte proletarie e dell’ascesa del movimento socialista. Quella operaia è tuttavia una ribellione ancora immatura e poco consapevole e anziché a un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori porta ad atroci fatti di sangue, come l’orrido assassinio della moglie del deputato Capolino, Nicoletta e di Aurelio Costa, brillante ingegnere alle dipendenze del Salvo

Membro del Comitato centrale dei Fasci è Lando Laurentano, figlio del principe Ippolito, esponente di spicco di quella che è la nuova generazione, la possibile nuova classe dirigente. Anch’egli è uno sconfitto: sorta di superuomo ambizioso e romantico, pur non condividendo le degenerazioni sanguinarie del movimento è costretto, per sfuggire alla cattura, all’esilio.

Vittima simbolo della disfatta di ideali e di progettualità della nuova società italiana e della deriva violenta assunta dall’anelito di emancipazione delle classi popolari sarà Mauro Mortara, ucciso per sbaglio dalle pallottole dei soldati, mentre intendeva aiutarli a sedare la rivolta.

Romanzo storico che ritrae la crisi dell’Italia postunitaria e il crollo delle speranze  e dei valori risorgimentali, I vecchi e i giovani, pubblicato nel 1913, ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti e a una linea narrativa che va da Verga a De Roberto, è un bel romanzo che si legge con piacere, malgrado il giudizio poco benevolo di gran parte della critica, che rimprovera a Pirandello di scadere in una rappresentazione bozzettistica di tipi e ambienti.
Personalmente mi sono trovato bene in compagnia dei personaggi di Pirandello, la cui psicologia, almeno per quanto riguarda i personaggi principali, non è mai scontata, ma complessa, contraddittoria, ben delineata nella sua caotica ricchezza dal ricorso frequente dell’autore al discorso indiretto libero. In alcuni brani del romanzo emerge con particolare forza la crisi dell’uomo moderno, l’identità complessa e frazionata di ciascuno di noi, l’io diviso, temi che saranno poi sviluppati nelle opere maggiori.

Si tratta di un romanzo con forti valenze sociologiche. Un occhio penetrante, quello di Pirandello, sulle condizioni socioeconomiche dell’isola e dell’Italia. E non vi descrive soltanto i vizi della Sicilia, ma degli italiani in genere. E non solo quelli di ieri: il romanzo sa ergersi a classico capace di parlarci  anche (o soprattutto?) della realtà attuale. E così il lettore contemporaneo può diventare maggiormente cosciente della sostanza e delle cause di alcuni difetti nazionali: l’arrivismo, il piccolo cabotaggio della politica, fatto di meschine trame, la corruzione (“la corruzione era sopportata come un male cronico”), il malgoverno, l’incapacità delle classi dirigenti, sia di destra che di sinistra, le mafie, i gruppi di pressione, l’affarismo, il potere economico che condiziona pesantemente quello politico, il parassitismo, i fessi che lavorano e i furbi che campano agiatamente sul lavoro degli altri. Pirandello fa dire a un suo personaggio:
“Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l’ingegnere e il sorvegliante… Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?…”.

Un affresco composito, corale, ricco di personaggi, che rende quasi indispensabile al lettore tracciarne una sorta di mappa, almeno mentale, per orientarsi. Ma è un incomodo che viene ampiamente ripagato dalla lettura.
Il  paesaggio siciliano è molto ben definito nel romanzo, con il clima e la vegetazione descritti con lirica precisione.

Riguardo allo stile, dialogo e monologo si alternano per rendere più espressiva la narrazione, con il ricorso a una lingua che si approssima elegantemente al parlato, riproducendolo nella struttura sintattica e lessicale.

Se un limite, a mio avviso, va ascritto a I vecchi e i giovani è talvolta l’indulgere di Pirandello al melodrammatico

http://www.interruzioni.com/ivecchieigiovani.htm

E a tutti e tre si rappresentò l’immagine di quella borgata di mare cresciuta in poco tempo a spese della vecchia Girgenti e divenuta ora comune autonomo. Una ventina di casupole prima, là sulla spiaggia, battute dal vento tra la spuma e la rena, con un breve ponitojo da legni sottili, detto ora Molo Vecchio, e un castello a mare, quadrato e fosco dove si tenevano ai lavori forzati i galeotti, quelli che poi, cresciuto il traffico dello zolfo, avevano gettato le due ampie scogliere del nuovo porto, lasciando in mezzo quel piccolo Molo, al quale in grazia della banchina, è stato serbato l’onore di tener la sede della capitaneria del porto e la bianca torre del faro principale. Non potendo allargarsi per l’imminenza d’un altipiano marnoso alle sue spalle, il paese s’è allungato sulla stretta spiaggia, e fino all’orlo di quell’altipiano le case si sono addossate, fitte, oppresse, quasi l’una sull’altra. I depositi di zolfo s’accatastano lungo la spiaggia; e da mane a sera è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolìo senza fine d’uomini scalzi e di bestie, ciattìo di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti, bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d’un treno che attraversa la spiaggia, diretto ora all’una ora all’altra delle due scogliere sempre in riparazione. Oltre il braccio di levante fanno siepe alla spiaggia le spigonare con la vela ammainata a metà su l’albero; a piè delle cataste s’impiantano le stadere su le quali lo zolfo è pesato e quindi caricato su le spalle dei facchini, detti uomini di mare, i quali, scalzi, in calzoni di tela, con un sacco su le spalle rimboccato sulla fronte e attorto dietro la nuca, immergendosi nell’acqua fino all’anca, recano il carico alle spigonare, che poi, sciolta la vela, vanno a scaricar lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto, o fuori.

– Lavoro da schiavi, – disse il Pigna, – che stringe il cuore, certi giorni d’inverno. Schiacciati sotto il carico, con l’acqua fino alle reni. Uomini? Bestie! E se dici loro che potrebbero diventar uomini, aprono la bocca a un riso scemo o t’ingiuriano. Sai perché non si costruiscono le banchine sulle scogliere del nuovo porto, da cui l’imbarco si potrebbe far più presto e comodamente coi carri o i vagoncini? Perché i pezzi grossi del paese sono i proprietarii delle spigonare! E intanto, con tutti i tesori che si ricavano da quel commercio, le fogne sono ancora scoperte sulla spiaggia e la gente muore appestata; con tanto mare lì davanti, manca l’acqua potabile e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne lagna. Pajono tutti pazzi, là, imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e feroce!

– Ma sai che parli bene davvero? – concluse il Prèola, approvando. – Ma sai che ti giovarono sul serio le prediche che sentisti da sagrestano?

– Baibai, baibai, dice l’Inglese! – soggiunse Nocio Pigna, stendendo minacciosamente il lunghissimo braccio.– Trecentomila siamo, caro mio, oggi come oggi. E presto ci sentirete.

Superata l’erta dello stradone, appoggiato di là all’altro versante della vallata, Placido Sciaralla seguitava intanto a trotterellare su Titina per Valsanìa, immerso in nuove e più complicate considerazioni, dopo quelle notizie del Prèola. A un certo punto se ne stancò, scrollò le spalle e si mise a guardare intorno.

Gli si svolgeva ora, a sinistra, la campagna lieta della vicinanza del mare, tutta a mandorli, a olivi e a vigneti. Era già in vista della Seta, casale d’una cinquantina d’abituri allineati sullo stradone, fondachi e taverne per i carrettieri, la maggior parte, da cui esalava un tanfo acuto e acre di mosto, un tepor grasso di letame, e botteghe di maniscalchi, di magnani, di carraj, con una stamberguccia in mezzo, ridotta a chiesuola per le funzioni sacre della domenica. Per schivare la vista di quei borghigiani zotici che lo conoscevano tutti, Sciaralla imboccò un sentieruolo tra i campi e in breve s’internò nelle terre di Valsanìa.

Tranne il vigneto, cura appassionata e orgoglio di Mauro Mortara, e l’antico oliveto saraceno, il mandorleto e alcuni ettari di campo sativo e, giù nell’ampio burrone, l’agrumeto, che costituivano la parte di mezzo riservata a don Cosmo, tutto il resto era ceduto in piccoli lotti a mezzadrìa a poveri contadini, non dal principe don Ippolito direttamente, a cui anche quel fèudo apparteneva, ma da fittavoli di fittavoli, i quali non contenti di vivere in città da signori sulla fatica di quei poveri disgraziati, li vessavano con l’usura più spietata e con un raggiro intricato di patti esosi. L’usura si esercitava sulla semente e su i soccorsi anticipati durante l’annata; l’angheria più iniqua, nei prelevamenti al tempo del raccolto. Dopo aver faticato un anno, il così detto mezzadro si vedeva portar via dall’aja a tumulo a tumulo quasi tutto il raccolto: i tumuli per la semente, i tumuli per la pastura, e questo per la lampada e quello per il campiere e quest’altro per la Madonna Addolorata, e poi per San Francesco di Paola, e per San Calògero, e insomma per quasi tutti i santi del calendario ecclesiastico; sicché talvolta, sì e no, gli restava il solame, cioè quel po’ di grano misto alla paglia e alla polvere, che nella trebbiatura rimaneva sull’aje.

Il sole s’era già levato, e capitan Sciaralla vedeva qua e là, nella distesa delle terre, sprazzar di luce qualche pozza d’acqua piovana o forse qualche piccolo rottame smaltato. Tutta la campagna vaporava, quasi un velo di brina vi tremolasse. Di tratto in tratto, qualche tugurio screpolato e affumicato, che i contadini chiamavano roba, stalla e casa insieme, e usciva da questo la moglie d’uno dei mezzadri per legare all’aperto il porchetto grufolante, e tre, quattro gallinelle la seguivano; innanzi alla porta rossigna e imporrita di quello, un’altra donna pettinava una ragazzetta che piagnucolava; mentre gli uomini, con vecchi aratri primitivi, tirati da una mula stecchita e da un lento asinello che si sfiancava nello sforzo, grattavano a mala pena la terra, dopo quella prim’acquata della notte. Tutta questa povera gente, vedendo passare Sciaralla su la giumenta bianca, sospendeva il lavoro per salutarlo con riverenza, come se passasse il principe in persona. Capitan Sciaralla rispondeva pieno di dignità, alzando la mano al berretto, militarmente, e accoglieva quelle dimostrazioni di rispetto come un anticipato compenso all’umiliazione che andava a patire da quella vecchia bestia feroce del Mortara. Una costernazione tuttavia gli guastava il piacere di quei saluti: tra breve, entrando nei dominii di colui, sarebbe stato assaltato dai cani, da quei tre mastini più feroci del padrone, il quale certo aveva loro insegnato a fargli ogni volta quell’accoglienza. E aveva un bel gridare Sciaralla, mentre quelli gli saltavano addosso, di qua e di là, fino all’altezza di Titina, la quale a sua volta traeva salti da montone, spaventata: Mauro o il curàtolo Vanni di Ninfa si presentavano col loro comodo a richiamarli, quando il malcapitato aveva già veduto più volte la morte con gli occhi.

Con quei tre mastini Mauro Mortara conversava proprio come se fossero creature ragionevoli. Diceva che gli uomini non san capire i cani; ma questi sì, gli uomini. Il male è ­- diceva – che, poveretti, non ce lo sanno esprimere; e noi crediamo che non ci capiscano e non sentano. Sciaralla però se lo spiegava altrimenti, il fenomeno. Quei cani intendevano così bene il padrone, perché questo era più cane di loro. E gli parve d’averne una riprova quella mattina stessa.

Mauro stava innanzi alla villa; e i tre amiconi, vigili attorno, col muso all’aria. Ebbene, all’arrivo di lui, questa volta, essi se ne stettero lì (uno, anzi, sbadigliò), quasi avessero compreso che il padrone avrebbe fatto ottimamente le loro veci.

– Che vuoi tu qua, a quest’ora, mal’ombra? – gli disse infatti Mauro, tirandosi giù dal capo il cappuccio del ruvido cappotto, in cui era avvolto, e scoprendo la testa oppressa dall’enorme berretto villoso.

Quand’era prossima la vendemmia, Mauro Mortara non dormiva più, le notti: stava a guardia della vigna, passeggiando per i lunghi filari, insieme coi tre mastini. Forse se n’era stato all’aperto anche con quella notte da lupi: n’era ben capace!

Sciaralla lo salutò umilmente, poi, indicando i cani, domandò:

– Posso scavalcare?

– Scavalca, – borbottò Mauro. – Che porti?

– Una lettera per don Cosmo, – rispose Sciaralla, smontando dalla giumenta.

E mentre si cercava nella tasca interna del cappotto, si sentiva addosso gli occhi di Mauro pieni d’ira e di scherno.

– Eccola. La manda Sua Eccellenza di gran fretta.

– Sta’ qui, – gl’intimò Mauro, prendendo la lettera. – E bada di non lasciare la giumenta.

Sciaralla sapeva che gli era proibito di salire alla villa, come se, con la sua uniforme, potesse sconsacrare quel vecchiume, quella rozza cascinaccia d’un sol piano: lui che veniva dagli splendori di Colimbètra, dove uno si poteva specchiare anche nei muri! La proibizione non partiva certo da don Cosmo, ma dal Mortara stesso, il quale gli vietava perfino di legare la giumenta agli anelli confitti nell’aggetto della rustica scala a collo. Doveva tener le briglie in mano e star lì in piedi, all’aperto, ad aspettare, quasi fosse venuto per l’elemosina.

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