chi l’ha visto il clavicembalo di Handel ?

Un servo antenato mio no, purtroppo se no me davo na salvata

Il Sassone entrò nella stanza da musica del lussuoso appartamento del duca di Chandos a Londra. Il Sassone. Così lo aveva soprannominato Domenico Scarlatti, il grande virtuoso del clavicembalo, quindici anni prima, ascoltandolo a Venezia. In quell’occasione, il compositore napoletano, allora ventenne, ma già famoso per la straordinaria bravura con la quale suonava gli strumenti a tastiera, aveva assistito a un’esibizione al clavicembalo da parte di un musicista mascherato, un comportamento tipico per l’epoca da parte di chi voleva dare spettacoli di virtuosismo musicale senza essere riconosciuto. Dopo averlo sentito, Scarlatti aveva esclamato: «Non può essere nessun altro che il famoso Sassone, oppure il diavolo».

Il virtuoso mascherato, anch’egli molto giovane in quel frangente, era proprio il «famoso Sassone», com’era stato soprannominato Georg Friedrich Händel, colui che avrebbe rinnovato i fasti della musica operistica del Barocco. Ma il genio di Halle, oltre ad avere ereditato e sviluppato questo genere dal grande Cristoph Willibald Gluck, era appunto anche un eccelso esecutore di musica da camera, in particolar modo del clavicembalo.

A questo strumento Händel dedicò, a partire dal 1704, un numero considerevole di suites, alcune delle quali servirono come vere e proprie lezioni di musica per le tre principessine Anna, Carolina e Luisa, figlie del re Giorgio II d’Inghilterra.

Le Suites per clavicembalo, come scrisse il primo biografo del Sassone, John Mainwaring, «… hanno un solo svantaggio, dovuto intieramente alla specialissima loro eccellenza: la sorprendente pienezza e attività delle parti interne ne aumenta a tal segno le difficoltà d’esecuzione che soltanto poche persone sono capaci di rendere loro giustizia: esse paiono, infatti, racchiudere un lavorio superiore a quello di cui sia capace un solo strumento».

Il pomeriggio del 12 novembre 1720, Händel entrò dunque nella stanza da musica dell’appartamento del duca di Chandos. Abitava in quel patrizio edificio, situato in Albemarle Street, da quasi due anni, non molto lontano dal palazzo reale, dove si recava tre volte la settimana per impartire lezioni di musica e solfeggio alle figlie del sovrano. Venerato e ammirato dalla nobiltà britannica e dallo stesso Giorgio II, il compositore tedesco stava vivendo il periodo più bello e fecondo della sua vita. Le sue composizioni teatrali, dal Rinaldo all’Acis and Galatea, avevano trionfato a Londra, mettendo in ombra quelle dei due “rivali” italiani che, prima del suo arrivo, avevano dettato legge nel mondo dell’opera d’oltre Manica: Attilio Malachia Ariosti e Giovanni Maria Bononcini.

Ma, seppure maestro incontrastato del teatro, il Sassone non disdegnava la musica per tastiera. Le sue dita prodigiose, che univano l’agilità alla «stupefacente pienezza, forza ed energia», citando sempre la testimonianza di Mainwaring, gli permettevano di esprimere una concezione musicale che solo un altro grande tedesco, anch’egli nato nello stesso anno, il 1685, era in grado di equiparare, se non addirittura superare. Quel tedesco, originario di Eisenach, si chiamava Johann Sebastian Bach, ma la sua fama, in quell’epoca, era circoscritta soltanto alla corte di Köthen, dove era in procinto di comporre capolavori come i Sei concerti brandeburghesi e Il clavicembalo ben temperato.

Quel pomeriggio, nonostante Londra fosse già prigioniera di un inverno arrivato con un certo anticipo dall’oceano freddo e ventoso, era riscaldato da un tiepido sole. I raggi avevano invaso la camera, non ostacolati dai tendaggi in seta e velluto trattenuti e annodati dai ganci in ottone posti sui lati delle grandi finestre. Il clavicembalo di Händel, posto nel centro della stanza, appariva ancora più bello e prezioso. Si trattava di uno strumento costruito ad Amburgo qualche anno prima da Christian Zell, un artigiano noto per l’accuratezza e la pazienza con cui creava i suoi celebri clavicembali. Lo strumento era dotato di un doppio registro e i suoi tasti erano stati impreziositi da un tocco di raffinata ostentazione: quelli cromatici erano stati placcati in tartaruga e quelli diatonici in avorio. L’intera cassa armonica era stata finemente dipinta e istoriata con scene bucoliche e vestigia mitologiche.

Solo un compositore ricco e famoso come Händel poteva permettersi il lusso di possedere uno strumento così unico e perfetto.

Il Sassone si sedette davanti alla tastiera e mise sul leggio alcuni fogli di carta pentagrammata che aveva portato con sé. Li sistemò con cura e aprì la copertina pergamenata per mettere in mostra il primo foglio, coperto dalle note trascritte con precisione dalla penna d’oca. Solo poche correzioni, qua e là, interrompevano la grafia minuta e leggera della scrittura. Dopo aver osservato per qualche istante lo spartito, Händel appoggiò le mani sulle tastiere e iniziò a suonare.

Il primo movimento era un Adagio fondato su un basso regolare in crome, riccamente ornato dallo stesso compositore, che precedeva un Allegro in coppia binaria, più vicino alla forma sonata che a quella di variazione, tipica della suite, per via di un embrione di sviluppo tematico. Il terzo movimento, un Adagio arioso, suonato sulla tonalità minore, era stato concepito non solo come elemento transitorio, contravvenendo al modello tradizionale della struttura barocca. Infine, era subentrato l’ultimo tempo, l’Allegro finale. Concepito nella classica forma di fuga, questo movimento, il più bello e originale della composizione, vantava un controsoggetto e un impareggiabile stretto, degno della migliore tradizione contrappuntistica.

Una composizione breve, che durava meno di dieci minuti, ma che riusciva ad esprimere, al di là della semplice funzione propedeutica per la quale era stata creata, un intreccio formale, dove i contenuti tematici si esaltavano vicendevolmente. Il compositore sassone aveva dato molta importanza alla mano sinistra, alle sue anticipazioni tonali, tanto da precorrere i tempi che avrebbero portato, nel primo Ottocento, musicisti come Schubert e Beethoven a esplorare più in profondità i registri e gli accordi gravi della tastiera.

Händel sorrise. Si sentiva soddisfatto, appagato da quel breve, ma intenso, gioiello che aveva composto anni prima, ma che suonava spesso con piacere, quasi volesse tornare ai tempi delle scorribande musicali giovanili quando, avvolto nel mantello e mascherato per non farsi riconoscere, si sedeva davanti al clavicembalo per meravigliare dame e nobili con la sua straordinaria abilità.

I raggi del sole ormai stavano per abbandonare la stanza da musica. Tra poco, James Brydges, conte di Carvarvon e ultimo duca di Chandos, sarebbe tornato dalla sua proprietà di Cannons, dove risiedeva per buona parte dell’anno. Quella sera avrebbe cenato con il Sassone, insieme avrebbero bevuto vino caldo, discutendo di musica e dei teatri alla moda di Londra.

Händel si alzò, aprì l’ampia finestra che dava sulla strada e, dopo aver guardato ancora una volta il suo clavicembalo, a brevi passi lasciò la stanza.

Sul leggio rimasero i fogli di quella composizione. Un colpo di vento, entrato prepotentemente nella camera, fece oscillare lentamente il lampadario e chiuse, come una mano invisibile, la copertina pergamenata del manoscritto. Con grafia sicura e a belle lettere svolazzanti, ricamate nel nero dell’inchiostro, c’era scritto in francese il titolo di quella musica: Suite de Pièce pour le Clavecin. Per l’esattezza, si trattava della numero 2, in fa maggiore.

Il lettore non si arrovelli ora il cervello per sapere se, quanto ha letto finora appartenga al vero o al falso. Per aiutarlo, dirò subito che si tratta solo di pura fantasia, anche se le date, i nomi e i fatti, che vi attengono, sono veritieri, come la storia della musica ci insegna. Ho semplicemente cercato di raffigurare una scena che immaginai fin dalla prima volta che ascoltai la Suite n. 2 in fa maggiore, un piccolo capolavoro tra le composizioni del genio di Halle. Senza alcun dubbio, un gioiello cameristico del Barocco.

Eppure, questo genere di composizioni per clavicembalo non appartiene di certo al grande repertorio del musicista tedesco. Anzi, se le Suites del Sassone (che ammontano a otto nella prima e nella seconda serie, più alcune altre composizioni, sicuramente più spurie, riunite in una terza raccolta di nessuna importanza, al punto che non si sa nemmeno ancora adesso se il compositore tedesco sia il loro vero autore) vengono considerate separatamente dal resto del corpus händeliano, la loro fama ed esecuzione s’intiepidiscono inevitabilmente di fronte alle altre sue opere.

In breve, chiunque abbia una pur minima conoscenza e familiarità con la musica di Händel, si rende ben presto conto che esiste, infatti, una discrepanza all’interno della sua produzione musicale. I perché di questa differenziazione sono diversi e quasi tutti, lo dico chiaramente, non giustificati.

La prima motivazione, quella che appare più evidente, è che il nome di Händel viene sempre associato alle musiche d’insieme, alle opere, agli oratori, ai Concerti grossi. Tutte composizioni di grandi o medie proporzioni, ormai entrate di diritto nella storia della musica occidentale e che hanno fatto la fortuna e, paradossalmente, anche, in un certo senso, la sfortuna del musicista di Halle. Sì, perché se, da una parte, tanto per fare un esempio, il Messiah e Acis and Galatea, tra le opere vocali e operistiche, e la Water Music e la Music for the Royal Fireworks, tra quelle strumentali, sono universalmente note e acclamate dal pubblico di tutto il mondo, dall’altra, le composizioni cameristiche e soprattutto quelle per un solo strumento, come le Suites per clavicembalo, appaiono senz’altro più emarginate, esiliate tra gli interessi di pochi e coraggiosi estimatori.

Sia ben chiaro, però, che il caso di Händel non è il solo nel panorama della musica barocca. Altri grandissimi compositori, tra gli altri Purcell e Telemann, hanno subìto lo stesso destino. Entrambi autori di notevolissime pagine per clavicembalo, si sono visti defraudare, dopo la morte, questa loro eccelsa parte compositiva da una certa tradizione musicale e dal volere del pubblico, a vantaggio delle opere orchestrali, vocali e operistiche. All’opposto, invece, un musicista come Domenico Scarlatti è conosciuto quasi unicamente per le sue 555 sonate per clavicembalo (ma il numero è destinato inevitabilmente a salire, grazie alla occasionale scoperta di manoscritti e spartiti inediti nelle biblioteche e nei conservatori di tutta Europa), mentre le composizioni melodrammatiche vengono candidamente dimenticate, anche per il fatto che solo due di esse, Telide in Sciro e Narciso, sono giunte fino a noi nella loro interezza.

Questi spostamenti di rotta, nella storia del gusto e delle preferenze musicali, hanno così portato ad instaurare una suddivisione del tutto arbitraria e scorretta tra le cosiddette composizioni di Serie A e quelle, invece, che vengono costantemente tenute nel “purgatorio” della Serie B. Sulla base di questa iniqua tradizione, non si potrebbe comprendere, altrimenti, perché un compositore come Chopin venga ricordato e osannato unicamente per la produzione pianistica da camera, e i suoi due concerti per pianoforte e orchestra (ancora oggi!) vengano sistematicamente e frettolosamente allineati tra le cosiddette opere giovanili, e caratterizzati unicamente da un più che evidente virtuosismo radicato nel ruolo dello strumento solista, complice anche un’indubbia elementarità dell’accompagnamento orchestrale.

Tornando a Händel, si può tentare di comprendere, ma non per questo di accettare, come le sue Suites per clavicembalo non siano state studiate, eseguite e considerate correttamente per ciò che rappresentano: sono opere, d’accordo, in parte di puro intrattenimento o di carattere didattico, altre rielaborate su temi improvvisati e altre ancora (un numero decisamente inferiore) più tendenti a sfidare, per stile e novità, quelle leggi e quei canoni clavicembalistici, tipici dell’epoca del Sassone.

Queste differenze d’intenti, poi, si accentuano notevolmente se le Suites di Händel vengono confrontate con quelle composte da Johann Sebastian Bach. Un tipico e annoso errore che, invece di chiarire e focalizzare il valore delle composizioni del musicista di Halle, non ha fatto altro che scavare un altro fossato tra l’esegesi interpretativa e la fama di queste composizioni.

Confrontare, infatti, le opere clavicembalistiche di Händel con quelle di Bach non porta da nessuna parte. Questo perché le composizioni per tastiera (für Clavier) del genio di Eisenach appaiono, in generale, non solo giustamente più “meditate”, più scientificamente lavorate e perfezionate rispetto a quelle di Händel, ma rappresentano, dopo le Cantate e le musiche per organo, il corpus più sostanzioso di tutta la produzione bachiana.

Di fronte all’oceano clavicembalistico del genio di Eisenach, certamente le accuse di improvvisazione e mancanza di omogeneità, presenti nelle lacustri Suites di Händel, possono essere condivise, a patto, però, che si abbia ben presente l’enorme differenza di scopi che è esistita, su questo punto, tra il Sassone e Johann Sebastian Bach.

Quindi, non bisogna essere fin troppo categorici e denigratori nei confronti di Händel quando si considera con perplessità l’aspetto estremamente “improvvisatorio” delle sue Suites. Senza ombra di dubbio, la sua visione clavicembalistica era improntata alla mondanità, all’intrattenimento nell’alta società del tempo, ad una funzione privata (la cosiddetta Hausmusik), all’abbellimento subitaneo per stupire gli ascoltatori. A tale proposito, si conosce perfettamente la grande impressione che ebbe sui contemporanei il suono prodotto da Händel sulla tastiera.

Ecco perché si ha la quasi certezza che queste composizioni siano state scritte di getto sul pentagramma, come semplici ispirazioni passeggere “catturate” e trascritte da un maestro improvvisatore. Al contrario, la produzione clavicembalistica di Bach può dare adito a qualsiasi interpretazione, tranne quella di essere mondana, nell’accezione squisitamente heideggeriana del termine, come una musica da eseguire nei salotti patrizi e con finalità di puro divertissement.

Lungi da determinati accostamenti e paragoni, dunque. Non solo, ma la netta diversità tra l’opera per tastiera di Bach e quella di Händel si avverte anche dal tipo di reazioni che si ebbero a quell’epoca. A differenza del genio di Eisenach, non molto conosciuto a quel tempo, se non nei territori di Weimar e Köthen, il musicista di Halle dovette fare i conti, proprio per la fama d’intrattenimento delle sue Suites, con gli editori truffaldini di mezza Europa che stamparono e misero in vendita copie pirata delle sue composizioni. A scanso di equivoci, a questo proposito, c’è da precisare un punto.

A quei tempi il concetto di copyright non solo non veniva mai rispettato, ma era addirittura inesistente, anche perché leggi ed editti reali, per difendere gli interessi dei musicisti, non esistevano quasi affatto, permettendo in questo modo a editori senza scrupoli di stampare spartiti e partiture del tutto arbitrarie, modificate e contraffatte, rispetto ai manoscritti originali dei compositori. Di fronte a questi atti di vero e proprio sopruso, i musicisti riuscivano a fare poco o nulla. Una scappatoia poteva essere rappresentata, ma assai raramente per via degli altissimi costi, dalla decisione di dare personalmente alle stampe una versione definitiva, prefata dal musicista stesso che dichiarava tali copie fedeli all’originale e che, allo stesso tempo, avvertiva della presenza in commercio di altre edizioni del tutto falsificate, anche se apparivano con il suo nome.

È proprio quanto fece il musicista di Halle con la prima serie delle Suites per clavicembalo. Händel (personalmente preferisco scrivere il nome ancora con la grafia tedesca rispetto a quella inglese senza Umlaut sulla a), stanco dei tanti atti di pirateria di cui era vittima, fece dunque pubblicare le prime otto Suites, per conto del suo fedele amico e segretario Johann Christoph Schmidt (conosciuto anche con il nome di John Christopher Smith nella grafia inglese), dall’editore Cluer a Londra, il 14 novembre 1720. In veste di prefatore, Händel volle scrivere queste parole: «A causa della diffusione di alcune mie Lessons [con questo termine inglese il Sassone definiva le sue Suites, N.d.A.] sotto forma di copie non autorizzate e imprecise, mi sono visto costretto a pubblicarle ufficialmente. A queste ne ho aggiunte altre al fine di accrescere l’utilità dell’opera e di incontrare il favore del pubblico. In futuro procederò a ulteriori pubblicazioni, giacché stimo mio dovere servire col mio piccolo talento una nazione da cui ho ricevuto una sì generosa protezione».

Sicuramente, la goccia che fece traboccare il vaso e infuriare il musicista di Halle, al punto di costringerlo a pubblicare ufficialmente, con tanto di “diffida”, la prima serie delle sue Suites, fu causata dalla famosa edizione clandestina preparata dall’editore Jean Roger ad Amsterdam nel 1719. Non bisogna però dimenticare che Händel fu aiutato moltissimo, in questa decisione, anche dalla concessione del regio diritto, da parte di re Giorgio II, di pubblicare la sua musica per quattordici anni, avvenuta nello stesso 1720. Un prezioso avallo, dunque, un’altissima protezione che lo mise al sicuro dai continui attacchi da parte della pirateria editoriale.

A parte queste dispute di stampa e di fedeltà alle partiture originali (proprio l’edizione approntata da Roger vedeva interi tempi completamente stravolti), resta il fatto che la critica, ringalluzzita e spronata dal carattere “leggero” e improvvisato delle Suites, abbia portato inevitabilmente a lesinare analisi e interventi particolareggiati su queste composizioni di Händel.

Per comprendere ciò, basterà consultare due delle maggiori biografie (entrambe tradotte in italiano) dedicate all’autore del Messiah, quella “filologica” di Christopher Hogwood (più di 450 pagine) e quella più classica di Paul Henry Lang (di ben 850 pagine) per scoprire che alle Suites per clavicembalo vengono dedicate, rispettivamente, due e cinque pagine. Senza dubbio, un bottino alquanto miserrimo di fronte alla ponderatezza dei suddetti studi.

L’immagine e la funzione improvvisativa e propedeutica di queste composizioni, sulle quali non si esercitarono solo le figlie del sovrano inglese, ma anche tale George Monroe, paggio del duca di Chandos, che divenne in seguito organista a Londra, non devono però trarre in inganno. Anche se devono essere considerate musiche “d’esercizio” (anche Bach, nella sua illuminante umiltà, definì tante sue composizioni, tra le quali le Goldberg Variationen, con l’espressione di Clavier Übungen, “Esercizi per tastiera”), si deve rammentare che il loro incedere da un’idea e il relativo sviluppo, la ricerca introspettiva del tessuto melodico sorretta da una più che notevole ambientazione armonica, l’elaborante diteggiatura preposta alla padronanza della tastiera furono tutti compiti che Händel perseguì con passione e dedizione. Come accadde per Bach, tali esercizi didattici si tramutarono in “esercizi” di epoca, “lezioni” di arte, attraverso le quali, nel loro genere, nulla poteva essere più eguale a prima. Stille di genialità, scevre della propria consapevolezza.

Nella prima serie di Suites del compositore di Halle, è interessante notare come quelle pubblicate da Cluer rispettino, come d’altronde in Bach, un preciso contrasto nello schema tonale: la maggiore, fa maggiore, re minore, mi minore, mi maggiore, fa diesis minore, sol minore e fa minore. Questo contrasto, al di là del compito pedagogico, permetteva di esaltare al meglio l’inconfondibile sonorità, che si ottiene soprattutto nelle interpretazioni per pianoforte. Certo, come si è già detto, quasi tutte le Suites non sono omogenee nella brillantezza e nell’originalità dei temi, ma quelle poche sono più che sufficienti per essere considerate con la dovuta attenzione.

Questo perché Händel, conscio ormai che le canoniche impostazioni dei tempi voluti dai clavicembalisti tedeschi del nord, Johann Jacob Froberger su tutti, con la disposizione, dei tempi di danza, in allemanda, corrente, sarabanda e giga avevano fatto il loro tempo, volle applicare alcune novità apportate dall’inizio del XVIII secolo, affiancandole con la sonata, la fuga, la toccata e le variazioni.

Questo mélange si comprende meglio se si osserva che le Suites n.1 e n.4 sono formate da tempi di danza preceduti da un preludio, la n.3, la n.5, la n.7 e la n.8 hanno tempi misti, la n.6 ha un unico tempo di danza e la n.2 consiste semplicemente (ma fino ad un certo punto) in un Adagio – Allegro – Adagio – Allegro, quindi nella classica forma sonata.

Probabilmente è proprio questa la Suite che concretizza meglio la sintesi fra la tecnica e la fantasia ornamentale. Assai breve, poco meno di dieci minuti per la versione al clavicembalo, poco di più per quella al pianoforte, rappresenta, per la sua innegabile bellezza, unita alla ricerca di una grandissima sensibilità espositiva, una pagina essenziale di tutta la musica per tastiera del Barocco.

È interessante, a questo punto, vagliare alcune interpretazioni, sia per clavicembalo sia per pianoforte, per rendersi conto come questa Suite abbia indubbiamente accentrato la volontà di approfondimento e di ricerca in coloro che l’hanno affrontata sulla tastiera.

Per quanto riguarda il clavicembalo, un riferimento d’obbligo è senz’altro quello dato dalla mitica musicista polacca Wanda Landowska che ha registrato la Suite n.2 nel febbraio 1935. Utilizzando un clavicembalo costruito nello scorso secolo, il famoso Pleyel, la grande interprete ha dato un saggio della sua altissima tecnica. La prodigiosa capacità di staccare la nota sul tasto, détacher, come dicono i francesi, non si nota solo nei movimenti lenti, dove il tempo di rilascio permette una maggiore precisione, ma è presente in modo netto, anche per chi non è abituato al suono del clavicembalo, nei tempi più veloci, soprattutto nel primo Allegro.

I puristi di questo strumento non hanno mai perdonato alla Landowska di aver “tradito” le istanze e le regole del clavicembalo con un esemplare costruito seguendo concezioni nettamente moderne. Indubbiamente, questo Pleyel aveva un notevole suono, un numero consistente di registri comandati a pedale e incalcolabili possibilità coloristiche.

Molti colleghi della musicista polacca hanno affermato più volte (con una notevole dose di malignità) che Wanda Landowska era passata al clavicembalo perché non sapeva suonare il pianoforte. Gli adepti del clavicembalo, a loro volta, le hanno sempre rimproverato di suonare questo strumento come un pianoforte. Sta di fatto, che con lei il clavicembalo ha avuto nuova fortuna nel ventesimo secolo, al punto che due compositori come De Falla e Poulenc scrissero appositamente per lei e per il suo strumento.

L’inglese Colin Tilney nel 1973 ha registrato a Berlino la prima serie delle Suites di Händel. Lo strumento originale impiegato fu costruito da Johannes Christian Fleischer, uno dei maggiori liutai tedeschi dell’epoca, nel 1710. Questo clavicembalo, dall’inconfondibile forma inglese, ha un solo registro e il suono che ne risulta è assai cristallino, anche grazie ai lavori di restauro effettuati nel 1971 nel laboratorio del Museo degli strumenti a Berlino.

L’interpretazione di Tilney, nei limiti del confronto, è sicuramente quella che rispecchia la “fedeltà” contemporanea della filosofia clavicembalistica. Soprattutto nel primo movimento, con il bellissimo Adagio introduttivo (che, non per nulla, questa volta sì, è stato accostato degnamente e giustamente al lento del Concerto Italiano di Bach), l’eloquenza del tocco rispetta le dinamiche che, presumibilmente, venivano adottate ai tempi di Händel. Anche l’Allegro movimentato che segue, piuttosto simile alle sezioni solistiche di un concerto senza il ritornello orchestrale, rivela il chiaro influsso della scuola italiana dell’epoca. Il successivo Arioso (Adagio) più che rispettare le consuetudini di allora, dove veniva impiegato come movimento di “transizione”, rivela un pathos che Tilney mette in evidenza con una diteggiatura assai scandita, penetrante, che già anticipa l’irruzione dell’Allegro finale, una fuga a dir poco straordinaria nella sua essenzialità (poco meno di tre minuti). È interessante notare, a questo punto, come Händel, a differenza di Bach, invece di utilizzare solo tre parti (rispettando in tal modo i canoni del tempo), ne abbia aggiunta addirittura una quarta, seppure mantenuta solo per qualche battuta. Attenzione, però, a non lasciarsi sviare semplicemente dall’elemento virtuosistico: questo fugato rifugge la convenzionalità dei movimenti coevi per ribadire un’originalità e una brillantezza tali da lasciare l’ascoltatore stupefatto.

Nel 1972 anche Glenn Gould, uno dei pianisti più originali e controversi di tutto il Novecento, decise di registrare le prime quattro Suites di Händel non al pianoforte, ma proprio al clavicembalo. Una decisione che aleggiava nell’aria da ben dieci anni, visto che già nel 1962 il musicista canadese aveva tentato di preparare con delle punte d’acciaio uno dei suoi pianoforti a coda da concerto, ottenendo in questo modo uno stranissimo “incrocio” di strumento, da lui definito con il termine di “Harpsipiano”, che si potrebbe tradurre arditamente in italiano con “cembalpiano”. Con questo pianoforte “elaborato”, Gould eseguì nello stesso anno il quarto contrappunto dall’Arte della Fuga di Bach e altre musiche dello stesso compositore.

Non solo, ma in quello stesso periodo, il pianista canadese prese in seria considerazione l’idea di registrare il Clavicembalo ben temperato di Bach proprio su quel “cembalpiano”. Questa decisione che, ovviamente, fece rizzare i capelli dei puristi, prese spunto dal fatto che il modo di suonare “non legato” di Gould si avvicinava più al timbro del clavicembalo che a quello del pianoforte. «Il pianoforte non ha la benché minima ragione di voler suonare come un pianoforte… », ripeteva spesso il musicista canadese.

Ma quando Gould decise di registrare le prime quattro Suites di Händel, non impiegò né il pianoforte, né il tanto decantato “cembalpiano”. Volle inciderle, invece, su un vero e proprio clavicembalo. Il problema, però, era che il pianista non possedeva questo strumento. Ma pur avendo un certo numero di ottimi clavicembali originali che università, musei degli strumenti e privati avrebbero potuto mettergli tranquillamente a disposizione, Gould dirottò per una delle sue famose ed eccentriche decisioni: suonare su un Wittmayer, che tutti i patiti clavicembalisti avevano sempre guardato con diffidenza, se non addirittura con orrore.

Questo strumento, che Gould ottenne in prestito da un anonimo maestro di coro di Toronto, il quale lo teneva in casa solo per diletto, in effetti non aveva molto del classico clavicembalo. Il suo tocco, e soprattutto la grandezza dei suoi tasti, erano più vicini a quelli di un pianoforte. Le sue dimensioni, inoltre, erano più o meno quelle di un piano a mezza coda.

Fu dunque su questo strumento che il musicista canadese registrò le prime quattro Suites di Händel (tra cui, appunto, la n.2). Secondo le intenzioni di Gould, dopo questa prima incisione, egli avrebbe proseguito nella realizzazione di tutte le altre Suites, ma le stroncature da parte dei critici e del pubblico sul primo lavoro, lo fecero in seguito desistere da tale proposito.

In effetti, ascoltando la Suite in fa maggiore eseguita dal pianista canadese si resta alquanto allibiti. L’Adagio introduttivo viene addirittura “arpeggiato” in modo estremamente secco, détaché all’inverosimile, su un tessuto che non può essere più divisionistico di così. Di fronte a una simile decisione interpretativa, si può effettivamente intuire come reagirono gli addetti ai lavori e gli appassionati, quando lo ascoltarono per la prima volta. Il secondo tempo, al contrario, viene sparato da Gould a tutta velocità (un minuto e 25 secondi di durata!), che fa capire perché il musicista abbia scelto un Wittmayer per questa registrazione. Sui tasti di un normale clavicembalo sarebbe stato impossibile eseguire una simile diteggiatura. Il successivo Adagio viene ripreso ancora in termini più lenti, dove il tocco è assai pronunciato e persistente, tale da creare spazi molto estesi, decisamente fin troppo anche per un’interpretazione al clavicembalo. La fuga conclusiva, sicuramente il tempo più riuscito di questa esecuzione, mette in risalto la genialità di Händel e la chiave di lettura che Gould dava a questo tipo di composizioni.

Se, quando suonava il pianoforte, il musicista canadese immaginava di non trovarsi di fronte a questo tipo di strumento, con il clavicembalo o, meglio, con il Wittmayer, si è comportato nello stesso modo. Per esaltare l’estrema dinamica del fugato, Gould ha ignorato completamente il cosiddetto riposo della linea di battuta, cioè attendere il totale rilascio del tasto prima di iniziare la nota successiva, consacrando l’intero movimento al rubato, senza però, e qui è stata la sua indubbia bravura, arrivare a una sorta di legato (a dir poco inconcepibile per un clavicembalo).

Ovviamente, anche il pianoforte ha avuto modo di esaltare le Suites di Händel. Nel 1979, Sviatoslav Richter ha registrato alcune di queste composizioni, compresa la n.2. Se il clavicembalo aveva messo in luce il tessuto delle Suites, il pianoforte ha messo soprattutto in rilievo la melodia.

È proprio quanto ha fatto nella sua esecuzione il grande pianista russo. In questa interpretazione, Richter ha voluto dare indubbiamente un’impronta vicina al gusto romantico, con un impianto naturalmente legato, l’uso abbondante di registri e una struttura timbrica assai marcata.

Non è questa la sede opportuna per discutere e stabilire la liceità di questo tipo di interpretazioni (personalmente non sono un seguace inflessibile delle registrazioni cosiddette “filologiche”), ma resta il fatto che Richter e moltissimi altri musicisti hanno indubbiamente convogliato e stimolato l’ascolto della musica barocca verso nuove dimensioni ed esplorazioni. Non si deve dimenticare, infatti, che fino a poco più di cinquant’anni fa le composizioni di quel periodo, principalmente le opere di Bach, venivano quasi esclusivamente eseguite al clavicembalo e i pochi epigoni del pianoforte venivano guardati con sospetto, per non dire di peggio.

Un caso interessante, per tornare ai nostri giorni, per quanto concerne le interpretazioni delle Suites di Händel, è rappresentato dalla registrazione effettuata da Keith Jarrett, un musicista tra i più famosi nel mondo del jazz, noto anche per le sue escursioni nel campo della musica colta.

Jarrett ha messo in risalto il calore e la ricchezza del tessuto musicale delle Suites attraverso la scelta del pianoforte perché, come ha asserito lui stesso, questo strumento ha il merito di semplificare e di esprimere al meglio quelle sfumature timbriche che, altrimenti, si perderebbero inevitabilmente con il clavicembalo. Un altro punto importante è che il musicista americano ha voluto “mediare” l’aspetto musicologico di queste composizioni con quello musicale. Ciò significa che l’esecuzione non è stata penalizzata dallo studio e da un’eccessiva ricerca, dall’esasperante sistematizzazione della stessa interpretazione, che molte volte tende inevitabilmente ad appesantirla, ma è stata felicemente mutuata da un raffinatissimo ésprit che Jarrett ha voluto inserire nella dimensione ermeneutica della registrazione.

Questo fatto si evince indubbiamente dall’ascolto. Ciò che stupisce è la straordinaria fluidità della diteggiatura di Jarrett, facilitato dalla capacità di improvvisare (tipico delle jam sessions jazzistiche). Il suono ottenuto risulta estremamente pulito, senza slanci inutili (anche se possono sembrare di maggiore effetto) e la quasi mancanza di uso dei registri fa sì che l’intera esecuzione risulti pacata, assorbita completamente in se stessa e priva di qualsiasi sbilanciamento. Questa asciuttezza può non piacere ovviamente a coloro che prediligono la versione più “pianistica” di Richter.

Eppure l’equilibrio che Jarrett ha raggiunto con la sua interpretazione è quasi del tutto assente nelle altre esecuzioni, sia con il clavicembalo sia con il pianoforte. Il fatto è che il musicista statunitense ha saputo suonare il pianoforte pensando al clavicembalo e non trasformandolo, come invece ha fatto, per esempio, Gould. In termini filosofici, si potrebbe asserire che Keith Jarrett ha risolto il “dualismo”, dato dall’ambivalenza dei due strumenti, con un “monismo” che ha racchiuso ed espresso entrambi in una brillante visione musicale. Insomma, usando un’ardita parafrasi, se la maggior parte dei musicisti aveva affrontato le Suites con uno spirito “spinoziano”, il musicista americano l’ha risolto in modo “leibniziano”.

Giunti a questo punto, il lettore magari vorrà sapere che cosa ne fu del bellissimo clavicembalo di Händel. È stato lo stesso Sassone a svelarlo nove anni prima della sua morte, avvenuta a Londra nel 1759. Nel suo testamento, redatto olograficamente, volle scrivere queste parole:

Nel nome di Dio Amen, Io George Friedric Handel, vista e considerata la precarietà del vivere dispongo nel seguente modo: Faccio dono al mio fidato servitore Peter le Blond dei vestiti, della biancheria e di tremila sterline, ed agli altri servi di un anno di paga. Faccio altresì dono a Mr. Christopher del mio grosso clavicembalo e del piccolo organo di casa, insieme con i libri di musica e cinquemila sterline. Quindi lascio al signor Jones Hunter le rimanenti cinquemila sterline.

G. F. Handel

Quello che ne fece poi il signor Christopher, amico fraterno e segretario del musicista tedesco, non ci è mai stato dato modo di sapere.

Andrea Bedetti

http://classicvillage.net/sinfonica/76-la-musica-di-esercizio-di-haendel.html?showall=1

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