Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro dei contadini

 

Pubblichiamo un’intervista di Giuliano Battiston a Silvia-Pérez Vitoria, economista, sociologa e documentarista,  uscita sul numero di marzo della rivista «Lo Straniero».

di Giuliano Battiston

Un “tentativo di rivisitare la storia e il ruolo della classe contadina nelle nostre società”. Questo, secondo le parole dell’economista e sociologa Silvia Pérez-Vitoria, documentarista e già curatrice di Disfare lo sviluppo per rifare il mondo (Jaca Book 2005), l’intento principale di Il ritorno dei contadini (Jaca Book 2009), un libro di qualche anno fa che era un invito appassionato a riflettere sugli effetti devastanti del modello dell’agricoltura industriale in un pianeta dalle risorse limitate. Un modello espansionistico, ottusamente produttivista, che ci ha condotto “in un vicolo cieco: economico, sociale, ambientale, politico, ecologico”. E al quale si può rispondere facendo affidamento alle pratiche e ai saperi di quei milioni di contadini che “non vogliono scomparire”, e che, “anzi, alzano la voce e intendono far conoscere il loro punto di vista sulla società”. Coordinatrice delle attività de “La Ligne d’Horizon”, l’associazione ispirata al pensiero di François Partant, Silvia Pérez-Vitoria in La risposta dei contadini (Jaca Book 2011, pp. 240, euro 20, trad. di Marco Pellitteri) è tornata a occuparsi di quelle pratiche e saperi “‘occultati’ da un sapere scientifico pervertito dalla rincorsa alla redditività e al profitto”, oggi più che mai “indispensabili per riparare ai danni prodotti da uno sviluppo agricolo devastante” e per attuare un vero cambio di paradigma, “una maniera diversa di considerare l’evoluzione della nostra società”. Non si tratta di “fare dell’agricoltura contadina la soluzione a tutti i problemi del pianeta”, precisa Silvia Pérez-Vitoria, ma di notare che intorno “ai valori che essa continua a veicolare c’è un enorme serbatoio di ‘possibilità’ dalle quali gli altri settori della società hanno molto da imparare”. Abbiamo intervistato Silvia Pérez-Vitoria per discutere del suo lavoro.

Partiamo dalla terra, una questione che, scrive in Il ritorno dei contadini, “è stata e rimane centrale”. Riprendendo quanto sostiene Karl Polanyi, secondo il quale “la funzione economica è solo una delle numerose funzioni vitali della terra”, lei insiste molto sulla funzione sociale e sui modi d’uso della terra. E afferma che “bisogna ridare alla terra tutte le sue dimensioni”. Ci spiega meglio cosa intende?

La terra rappresenta il fondamento stesso dell’agricoltura, e se intendiamo restituirle tutte le sue dimensioni non possiamo considerarla come un mero “fattore di produzione”. Si tratta infatti di un territorio sul quale vivono le persone, e per il quale alcuni hanno donato la propria vita. Inoltre, presenta determinate caratteristiche, in particolare sul piano ecologico, che non possono essere conservate se non attraverso specifiche pratiche culturali. È per questo che credo che allo slogan che recita “la terra a chi la lavora” andrebbe aggiunto “e a chi permette di conservarla”. Da questo punto di vista l’agricoltura industriale è particolarmente distruttiva perché, a causa delle monocolture e dei metodi intensivi (macchinari, fertilizzanti chimici, irrigazione) contribuisce a denutrire, inquinare e violare i suoli. L’accaparramento di terre a cui si assiste attualmente pone la società davanti a una scelta: cosa vogliamo farne delle terre agricole? Dobbiamo lasciarle nelle mani di chi contribuisce a distruggerle o fare in modo che ne dispongano coloro per i quali l’agricoltura è un modo di vita?

I fenomeni di concentrazione della terra, il land grabbing e l’ingresso di grandi aziende multinazionali sul mercato fondiario si accompagnano a un ampio processo di  privatizzazione delle “risorse naturali e genetiche”, che passa per le clausole legate alla proprietà intellettuale. Perché ritiene che i brevetti sul vivente “costituiscono una delle più grandi minacce che gravano sulla capacità di sopravvivenza” del nostro pianeta? 

La biodiversità in un certo senso è “l’assicurazione sulla vita” delle nostre società. È grazie alla varietà delle piante e delle specie animali che abbiamo potuto rispondere alle malattie e alla scarsità di risorse. Lungo tutto il corso della loro storia, sono stati proprio i contadini e le contadine a moltiplicare questa ricchezza, ampiamente circolata nel mondo. La privatizzazione che passa per i brevetti e la classificazione delle risorse naturali si traduce invece nel tentativo di alcuni grandi marchi multinazionali di ottenere il controllo della nostra alimentazione. Decidendo quel che potrà essere seminato e quel che non potrà esserlo. Il cibo in questo senso è senza dubbio una risorsa ancora più strategica delle armi, perché ci nutriamo ogni giorno. È per questo che per la sopravvivenza dell’umanità è così importante il lavoro per la ricostituzione delle riserve di sementi, svolto dai contadini di tutto il mondo, spesso ai margini della legalità.

Nella sua analisi, al rapporto commerciale con le conoscenze si contrappongono le pratiche culturali e di coltivazione dei contadini, le cui conoscenze sono state sminuite “per portare a buon fine la modernizzazione dell’agricoltura”. In un saggio pubblicato in Il cosmo infelice (Cooperativa L’altrapagina 2009) suggerisce inoltre di guardare ai “giacimenti di sapere” totalmente marginalizzati dai pensieri scientifici dominanti. Significa che per attuare quella “fuga dallo sviluppo” che lei auspica dovremmo interrogarci sulle ragioni e sui rimedi all’epistemicidio compiuto ai danni delle conoscenze contadine?

Nel corso dei secoli i contadini hanno sviluppato dei saperi e dei saper-fare di grandissima rilevanza, particolarmente adatti alle condizioni nelle quali vivevano. La modernizzazione agricola ha “ricoperto” tali saperi di una “scienza” a vocazione “universalista”. L’agronomia e le politiche di sviluppo si sono edificate proprio sul non-riconoscimento di questi saperi, a volte con delle conseguenze disastrose. Quanti lavorano a contatto con i contadini diventano invece sempre più consapevoli che questi “giacimenti di  conoscenze” sono indispensabili per rispondere al cambiamento climatico, per restituire ricchezza ai suoli, etc. La filosofia che è alla base delle relazioni tra i contadini e la Natura infatti è molto diversa da quella della modernità, caratterizzata da rapporti di dominazione. E ci invita a riflettere sul nostro rapporto con il mondo e con lo sviluppo.

A proposito di sviluppo: in La risposta dei contadini lei sostiene che i contadini sono la forza motrice di una trasformazione che dai campi agricoli investe l’intera struttura della società e, con essa, il modo in cui ne intendiamo l’evoluzione. In che senso le proposte avanzate dai contadini “vanno molto al di là di una semplice messa in discussione del modello agricolo vigente”, e sollecitano invece “un’interrogazione generale sulle società nelle quali viviamo”, sulle ideologie dello sviluppo, del progresso, della scienza, dell’economia e della produttività?

L’ideologia dello sviluppo imposta alle nostre società, qualunque fosse il colore politico del regime al potere (socialista o capitalista), ha sempre considerato i contadini alla stregua di vestigia del passato, di cui limitare il numero, da trasformare in coltivatori agricoli o a cui insegnare a “modernizzarsi”. Tanto che oggi nessun paese, neanche quelli con un’ampia percentuale di contadini, accorda priorità all’agricoltura contadina. Tuttavia, i limiti del sistema attuale sono sempre più evidenti: aumento delle disuguaglianze, minacce agli equilibri ecologici, e via dicendo. Come ci ripete di continuo ogni discorso pubblicitario, politico e intellettuale, tutto il mondo aspirerebbe al comfort moderno, garanzia di felicità per l’umanità. Questa “monocultura dello spirito” mi sembra un’infinita fuga in avanti che ha consentito di giustificare tutti i “progressi” tecnologici, anche se pericolosi (penso ad esempio agli Ogm, ma si potrebbe parlare anche delle nanotecnologie o della biologia di sintesi) e una valorizzazione senza fine di una scienza onnipotente, che non è sottomessa ad alcun dibattito democratico. In un periodo in cui tutta una serie di “evidenze” non sono più tali, vale la pena interrogarsi e riconsiderare la questione contadina come centrale, non più marginale. Per esempio, non è così evidente che la natura sia innanzitutto una risorsa economica da sfruttare (c’è chi parla di “capitale naturale”). Per l’agricoltura contadina e ancor più per i popoli autoctoni la terra, le piante e gli animali fanno parte infatti di un modo di vivere, non sono dei semplici elementi economici. Per esempio, non è così evidente che la competitività sia il “motore” delle società, a scapito della solidarietà e della complementarietà. Potremmo moltiplicare gli esempi dei “valori” che abbiamo trascurato e che potrebbero tornarci utili, così come potrebbero esserlo – per affrontare lo squilibrio ecologico in corso – le varietà di piante che l’agricoltura industriale ha contribuito a distruggere.

 Lei ci invita a scegliere tra l’ideologia dello sviluppo, che porta con sé “l’idea che le agricolture contadine non siano sufficientemente produttive e che sia necessario ammodernarle”, e un insieme di saperi e saper-fare, quelli contadini appunto, che denunciano la stessa “nozione di ‘direzionalità’ insita  nel concetto di sviluppo, secondo la quale tutte le società del mondo dovrebbero seguire il medesimo destino e procedere verso un traguardo comune”. Crede che la triplice crisi che attraversiamo, economica, sociale e ambientale, sia un’occasione per sganciarci dal paradigma “sviluppista”?

Purtroppo, il paradigma “sviluppista” ha vita lunga. E oggi indossa abiti nuovi. Lo sviluppo, declinato “al particolare”, gode di un successo che non smette di rinnovarsi: è stato comunitario, locale, “dal volto umano”. Ora è “sostenibile” o “eco-cittadino”. Modi diversi per far subire alle popolazioni un processo di appropriazione del loro futuro. Attualmente, ci si sforza di soddisfare “gli obiettivi di sviluppo del millennio” per “sradicare la povertà entro il 2015”, senza ragionare sul fatto che, come in passato, un maggiore sviluppo non potrà che produrre maggiore povertà. Lo stesso vale per l’agricoltura. Lo sviluppo agricolo ha prodotto la povertà nelle campagne: le persone si sono trovate senza lavoro, mercato e cibo. È in questo modo che nel mondo i due terzi delle persone che soffrono la fame sono contadini. Sarebbe sensato che si potessero nutrire della loro produzione. Ma le risposte vanno in senso inverso. Il meccanismo si ripete, e le crisi non servono certo a mettere davvero in discussione il modello egemone. Le proposte avanzate suggeriscono infatti di fornire “sementi ad alto rendimento” e fertilizzanti chimici, di aumentare le colture destinate all’esportazione, di “insegnare ai contadini” una migliore gestione, di consentirgli l’accesso al mercato mondiale, etc..

Una delle conseguenze del modello “sviluppista” monodirezionale, reso dottrina dal presidente Truman nel discorso inaugurale al Congresso degli Stati Uniti del 20 gennaio 1949, è quello che Wolfgang Sachs definisce come “mimetismo socio-industriale”: la tendenza, da parte dei paesi una volta considerati “in via di sviluppo”, a seguire il modello dei paesi “avanzati”. Le realtà contadine che ha osservato in giro per il mondo le sembrano indicare l’abbandono di questo modello, oppure è ancora egemone?

I contadini hanno ancora la possibilità di mettere in pratica le idee che difendono, con un grado di autonomia piuttosto fastidioso per il sistema. In questo senso, quando mettono in piedi delle reti di sementi vernacolari, entrano direttamente in contraddizione con un modello agro-scientifico che passa per le sementi “migliorate” e per gli Ogm. Quando decidono di coltivare con delle pratiche poco onerose, a volte articolate su alcuni saper-fare ancestrali, entrano in conflitto con una logica della modernizzazione agricola che vuole spingerli a usare sempre di più fertilizzanti chimici e macchinari costosi. Quando mettono in piedi delle filiere corte di commercializzazione, praticano una proposta alternativa a quella della mondializzazione degli scambi commerciali. Esiste dunque tutta una serie di azioni concrete che disegnano un avvenire diverso per l’umanità. Certamente, il sistema non smette di “recuperare”, di cercare di assorbire tali iniziative, e non è un caso che già si assista al processo di “indus-trializzazione” dell’agricoltura biologica, che ci siano elementi biologici prodotti dalle multinazionali o filiere corte inserite nei circuiti commerciali classici. Ma a dispetto di questo il nuovo cammino è comunque in corso.

Alla base del rafforzamento delle forme tradizionali di agricoltura, della diffusione dell’agricoltura biologica e della rinascita delle pratiche agricole indigene, oltre al diverso rapporto con la terra – investita di una funzione sociale, simbolica, religiosa – c’è soprattutto una diversa razionalità rispetto a quella economica che ha modificato il rapporto tra uomo e Natura, sostituendo la gratuità della Natura con i valori mercantili e, poi, con chiavistelli biologici, marcature genetiche e brevetti: la razionalità ecologica. Ci spiega le differenza tra le due forme di razionalità?

Provo a spiegare la differenza con un esempio. Quando si osserva il giardino di un piccolo contadino dell’America centrale, si nota che dispone di tutta una serie di piante che apparentemente non hanno alcuna utilità commerciale. Spesso il contadino ha dozzine di piante di cui soltanto qualcuna è “vendibile” e perfino “commestibile”.  Tuttavia, tutte hanno una qualche utilità, e quel contadino potrebbe spiegare che quella determinata pianta permette di compensare i deficit nutrizionali del terreno, quell’altra trattiene l’acqua, quella lì ospita il predatore di un certo insetto, quell’altra fa ombra e quell’altra ancora, infine, è bella a guardarsi! La priorità in questo caso non è quella di assicurare l’equilibrio economico, ma un altro equilibrio, più ricco, più vario e più complesso. È questo equilibrio che soddisfa le funzioni vitali degli uomini e della natura, non l’equilibrio degli economisti.

La razionalità ecologica mette a nudo la parzialità della scienza agronomica dalle pretese universaliste, e riparte dalle conoscenze locali, plurali e irriducibili a un’unica matrice. Crede che nelle lotte contadine ci sia anche la rivendicazione di quella che il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos definisce “una forma di giustizia cognitiva”?

I movimenti contadini come abbiamo visto fanno riemergere i saperi e saper-fare per lungo tempo occultati dall’egemonia della scienza e della tecnologia occidentale. Scienza e tecnologia che sono state presentate come i soli referenti della conoscenza. Questi saperi che oggi riemergono, nella maggior parte dei casi hanno dato prova della loro efficacia, sono molto diversificati, si sono adattati agli habitat locali tanto sul piano ecologico che sociale. Permettono dunque di mettere in discussione la presunzione tecno-scientifica del mondo cosiddetto “moderno”. Allo stesso tempo, in Occidente i contadini cominciano a recuperare le conoscenze e le pratiche che sono state mascherate dalla scienza agronomica. Si tratta in effetti di una forma di “giustizia cognitiva”, come dice Boaventura de Sousa Santos. Ma c’è bisogno che possa essere trasmessa, e da questo punto di vista è interessante notare la nascita di centri di formazione gestiti dagli stessi contadini in America latina, Asia e Africa.

 Come ne Il ritorno dei contadini, anche in La risposta dei contadini il punto di partenza sono i contadini in carne e ossa, che a dispetto dei tanti epitaffi hanno saputo sopravvivere alle ondate modernizzatrici, resistere, evolversi, riconfigurare le proprio pratiche e culture nel tempo e nello spazio. A cosa attribuisce l’ostinazione con cui i governi, le organizzazioni internazionali, gli esperti, “gli adepti della modernizzazione agricola così come i marxisti ‘ortodossi” “ostacolano o negano, da più di 50 anni, l’esistenza dei contadini? E come dobbiamo valutare questa “resilienza”: nella postfazione all’edizione italiana di Il ritorno dei contadini, Pier Paolo Poggio scrive che “il ritorno spontaneo dei contadini” non è solo insufficiente, ma anche apparente, “perché è molto più frutto della necessità che di una libera scelta; è il prodotto di fallimenti e delusioni piuttosto che di politiche attive e affermative”. Mentre lei sostiene che “le lotte contadine attuali si trovano all’avanguardia del movimento sociale internazionale che si è sviluppato fin dagli anni Novanta”….

Uno dei mezzi usati dagli Stati per tentare di far scomparire i contadini è stato quello di negare loro l’autonomia. Trasformati in coltivatori agricoli, hanno cominciato a dipendere dai prezzi, dai concimi, dai mercati, dalle sovvenzioni, dall’energia. Li si è fatti entrare nel gioco economico, privandoli del dominio sulla loro vita. Inoltre, a causa dell’ideologia dello sviluppo a cui abbiamo fatto cenno prima, i poteri non sopportano che parti della popolazione mantengano forme d’autonomia, e questo può spiegare l’accanimento nel ridurre i contadini a vestigia del passato. Ciò che è interessante nei movimenti contadini che si sono affermati negli ultimi venti anni è il fatto che le loro rivendicazioni non sono animate dal corporativismo. Le questioni della biodiversità, delle pratiche di coltivazione che mantengono gli equilibri ecologici, del nutrimento della popolazione, del lavoro, dei rapporti tra città e campagne, vanno ben al di là dei problemi agricoli. Attualmente, dunque, i problemi più importanti per il nostro pianeta sono affrontati proprio dai movimenti contadini. Che si occupano di questioni migratorie, dei rapporti tra uomini e donne, dell’habitat ecologico, dell’energia. I movimenti contadini sono piena espressione dei nostri tempi. D’altronde è significativo che, dopo una certa diffidenza, diversi movimenti sociali tendano sempre più a unirsi alle lotte contadine. Ritengo dunque che i “nuovi” movimenti contadini riflettano delle vere alternative sociali e che in certi casi le mettano anche in pratica, come fa per esempio il Movimento dei sem terra brasiliani. Si intende che più contadini ci sono e più ciò diventa possibile. Nei paesi in cui lo sviluppo ha ridotto il numero dei contadini a qualche centinaia di migliaia è più difficile, ma perfino in Europa si notano un po’ dappertutto delle strategie di “ricontadinizzazione”, con l’istituzione di mercati agricoli, con le reti di sementi, con nuove pratiche di coltura, etc. Non sarà facile, e le forze che si oppongono hanno una potenza distruttrice. Ma il “ritorno” dei movimenti contadini, che interrogano le nostre società sul loro sviluppo, pone questioni essenziali quali il cibo, l’energia, la biodiversità, la salute, il rapporto città-campagne, e suggerisce soluzioni praticabili. Per questo, si può parlare di avanguardia.

Lei sostiene che occorre resistere alle promesse dell’agricoltura industriale, “latrice di morte sia al livello ecologico che sociale”, perché non è né emendabile né riformabile. Cosa risponde a quanti affermano che l’industrializzazione dell’agricoltura e l’aumento della produttività sono gli unici strumenti per garantire il cibo a tutta la popolazione mondiale?

La prima constatazione è che l’agricoltura industriale non nutre il mondo perché in questo momento c’è più di un miliardo di persone che soffre la fame e un altro miliardo che mangia troppo. Il sistema agro-alimentare non può nutrire l’umanità perché questo non è il suo obiettivo (d’altronde oggi non esita a trasformare gli alimenti in agro-carburante). Quanto alla questione del rendimento tutto dipende da come si calcola. Certo, l’agricoltura industriale ha permesso di aumentare considerevolmente le quantità prodotte, ma lo ha fatto al prezzo di una considerevole distruzione ambientale (inquinamento, perdita della biodiversità, consumo del 70% dell’acqua dolce del pianeta…), il che ci suggerisce di riconsiderare i nostri calcoli. Se nutrire l’umanità dovesse dipendere da tre o quattro multinazionali che decidono cosa debba essere coltivato e consumato in ogni angolo del pianeta, ci troveremmo veramente nei guai. Si può produrre tutto e si possono mantenere nel lungo termine gli equilibri ecologici e sociali. Per farlo, c’è però bisogno di una classe contadina numerosa, ripartita sul territorio, che abbia recuperato i suoi saperi e saper-fare.

Di fronte alla liberalizzazione degli scambi commerciali agricoli, “principale politica d’estirpazione della società contadina nel mondo”, lei suggerisce di “rilocalizzare la produzione e il commercio degli alimenti”, rafforzando “un’agricoltura su piccola scala, che mira più all’equilibrio che allo sviluppo”. Come risponde a quanti obiettano che mettere in discussione il modello industriale di produzione e distribuzione è irrealizzabile, o addirittura utopico?

L’agricoltura industriale, e l’industria agroalimentare sulla quale si poggia, dimostra quotidianamente il proprio fallimento sul piano ecologico, su quello della qualità dell’alimentazione prodotta, sul piano dell’occupazione. Inoltre, anche se ha permesso di aumentare la quantità di alimenti prodotti, questi rimangono inaccessibili a più di un miliardo di persone. Non dovrebbe essere considerato irrealistico perseverare con questo tipo di agricoltura, piuttosto? I sistemi agricoli su piccola scala assicurano invece in tutto il mondo un’alimentazione di qualità e permettono ai contadini di vivere del proprio lavoro, dimostrando una grande efficacia, soprattutto in termini di equilibri ecologici. In un rapporto redatto nel maggio 2007 da alcuni esperti riuniti alla Fao, sono stati riconosciuti i vantaggi di questo tipo di agricoltura, che permetterebbe di nutrire meglio l’umanità. Esistono però ostacoli di natura politica ed economica all’affermazione di questo orientamento, perché intorno all’agricoltura industriale si sono costituiti interessi notevoli: le industrie chimiche, di biotecnologia, delle sementi ma anche quelle farmaceutiche e veterinarie difendono l’agricoltura industriale e i benefici, considerevoli, che ne traggono. Nel periodo delle sommosse per il cibo del 2007-8, la Monsanto ha registrato un aumento del 120% dei suoi ricavi. Inoltre, per ora, non c’è nessuno Stato che consideri prioritaria la promozione della piccola agricoltura.

Lei non risparmia critiche anche molto aspre alla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura: in Il ritorno dei contadini scrive per esempio che la costanza con la quale “si ostina a presentare proposte, che pur hanno dimostrato la loro inefficacia, è avvilente”. Dove sbaglia la Fao, e perché è importante distinguere – come fa lei – sicurezza alimentare da sovranità alimentare?

Le cifre, diffuse proprio dalla Fao, secondo cui ci sono più di un miliardo di persone che soffrono la fame, indicano il fallimento delle sue politiche e di tutte le politiche di sviluppo adottate finora. La Fao ha sostenuto la cosiddetta Rivoluzione verde degli anni Sessanta, in particolare in America latina e in Asia e oggi ne sostiene una nuova, soprattutto in Africa. Ma le ricette sono sempre le stesse, e si riducono all’aumento della produzione attraverso le tecnologie (sementi “migliorate”, meccanizzazione, fertilizzanti chimici). Ricette che hanno negato le potenzialità locali dei contadini, conducendoli a una situazione di dipendenza, se non di rovina. L’adozione di queste politiche conduce allo sviluppo delle bidonville e delle migrazioni. La nozione di “sicurezza alimentare” fa riferimento al fatto che le persone devono avere accesso al cibo per l’alimentazione, anche se interamente importato. Mentre la nozione di “sovranità alimentare”, introdotta dal movimento Via Campesina nel 1996 nel contro-summit della Fao per l’alimentazione, fa riferimento al diritto dei popoli a coltivare il proprio cibo secondo le pratiche che ritiene proprie. E’ questo il modo per garantire autonomia e un controllo dei propri modi di vivere.

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Transnacional Glencore emplea a niños de 10 años en República Democrática del Congo

La filmación encubierta revela que niños de apenas 10 años trabajan en la mina de cobre de Tilwezembe. Aunque fue oficialmente cerrada en 2008, la concesión aún le pertenece a la empresa que tiene su sede en Suiza.

En el programa de la BBC, que se transmitió este lunes, el presidente ejecutivo de Glencore, Ivan Glasenberg, salió al paso de las acusaciones declarando que “definitivamente no sacamos provecho del trabajo infantil en ninguna parte del mundo”.

Según Glasenberg, los niños eran empleados por mineros artesanales que “ocuparon nuestras tierras en 2010 sin nuestra autorización”, agregando que la compañía estaba “solicitando al gobierno que sacara a los artesanos de nuestra concesión”.

Sin embargo, documentos obtenidos por el programa muestran que parte del cobre extraído de la mina en cuestión fue enviado desde la planta procesadora a una empresa fundidora de Glencore en el vecino Zambia.

Glasenberg también negó rotundamente que Glencore comprara cobre extraído de Tilwezembe.

Derrumbes fatales

La Ley internacional prohíbe que los menores de 18 años trabajen en minas.

Los mineros que trabajan en Tilwexembe le dijeron a la BBC que 60 de sus compañeros murieron en la concesión el año pasado, convirtiéndola en una de las más peligrosas del mundo.

Un adolescente de 16 años señaló que los accidentes eran comunes y que las muertes por derrumbes eran cuestión de rutina. Un amigo suyo falleció precisamente al ser aplastado en un deslizamiento.

Panorama filmó secretamente a mineros descendiendo para extraer cobre a pozos de cerca de 50 metros de profundidad, sin ningún tipo de seguridad ni equipos para respirar.

El programa también encontró evidencias de desechos acídicos que terminaron en un río cercano a la refinería de cobre de Glencore ubicada en Luilu.

Río arriba, donde los locales pescan y se bañan, el agua era cristalina y verde. Más abajo de las tuberías de Glencore había sedimentos marrones.

Una organización no gubernamental suiza hizo pruebas del agua para determinar su acidez y encontró un valor de PH de 1,9 con 1,0 de ácido puro y 7,0 neutral.

Al ser consultado sobre la acidez de las aguas, Glasenberg indicó que la contaminación había comenzado mucho antes de que la compañía adquiriera la refinería.

“He estado en ese río”, dijo Glasenberg. Eso es lo que la gente le ha estado lanzando durante 50 años. Es por eso que Glencore ha gastado una gran cantidad de dinero para eliminar este problema”. Según la empresa ya la situación se resolvió. Mientras tanto, los pobladores locales no han recibido ninguna compensación por lo ocurrido.

Envuelta en controversia

No es la primera que Glencore está en el centro de la polémica.

En diversas partes del planeta ha sido acusada de corrupción, evasión fiscal y delitos contra el medio ambiente, cosas que la compañía niega.

La compañía, que emplea directa o indirectamente a más de 54.000 personas en más de 30 países, es uno de los mayores proveedores y comercializadores de materias primas, con varias oficinas en América Latina.

Controla el 50% del cobre que se comercializa internacionalmente, 60% del zinc y más del 20% del aluminio y el petróleo.

Según un informe especial publicado por Reuters el año pasado, Colombia le impuso una multa de 700.000 dólares, luego de acusarla de cometer varias violaciones medioambientales a lo que la empresa replicó que los castigos obedecían a problemas que habían ocurrido antes de que los activos mineros afectados en ese país pasaran a ser de su propiedad.

En mayo de 2011 Glencore debutó en la Bolsa de Valores de Londres, recaudando cerca de 10.800 millones de dólares.

En febrero de este año anunció una fusión con la empresa británica de explotación minera Xstrata (valorada en unos 90.000 millones de dólares) en medio del regocijo de los accionistas y de las dudas sobre las consecuencias que tendrá el nuevo gigante sobre los precios y economías especializadas en materias primas como América Latina.

La fusión aún está en trámites y sujeta a la aprobación de los entes reguladores europeos.

 

http://www.librered.net/?p=17265

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