Униженные и оскорбленные UMILIATI E OFFESI

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Pubblicato a puntate nel 1861 sulla rivista «Vremija», Umiliati e offesi è costruito secondo il modulo classico del romanzo d’appendice: colpi di scena, intricate vicende amorose, inquietudine, sopraffazione, malattie si intrecciano seguendo ritmi narrativi ora precipitosi ora trattenuti, ma sempre avvincenti, in una narrazione ad effetto, spesso avvolta nel mistero.

Il perfido principe Valkovskij si staglia sulla schiera delle sue vittime, umiliate e offese: la spartizione tra bene e male, luce e tenebre, non si spegne però mai in un facile schematismo. Trova ragione e spessore nella profondità dell’ideale umanitario dell’autore, nella sua indagine psicologica, nell’intensità dei sentimenti ritratti che, pagina dopo pagina, mantengono viva la tensione.

http://www.einaudi.it/libri/libro/f-dor-dostoevskij/umiliati-e-offesi/978880618455

UMILIATI E OFFESI
PARTE PRIMA

CAPITOLO 1

di Fëdor Michailovic Dostoevskij – WritingsHome.com

La sera del ventidue marzo dello scorso anno ebbi un’avventura alquanto strana. Avevo passato quel giorno a correre per la città in cerca d’un appartamento. Quello in cui abitavo era molto umido, e già allora incominciavo ad avere una tosse piuttosto preoccupante. Mi ero proposto fin dall’autunno prima di cambiar casa, ma poi avevo tirato innanzi fino a primavera senza farne un bel nulla.

Quel giorno non ero riuscito a trovare alcun posto che mi si confacesse. Desideravo, anzitutto, di trovare un appartamentino esclusivamente mio, non stanze in subaffitto; in secondo luogo, poi, mi occorreva una stanza molto vasta, anche a costo di non aver altro che quella; infine, si capisce, non volevo spendere troppo.

Mi ero accorto che in una camera angusta sembra difetti lo spazio anche per i pensieri. A me, invece, piace, meditando sulle mie future opere, camminare su e giù per la camera. A proposito, ho sempre provato maggior piacere a ideare le mie opere e a sognare in che modo sarebbero venute scritte, che non a scriverle in realtà, e vi assicuro che ciò non dipende affatto da pigrizia. E da che cosa allora?

Mi sentivo indisposto fin dalla mattina, e, verso il tramonto, il mio stato di salute peggiorò ancora: cominciava la febbre. Inoltre, avevo passato tutto il giorno in piedi ed ero molto stanco.

Verso sera, proprio sull’imbrunire, stavo camminando lungo la Prospettiva Vosniesenski. Mi piace il sole del mese di marzo a Pietroburgo, soprattutto il tramonto, s’intende, in una chiara sera di gelo. Tutta la strada comincia allora a brillare, inondata da una viva luce. Tutte le case sembrano a un tratto scintillare. Le loro tinte grigie, gialle e verde-sporco, perdono in quel momento la loro tetraggine; pare allora che l’animo si faccia più sereno, che qualcuno ti abbia spinto col gomito, e tu trasalisci tutto. Nuovi pensieri nascono nella tua mente, vedi tutto da un nuovo punto di vista… C’è da meravigliarsi, a considerare quanto può influire un solo raggio di sole sull’anima di un uomo!

Ma il raggio si spense; il gelo si faceva sempre più pungente e cominciava a pizzicare il naso; le tenebre si addensavano; nelle botteghe furono accese le fiammelle a gas. Giunto alla pasticceria di Miller, mi fermai a un tratto come inchiodato e cominciai a fissare l’altra parte della strada, come presentendo che subito doveva succedermi qualche cosa di strano; e nello stesso momento vidi sul marciapiede opposto il vecchio col suo cane. Ricordo benissimo che il cuore mi si strinse per una sensazione penosa, del cui genere non riuscii neppure io a rendermi conto.

Non sono un mistico; quasi non credo ai presentimenti e ai cattivi o buoni presagi; nondimeno, a me, come, può darsi, anche a molti altri, erano accaduti nella vita alcuni casi poco spiegabili. Per esempio, quel vecchio: perché per quel mio incontro con lui sentii subito che mi doveva capitare nella stessa sera qualche cosa d’insolito? Del resto, ero malato, e le sensazioni date dalla febbre sono quasi sempre ingannatrici.

Il vecchio, col suo passo lento e debole, muovendo le gambe come se fossero due rigide pertiche e battendo leggermente col bastone sul lastrico, si avvicinava alla pasticceria. In vita mia, non avevo mai incontrato una figura più strana, più bizzarra. Anche prima di quell’incontro, quando ci trovavamo insieme nella pasticceria di Miller, il vecchio produceva su di me un’impressione dolorosa. L’alta statura, la schiena curva, il viso smorto di ottuagenario, il vecchio pastrano lacerato nelle cuciture, un cappello rotondo, che, a giudicare da quanto era sciupato, doveva aver servito almeno per una ventina d’anni e gli ricopriva la testa calva, con una sola ciocca di capelli, non più canuta, ma di un bianco-giallo, rimastagli proprio sulla nuca; i movimenti, che sembravano obbedire non al cervello, ma ad una molla caricata una volta per sempre, tutto ciò stupiva involontariamente chiunque lo vedesse per la prima volta. Infatti, era strano vedere quel vecchio, in età così avanzata, girare da solo, senza che alcuno lo accompagnasse, tanto più che aveva l’aspetto di un pazzo sfuggito ai suoi guardiani.

Mi stupiva pure la sua estrema magrezza. Quasi non aveva più carne sulle ossa, rivestite soltanto dalla pelle giallastra, I suoi occhi grandi, ma torbidi, circondati da due cerchi lividi, erano sempre fissi davanti a sé, non guardavano mai né da una parte né dall’altra, e sono persuaso che non vedevano nulla. Anche se il suo sguardo cadeva su di voi, egli continuava ad andar dritto, come avesse innanzi a sé lo spazio vuoto. L’avevo notato parecchie volte. Da Miller aveva cominciato a comparire solo da poco tempo, venendo Dio sa da dove, e sempre accompagnato dal cane. Nessuno dei frequentatori della pasticceria usava accostarlo, né egli aveva mai rivolto la parola ad alcuno.

«Perché continua a recarsi da Miller, e che diamine ha da fare in quel luogo?», pensavo, fermo dall’altra parte della strada e lo sguardo invincibilmente attratto dalla sua figura. Una specie di dispetto, conseguenza della malattia e della stanchezza, nasceva in me.

«A che cosa pensa?», continuavo a domandare a me stesso. «Che cosa racchiude nella mente? E’ poi capace ancora di pensare? Il suo viso è morto a tal punto, che non esprime proprio nulla. E dove ha trovato quel brutto cane, che non lo lascia di un passo, e sembra formare con lui una cosa sola, un intero indivisibile, e gli somiglia tanto?».

Quel disgraziato cane doveva avere anch’esso un’ottantina d’anni. Sì, doveva essere proprio così. Anzitutto, aveva un aspetto così vecchio come nessun cane ebbe mai; in secondo luogo, fin dalla prima volta che l’avevo visto, mi era sembrato che quel cane non potesse essere un cane come tutti gli altri, ma un animale straordinario: che avesse in sé un non so che di fantastico, di soprannaturale; che fosse una specie di Mefistofele celato sotto la forma di un cane, e che il suo destino fosse congiunto con qualche legame strano e misterioso a quello del suo padrone A vederlo, ognuno avrebbe indubbiamente pensato che di sicuro era trascorsa una ventina d’anni dall’ultima volta che aveva mangiato. Era magro come uno scheletro o, per dir meglio, come il suo padrone. Era quasi completamente spelato; persino la coda, che pendeva giù come un bastone, ed era sempre nascosta tra le gambe, non aveva più peli. La testa, dalle lunghe orecchie, penzolava tetramente abbassata verso terra. In vita mia, non avevo mai visto un cane più ripugnante. Quando quei due esseri, il cane e il suo padrone, camminavano per strada, il padrone davanti e il cane dietro, questo toccava col naso la falda della marsina del vecchio, come se vi fosse incollato. La loro andatura e tutto il loro aspetto parevano ripetere a ogni passo: «Siamo vecchi, vecchi, oh, Signore, come siamo vecchi!».

Ricordo pure che un giorno mi passò per la mente l’idea che il vecchio e il suo cane fossero scappati da qualche pagina di fiabe dell’Hoffmann, illustrata da Gavarni, e gironzolassero adesso per il mondo in guisa di vivente pubblicità a quell’edizione.

Attraversai la strada e seguii il vecchio nella pasticceria.



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