L A C A B A L A DEL CAVALLO PEGASO

L A   C A B A L A

DEL

CAVALLO PEGASEO[1]

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La Cabala del Cavallo Pegaseo, bizzarro scritto, è in un certo modo un’appendice dello Spaccio. Innanzi tratto è da intendere bene la voce cabala. Esprime un’allegoria, una successione irregolare di considerazioni, come la filosofia rabbinica, detta Cabala,[2] solea farne. Alle usate stranezze di questo metodo [p. vi ]orientale, Bruno aggiunge quelle del disordine spesso volontario de’ suoi scatti e delle sue uscite, che tutti i capricci d’una conversazione intesa più a divertire che ad ammaestrare, rende anche più grave. Perché l’autore ha scelto la voce Cabala? Per iscansare le censure dei teologi cristiani. A tal fine, attribuisce ai dottori ebrei il suo sistema d’interpretazione. «Io non fo altro, egli dice, che applicare il loro metodo alla favola di Pegaso e dell’asino».

Se non che Bruno segue assai più spesso l’ironia che gli andamenti della cabala. Questo scritto, in cui versa a mani piene l’erudizione e lo spirito, è tra il faceto e il grave; ma dal grave altresì traspare una celia sottile. Per la sua festività ritrae l’Elogio della pazzia; per la sua gravità la Ignoranza erudita. Come Erasmo, uno degli autori favoriti di Bruno,[3] loda la pazzia, cosi Bruno [p. vii ]celebra l’ignoranza, la stupidità, e l’asinaggine[4]. E come il cardinal Cusa raccomanda dottamente quella ignoranza filosofica che conduce al sapere, e a cui spesso la scienza umana mette capo, così Bruno, uno de’ suoi discepoli, preconizza la prudente circospezione d’un dubbio discreto, perfettamente compatibile con l’ardente investigazione della natura e dei fini delle cose.

In questa cabala si tratta adunque di parecchie specie d’ignoranza, di quelle che a dir così si ostentano, e di quelle altresì che s’avvolgono nel manto del sapere. Di qua scatta un parallelo arguto, talora profondo tra l’ignoranza vantata dai teologi, o mistici, od ortodossi, vuoi della sinagoga, vuoi della chiesa, e l’ignoranza dei seguaci di Pirrone, o dei partigiani della Nuova Accademia. La divozione, secondo Bruno, ha abusato certi passi ​ [p. viii ]dell’antico e del nuovo Testamento, per fermare il principio che la santità esclude la scienza, e non sostiene altro che la infingardia e la bestialità; che l’uomo, per piacere a Dio, dee passar la vita ad abbrutire; che la stoltezza e la scimunitaggine rispetto alle cose di questo mondo, d’un mondo creato da Dio, sono di necessità saggezza e scienza dell’altro mondo. Cotalché l’uomo giusto e santo, l’uomo di Dio possiede tutti gli attributi che distinguono l’asino, la semplicità, l’impassibilità, l’imperizia, e si sforza di rassomigliare sempre più, non già a Dio, ma all’asino; quasi che la sostanza della religione fosse la stupidità; quasi che la pietà, scambio di essere studiosa, solida, grande, illuminata, profonda, dovesse essere ignorante, indolente, gretta, frivola, superficiale e solo a tal patto meritasse il titolo di dotta e di santa. Qui, a credere a Bruno, mettono capo le false spiegazioni delle parole di san Paolo, di Dionigi l’areopagita, di sant’Agostino, e di quella massima di [p. ix ]umiltà: omnis qui se humiliat, exaltabitur! Tuttavia il cristianesimo non vuole questa abnegazione scientifica; non vuole che l’ignoranza sia la perfetta scienza del cristiano. Lo stesso filosofo di Tarso, colui che predicò sì eloquentemente «la follia della croce,» vuole che noi siamo fanciulli, non quanto all’intelligenza, ma quanto al cuore: «Quanto all’intelligenza, egli dice, siate uomini!» Di fatto in tal caso la fede religiosa non condurrebbe ad altre conclusioni che a quelle del più stravagante scetticismo; l’ignoranza e l’asinaggine sarebbero, da ambe le parti, proclamate la via del vero e della beatitudine, l’unica via degna del credente e del saggio. Non si sa nulla con certezza, non si può saper nulla, afferma il Pirroniano, se non quest’unica cosa: «Io sono, e non sono altro che un asino».[5] [p. x ]A fronte di queste ignoranze pretese ed impossibili, Bruno mette l’ignoranza reale ed ambiziosa dei dottori della scuola, la pretesa infallibilità dei peripatetici. Costoro si stimano tanto instruiti, tanto accorti quanto gli altri si dicono ignoranti ed assurdi. Si credono in possesso dell’onniscienza, ma sono per avventura più ignoranti di coloro, i quali considerano​” [p. xi ]l’ignoranza come il solo stato conveniente alla pietà ed alla saggezza. Si credono profondi, perché son pesanti e diffusi; e in realtà non sono segnalati per altro che per la loro grave futilità, per la «loro levità pedantesca»; son detti gli oracoli del genere umano; ma quando gl’incontri ed ascolti, non trovi in essi che asini. Imperocché, invece di riflettere, non fanno altro che credere e supporre. La loro fede in Aristotile è cieca. Arrolati sotto la sua bandiera, parlano come se non parlassero; decidono con fermo viso di quello che non capiscono; giurano sulle parole d’un maestro, che non s’è capito egli stesso: brevemente, vanno a tastoni ed asineggiano.

A rendere più ridicola la setta dominante, Bruno mette in iscena un personaggio chiamato Onorio.[6] Costui, in grazia della trasmigrazione delle anime, è passato per stati assai diversi e ne ha serbato una [p. xii ]fedele memoria. Egli narra che in origine fu asino; che innanzi tratto fece il somiere, sotto un giardiniere di Tebe, poi sotto un carbonaio; che per innanzi, in virtù del movimento ascensivo degli esseri, diventò cavallo simile a Pegaso, ne’ servigi d’Apollo, e di quelli che regnano in Parnaso; che poi riscendendo nelle regioni inferiori, fu fatto uomo, e che, al tempo di Filippo di Macedonia, con l’aiuto di Nicomaco, passò nel corpo d’Aristotele. Sotto il nome di Aristotele, egli fu assai bene ammaestrato nelle umanità; ma egli s’affidò di sapere la filosofia naturale come altresì la rettorica, la logica e la politica; egli si mise in animo di levarsi a riformatore di questa scienza, impresa tanto più facile in quanto Socrate era morto, Platone proscritto, gli altri pensatori dispersi, e ch’era rimasto solo come un monoculo fra i ciechi. Egli si pose a riferire, a dritto e a torto, le opinioni degli antichi; prestò loro pensieri o parole degne di fanciullini e di vecchie; [p. xiii ]insegnando sotto al portico del liceo di Atene, egli s’intitolò principe dei peripatetici; egli delirò, più che lo stesso delirio, sulla natura dei principj e la sostanza delle cose, sul movimento, sull’universo; finalmente desso fu che fece tornar addietro la scienza naturale e divina, quanto i Caldei ed i Pitagorici l’avevano spinta oltre ed arricchita. E tuttavia venne un Arabo che lo disse il genio stesso della natura!

Ma l’asino, soggiunge Bruno, non signoreggia soltanto nella Scuola: s’è insediato per ogni dove, nelle corti e nei tribunali, nelle chiese e nei templi, come altresì nelle università e nelle accademie; ha preso possesso di tutte le camere e di tutti gli aditi dell’umano ingegno. Quante persone ne sono escluse perché non hanno i doni mirabili e le utili perfezioni dell’asino! Potrebbe dirsi che ci sono più asini nella società degli uomini che non ci sono uomini nella società degli asini; e che i più degli uomini sono membri dell’università, cittadini dello stato [p. xiv ]degli asini! Si, l’asino somiglia a quell’anima del mondo che ispira e sostiene l’universo, per ogni dove importante e per ogni dove venerato. È la «bestia trionfante» in carne e in ossa. Il che chiarisce perché l’asino spirituale e morale è in ogni paese stimato, quanto l’asino fisico e materiale è apprezzato presso alcune nazioni.[7] Ecco perché «l’asino ideale e cabalistico» l’animale nobilissimo fra gli altri, simbolo e tipo della perfezione intellettuale, meriterebbe d’esser sollevato al cielo, presso la verità, e di diventare una costellazione.

Di ché la Cabala, cosi per queste diverse allegorie come per la sua tendenza, è una continuazione dello Spaccio.

 

http://it.wikisource.org/wiki/Cabala_del_cavallo_Pegaseo_con_l%27aggiunta_dell%27Asino_Cillenico/Prefazione

 

 

… Della quale voglio dirvi in che maniera con poco o nullo studio e senza fatica alcuna ognun che vuole e volse, ne ha possuto e può esser capace. Veddero e consideronno que’ santi dottori e rabbini illuminati, che gli superbi e presumtuosi sapienti del mondo, quali ebbero fiducia nel proprio ingegno, e con temeraria e gonfia presunzione hanno avuto ardire d’alzarsi alla scienza de secreti divini e que’ penetrali della deitade, non altrimente che coloro ch’edificaro la torre di Babelle, sono stati confusi e messi in dispersione, avendosi essi medesimi serrato il passo, onde meno fussero abili alla sapienza divina e visione della veritade eterna. Che fero? Qual partito presero? Fermaro i passi, piegaro o dismisero le braccia, chiusero gli occhi, bandiro ogni propria attenzione e studio, riprovaro qualsivoglia uman pensiero, riniegaro ogni sentimento naturale; ed infine si tennero asini. E quei che non erano, si trasformaro in questo animale: Alzaro, distesero, acuminaro, ingrossaro e magnificorno l’orecchie e tutte le potenze dell’anima riportorno e unirono nell’udire, con ascoltare solamente e credere: come quello, di cui si dice: “In auditu aulis obbedivit mihi.” Là concentrandosi e cattivandosi la vegetativa, sensitiva ed intellettiva facultade, hanno inceppato le cinque dita in un unghia, perchè non potessero, come l’Adamo, stender le mani ad apprendere il frutto vietato dell’arbore della scienza, per cui venessero ad essere privi de’ frutti dell’arbore della vita, o come Prometeo (che è metafora di medesimo proposito), stendere le mani a suffurar il fuoco di Giove per accendere il lume della potenza razionale.
Cossì li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que’ medesimi.

Giordano Bruno

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