Urla la morte bianca di Marco Rovelli

 

Urla la morte bianca
di Marco Rovelli

 

È uscito da poco un nuovo libro di Marco Rovelli, dopo il bel “Lager italiani” dedicato ai Cpt. Si intitola “Lavorare uccide” ed è un reportage in giro per l’Italia sulle morti bianche. Ne pubblichiamo l’introduzione (qui sotto) e il capitolo sulle cave di marmo a Carrara.

 

Guardo la foto di un operaio della ThyssenKrupp dopo la strage. Abbraccia un compagno in lacrime, lo sostiene, e con l’altro braccio allontana, arrabbiato, un fotografo. Reclama rispetto. Non solo per quel traboccare di dolore che tenta di contenere. Reclama un rispetto mancato, un’identità negata. Nella strage di Torino ci sono tante verità insieme. La grande fabbrica multinazionale, in via di smantellamento, gli estintori vuoti, i turni di lavoro massacranti. E di fronte a questa cruda evidenza, si grida allo scandalo. Ma lo scandalo è tutti i giorni, questa è la verità. Basta voler vedere. Quante volte si incontra negli occhi delle madri, o delle mogli, questa verità. La strage di Torino è un evento così fragoroso che non poteva non conquistare i titoli principali di giornali e tg. Ma si fa presto a dimenticarsene. I mass media agitano la parola «sicurezza» di continuo, ma non si riferiscono alla guerra quotidiana del lavoro, no, con quella parola agitano lo spettro dell’immigrazione, ché avere un nemico facile e a portata di mano conviene, e la gente è contenta quando l’evidenza è confermata – e non importa se è solo un’impressione. Meglio farebbero quei media, invece, a spendere un po’ di tempo e spazio per dar conto di come vanno avanti i procedimenti sulle morti sul lavoro. O meglio, di come troppo spesso non vanno avanti. Di come queste vite vengano cancellate anche dopo la morte. Del resto le sanzioni sono del tutto inadeguate, e questo è una garanzia per chi vuole usare vite umane come merci. Cominciamo da qui, da sanzioni pesanti, è questo che dice la maggior parte dei familiari delle vittime. Non per vendetta del passato, ma per giustizia del futuro. Però non basterebbe neppure questo, senza una serie di altre misure. Perché si tratta di affrontare davvero i dati strutturali della questione: la frammentazione del processo produttivo, la catena infinita degli appalti, la ricattabilità e la precarietà dei lavoratori, la competizione selvaggia scaricata sul costo del lavoro e sulla sicurezza. Tutte cose che ho capito durante il mio viaggio in Italia nelle morti da lavoro. Per capire che cosa significa morire di lavoro, e perché lavorare uccide.

M.R.

Dalle mie parti le morti sono davvero bianche: sono le morti in cava. Più di una volta ho cantato con il mio amico Davide Giromini: «Urla la morte bianca che quattro soldi vale. Mastica il paradiso, in miniera si scende, in cava si sale». Sono un’incombenza che accade periodicamente, in una scansione che ha del tremendo. Nel senso che il biancore accecante delle cave di marmo è davvero qualcosa di sterminato: è come se ogni volta, andando al lavoro, si dovesse affrontare una montagna sacra, col suo carico d’inconoscibile. Perciò, qui più che da ogni altra parte, le morti assumono il sapore della fatalità. Eppure il fato colpisce, anche per le morti in cava, se ha le possibilità per farlo.
Era legata alle cave l’immagine che avevo delle «morti bianche» – un’immagine vaga, indistinta, che questo viaggio ha finalmente portato alla luce e disciolto. L’immagine di un corpo disteso su una superficie bianca, aderente alla pietra, sul punto di fondersi con essa, con quella soglia vertiginosa che incombe su uno sprofondo, dove il bianco trapassa in grigio. Mi immaginavo il corpo morto che rilasciava i nervi, e i nervi si facevano radici che andavano ad ancorarlo alla pietra bianca, finché il corpo stesso non si sarebbe fatto calcare, e sarebbe stato risucchiato in quel bianco.
Ma c’era qualcosa che non andava. Mancava la resistenza, in quell’immagine. E Carrara è sempre stata città resistente. È conosciuta come terra anarchica, e lo è perché tra i cavatori, la componente storica della forza lavoro carrarina, la maggior parte erano anarchici. Gli ideali anarchici si radicano in un fortissimo senso di solidarietà e condivisione, e allo stesso tempo un altrettanto forte senso della libertà: e se fecero tanta presa sui cavatori, è anche per la natura stessa di quel lavoro. Che prevedeva una condizione durissima, un lavoro massacrante che cominciava di notte quando si partiva per le cave per tornare nel pomeriggio: ma se appunto fu l’anarchia a conquistare i cuori piuttosto che il socialismo, fu forse anche perché il mestiere del cavatore da una parte necessitava di una condivisione quotidiana, come quando si faceva la lizza per trasportare il blocco di marmo a valle, e occorreva sincronizzare i movimenti di tutta la squadra per non rimanere schiacciati, e allora la dipendenza della propria vita dagli altri era qualcosa che si inscriveva nella carne; e dall’altra metteva il singolo cavatore, continuamente, di fronte alla morte, come quando, per esempio, stava in tecchia, appeso a una corda, penzolante nel vuoto, faccia al marmo.
I Cobas del marmo di Carrara, oggi, sono un sindacato forte tra i cavatori, e si inscrivono nella genealogia libertaria. Incontro il segretario Giovanni Pedrazzi nella sede. Alle pareti manifesti di Alberto Meschi, figura storica del sindacalismo apuano. Meschi diventò segretario della Camera del lavoro di Carrara nel 1911. Anarchico, fu sotto la sua guida che avvenne la storica conquista della riduzione dell’orario di lavoro per i lavoratori del marmo da dodici ore a sei ore e mezzo. Tra il 1911 e il 1915 quella Camera del lavoro fu tra le più radicali in Italia: aderì all’Unione sindacale italiana, di matrice anarchica, partecipò alla Settimana Rossa del 1914. Poi Meschi visse da esiliato durante il fascismo, combatté in Spagna, e tornò a dirigere, seppure per poco, la Camera del lavoro nel 1945.

Una vera e propria rapina

«Mio nonno – racconta Pedrazzi – è sempre stato un animale a sé stante, lui si definiva comunista anarchico. Io ho abitato in casa con lui, quando lavoravo in cava, fino a che non andai a lavorare con mio zio a Torino, in un’impresa di costruzioni. Poi ho cominciato a studiare la storia di Alberto Meschi. Avevo le sue foto già nella sede del sindacato confederale dov’ero prima, ma davano noia. Sono venuto via nel ’90, e abbiamo fondato i Cobas marmo.»
Meschi arrivò a Carrara nel settembre del 1911. Il 29 luglio di quell’anno era franata una montagna, e undici cavatori erano rimasti sepolti. Era successo sopra Miseglia, in una porzione di monte chiamata «la Mossa», perché là il terreno è molto instabile, ed esperienza e prudenza sono necessarie per lavorarci.
Vicino al luogo di quella strage, il 28 aprile 1998 morirono due giovani operai, Francesco Bragazzi di ventinove anni e Marco Pisanelli di trentuno, travolti da un’altra frana. Eppure dodici giorni prima dell’incidente la Asl di Massa aveva notificato l’inibizione della coltivazione ai gestori della cava, la ditta Gemignani e Vanelli marmi. Si procedette al sequestro, però, solo dopo la morte dei due ragazzi.
La mattina stessa la Asl aveva dato ordine di chiudere la lavorazione. Il capocava disse che avrebbero finito il taglio e poi avrebbero chiuso. Fu quel taglio a uccidere i due ragazzi. I responsabili sono stati condannati, anche in appello, a un anno e quattro mesi. Uno dei due proprietari nel frattempo è morto, la ditta però continua a esercitare. E ancora una volta, viene da pensare che se gli imprenditori mettessero in conto che, non rispettando delle norme e giocando con le vite dei propri dipendenti, non potrebbero più essere imprenditori – forse, allora, qualcosa cambierebbe davvero.

«Noi – dice Pedrazzi – abbiamo una sfortuna nella fortuna: la fortuna è di avere tutti questi monti, che sono di proprietà dei cittadini, così come le centosette cave; e la sfortuna è che gli enti locali li danno in concessione a persone che non sono imprenditori, ma solo padroni.» Da tempo sono in molti a lamentare, in Apuania, che i profitti delle aziende del marmo non ricadono sul territorio, e dunque si assiste a una vera e propria rapina, con un impatto ambientale devastante e inquinamento idrogeologico, senza neppure che si crei una filiera produttiva nel comparto della trasformazione, visto che il marmo escavato viene portato via. «Da una parte – continua Pedrazzi – l’escavazione selvaggia, con le creste dei monti che si abbassano. Dall’altra il lavoro sempre più precario, sono molti quelli che vengono assunti per pochi mesi, o per un anno. A volte non c’è la condizione psicologica giusta per i lavoratori, si è continuamente ripresi, “se non ti sta bene quello è il cancello, cercati un altro lavoro”. C’è un clima che io definirei di invogliamento all’incidente, un ricatto continuo.» Lo conferma anche Maura Pellegri, dirigente dell’Asl di Massa: «È accaduto che lavoratori che abbiano collaborato con noi e anche rappresentanti dei lavoratori abbiano perso il lavoro». «Certo – dice Pedrazzi – la cultura della sicurezza manca a tutti i livelli, a volte anche tra i lavoratori stessi, ci sono anche quelli che pensano che sia un impiccio. Ma la cultura viene creata dai capi. Quando un capocava ti dice “Ma cosa stai a perder tempo?” e te lo ripete ogni volta, alla fine diventa naturale.»

 

Le polveri ingoiate

Secondo Pedrazzi la regola d’oro della sicurezza nelle cave dovrebbe essere non aver nulla sopra la testa. «Me la insegnò mio nonno. Da tanti anni diciamo che bisogna ripartire la coltivazione della cava dall’alto, e scendere a gradoni. Imparare dagli Incas, come facevano per i loro templi. Adesso molte cave hanno cominciato a farlo, in effetti. E facendo così elimini il 70% del pericolo, che viene dalle cadute dall’alto, sassi, cose, persone.»
Un altro grosso rischio sono le macchine col filo diamantato, per segare i blocchi. Vere e proprie mitraglie, che perforano anche le lamiere. Maura Pellegri lamenta che per il filo diamantato non sia prevista alcuna norma di sicurezza, perché l’elemento utensile, a norma di legge, è separato dall’elemento macchina. È una tecnologia che non permette errori: se l’operaio sbaglia paga, e questo non è tollerabile. Carlo Alberto Batolla morì per questo, il 12 marzo 1997.
Il rischio è alto, in cava, lo è da sempre. E per questo i Cobas marmo lottano da tempo perché il mestiere di cavatore venga riconosciuto come lavoro usurante. Temperature altissime d’estate, sottozero d’inverno. Del resto negli ultimi quarant’anni la tecnologia delle escavazioni è cambiata radicalmente: se prima c’erano ritmi di lavoro lenti e selettivi, basati sul filo elicoidale, oggi con il filo diamantato i ritmi sono molto più veloci, e la produttività per lavoratore è raddoppiata. Si lavora molto di più in galleria, nell’umidità, come i minatori. E a questo è legato un aumento degli infortuni e delle morti. «Per questo – dice Pedrazzi – bisogna riconoscere che dopo quindici anni di lavoro in cava, arrivati a cinquantacinque anni di età, si possa chiedere la pensione. Basta considerare che se la speranza di vita media è di settantacinque anni, per un cavatore a vita è molto più breve.» Le polveri ingoiate, le malattie contratte. È una questione di giustizia sociale, dice.
Con Pedrazzi, nella sede dei Cobas marmo, c’è Barbara Fabbiani, con la sua bambina, Selene. La bambina è stanca, è appena tornata dal mare, dov’è andata con la babysitter. Adesso che è sola Barbara ha bisogno di una babysitter, quando va al lavoro, che accudisca la bambina.
Barbara è sola perché suo marito, Andrea Giovari, è morto in cava il 18 dicembre 2006. Non è morto cadendo dall’alto, o nel piazzale, ma, come capita di rado, in galleria.

Storia di Andrea (e di Barbara)

Barbara è una donna forte. Nonostante il lutto recente, la necessità di trovarsi un lavoro nuovo ché il contratto precedente era scaduto, l’essere praticamente sola con la bimba, non dà segni di cedimento. Ha solo voglia di lottare per la verità. «Una mattina ho letto sul giornale che erano arrivati gli avvisi di garanzia per omicidio colposo ai proprietari della cava. Ma io non so ancora come è andata.»
Andrea aveva trentatré anni, e faceva il cavatore da sette. Poco tempo, rispetto a tanti ragazzi della sua età che lavorano in cava da una vita. Per sette anni era stato nella cava dei fratelli Mazzucchelli, in galleria, poi si era trasferito nella cava del conte Vanelli, la Statuaria Arte. Non c’è rimasto neanche un anno. Di solito nella cava di Vanelli lavorava sul monte, ma visto che si avvicinavano le vacanze di Natale e il lavoro andava a rilento, era stato chiamato in galleria per affrettare i lavori. In cava funziona così, non si ha una mansione specifica, si mandano i mezzi, si fanno le mine, si taglia il marmo con il filo diamantato. «In sette anni – dice Barbara – nell’altra cava neanche un’unghia nera. Lì, dopo tre giorni, c’è morto. Quando avevano iniziato mi aveva detto “Non mi sento tranquillo, non vedo l’ora di finire perché quella galleria è pericolosa”. In sette anni non glielo avevo mai sentito dire. Poi, quel lunedì, era partito senza dire nient’altro. Ci dovevamo vedere nel pomeriggio, per andare a fare il mutuo per la casa nuova.»
Andrea è stato schiacciato da un blocco di venti tonnellate che stavano movimentando da terra con un mezzo. Pedrazzi mi spiega che di solito i cavatori vecchi, prima di muovere un blocco, lo lavano per vedere se ha dei difetti, striature fini, sottili, chiamati «peli furbini», che d’improvviso possono aprirsi e il blocco si spezza. E quel blocco era stato segnato, si sapeva che era a rischio. Si è spaccato, rovesciandosi su Andrea, che non avrebbe dovuto essere lì. Secondo le norme sulla sicurezza durante una manovra non deve esserci nessuno nei paraggi tranne l’operatore designato. Ma gli avevano chiesto di andare lì per le sue competenze idrauliche, dicono le voci, per controllare un tubo. Non ci sono testimoni però, e ci si deve limitare alle supposizioni, per adesso, finché un processo non chiarirà le cose.

«Ho visto l’elicottero del soccorso che andava in cava – mi racconta Barbara con lucidità, senza lacrime – ero in bagno con la bimba, ci stavamo preparando, e le ho detto, saluta l’elicottero che va dal papà. Non sapevo che ci stava andando davvero, e andava per lui. Poi è venuta mia sorella, Andrea ha avuto un incidente. Allora sono andata al pronto soccorso, non so con che forza ho preso la macchina, una persona che era lì per strada è venuta con me. Là non sapevano niente, poi una dottoressa ha telefonato all’infermeria delle cave e le hanno detto che Andrea era morto. Io mi ricordo di essermi risvegliata su un lettino, e da lì è cominciato tutto.»
Ti colpiscono sempre le coincidenze, in queste storie, le svolte infinitesimali del destino, le possibilità di un’altra vita che era a un passo. Nel caso di Andrea, proprio nel giorno della sua morte un amico gli avrebbe dato la notizia che sarebbe potuto andare a lavorare per un periodo in una cava del Vermont, negli Stati Uniti. «Andrea era innamorato del suo lavoro, della cava. La domenica prendeva la bimba e la portava alle cave.»
Barbara ha visto altri casi simili al suo, e ha visto come, trovandosi con l’acqua alla gola, si accetti l’offerta che fa la ditta, la transazione che chiude il processo. Si accetta, perché la vita va avanti, e ormai è morto, e i processi durano anni, e ogni volta rinnovano il dolore, e del dolore conviene evitare altri carichi. «Ma non è il mio caso – c’è fierezza nella sua voce. Io non scendo a compromessi.» Nel frattempo Barbara ha trovato un lavoro, grazie alla solidarietà di Pedrazzi. Lavora nell’ufficio amministrativo dell’Internazionale marmi macchine. Sul piazzale davanti agli uffici, all’interno della fiera, file di blocchi di marmo.

Marco Rovelli

      http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/336/26.htm

 

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