Galdòs e Buñuel: (psico)analisi della traduzione di Magdalena Jiménez Naharro e Giuseppe Martini

Galdòs e Buñuel: (psico)analisi della traduzione

di Magdalena Jiménez Naharro e Giuseppe Martini

 


Tra i grandi autori della letteratura spagnola, accanto a nomi universalmente noti, come Cervantes, un posto di particolare rilievo (forse il secondo) spetta a Benito Pérez Galdós, romanziere di grande fama in patria, ma scarsamente tradotto in Italia, ove se ne ha piuttosto una conoscenza indiretta, grazie a due celebri versioni cinematografiche messe in scena da Luis Buñuel: Nazarín e Tristana.
In questo lavoro si proporrà una comparazione tra l’opera filmica e narrativa dei due autori, cercando di cogliere, da un punto di vista psicoanalitico, il senso delle trasformazioni delle storie di Nazarín e di Tristana.
Inizieremo con una breve presentazione del romanziere spagnolo, considerando che dei due, specie in Italia, è indubbiamente il meno noto.
Tra l’altro, l’opera di Galdós meriterebbe una conoscenza accurata non solo per i suoi indiscutibili pregi letterari, ma anche per l’interesse specifico che possono destare la sua descrizione e le sue riflessioni intorno al tema della follia, a tratti grottesche e irreali, altrove attraversate da un fine acume psicopatologico.

Galdós nasce a Las Palmas (Isole Canarie) nel 1843, ma si trasferisce successivamente a Madrid dove lavora e vive per il resto della sua vita. Madrid sarà la protagonista principale dei suoi romanzi, rivolti a un pubblico ampio e non elitario, grazie ad uno stile chiaro e diretto, ereditato da precedenti esperienze giornalistiche. L’Autore mostra, in breve tempo, un grande ingegno creativo che lo avrebbe probabilmente portato al conseguimento del Nobel nel 1912, se non fosse stato ostacolato dall’opposizione dei settori reazionari della società spagnola ostili alla sua posizione di “sinistra” o, più propriamente, liberale di tendenza riformista.
Berkowitz, il miglior biografo di Galdós, ci parla della sua sottomissione completa agli eccessi e della sua disposizione alle avventure amorose; il che ebbe delle conseguenze negative sulla sua salute e le sue finanze. Negli ultimi tempi, specie la prima peggiorò terribilmente: cecità, arteriosclerosi … Morì il 4 gennaio 1920 nell’oblio più completo “come passando da un sogno all’altro” (Gullòn, 1966).
Galdós appartiene alla cosiddetta generazione del ’68 che annovera tra i suoi esponenti anche Leopoldo Alas Clarín e Emilia Pardo Bazán. Può essere considerato un realista in senso lato, in quanto la sua opera è soggetta alle influenze del Realismo europeo (Balzac, Flaubert, etc), ma aperta anche a soluzioni naturaliste o addirittura, sul versante opposto, spiritualiste e idealiste.
Come sopra si accennava, un interesse caratteristico dell’autore, che si rinviene soprattutto nelle opere maggiori (ma non nelle due qui considerate, se si eccettua la descrizione del personaggio della madre di Tristana, non presente in Buñuel) è rivolto, in accordo con certi interessi dell’epoca, alla dimensione psicopatologica(1). Tale interesse può essere opportunamente suddiviso in due ambiti distinti. L’uno rimanda più direttamente all’ “abnorme” e si sviluppa attraverso la descrizione di personaggi nevrotici, schizofrenici ed epilettici (rammentando ben inteso la peculiare concezione di quest’ultima malattia nella medicina ottocentesca, molto attenta ai suoi correlati psichiatrici); l’altro è contraddistinto dalla presenza all’interno dei romanzi di una dimensione onirica, ricorrente e polimorfa (sogni, incubi, allucinazioni, stati crepuscolari). Se nel primo caso si può rilevare un influsso diretto della psichiatria ottocentesca, nel secondo è piuttosto in gioco il clima del Romanticismo.
E’ soprattutto il paradigma nevrotico, e segnatamente quello isterico, ad essere proposto dal nostro Autore con una insistenza davvero rilevante. Di questa notazione -lo si vedrà- va tenuto conto nella lettura di Tristana: sebbene qui non vi sia traccia di configurazioni patologiche propriamente dette, la caratterizzazione del personaggio ne risente egualmente. E’ probabile che il polimorfismo della nevrosi isterica offra a Galdós maggiori occasioni per esibire il suo talento artistico. Oltre a ciò, la bizzarria dell’isteria, amplificata da una narrazione che si sente autorizzata a un uso quanto mai libero della fantasia, bene consente di armonizzare l’attitudine alla contemplazione ironica dell’autore con una concezione dell’esistenza che non è in realtà aliena da tonalità fortemente drammatiche, che in altre occasioni si rivelano nella insistenza con cui Galdós ripropone il tema della morte.
Non è comunque corretto proporre una visione unilaterale di un Galdós psicologo o psicopatologo. Infatti la sua opera si arricchisce anche a ragione degli interessi sociologici che pure la attraversano tanto da farci chiedere se ciò che l’autore mette in scena sia una patologia individuale, espressione di una patologia sociale, o viceversa. Una risposta a senso unico sarebbe comunque arbitraria. Piuttosto occorre sottolineare come i due aspetti interagiscano reciprocamente in modo tale che risulta particolarmente pertinente all’opera di Galdós (oltre che forse universalmente valido per quanto attiene alla produzione estetica) affermare che, come la follia si fa metafora (e pretesto per parlare) di un certo ordinamento sociale, così la descrizione della società e dei suoi riti diviene a sua volta metafora della follia e dello spaesamento dell’individuo. D’altra parte, è proprio l’intreccio fantasioso tra questioni individuali e questioni sociali che consente all’Autore, e con esso al naturalismo spagnolo, di acquisire una propria originalità stilistica che, recuperando tradizioni autoctone (la letteratura picaresca, Cervantes), lo renderà capace di aprirsi a multiformi sviluppi futuri, dal Surrealismo alla Generazione del ’98 e, tramite essa, al romanzo contemporaneo.
Nel complesso va dunque evidenziato come Galdós faccia della follia un uso talora spregiudicato e grottesco, se non “strumentale”, volto non solamente a una rappresentazione delle angosce umane, bensì anche a fungere da metafora della realtà sociale, talora attenuandone la crudezza attraverso l’ironia che traspare dalle descrizioni del bizzarro carattere dei protagonisti.

Quanto a Buñuel, vale qui rammentare la sua iniziale appartenenza, con Lorca e Dalì, al movimento della “Generazione del ’27”, da cui si allontanò, per recepire in seguito influenze da parte di movimenti avanguardisti, come l’ “Ultraismo” e il “Creazionismo”. Alfine, verso la fine degli anni Venti, dopo il suo arrivo a Parigi, approdò nel Movimento Surrealista, che continuò a segnare sino alla fine la sua opera, nonostante il suo allontanamento del ’32, per cui addusse a giustificazione una sorta di restringimento di orizzonti e isolamento dal mondo cui si sentiva esser stato da esso condotto.
“Le due esperienze che hanno maggiormente contrassegnato la mia esistenza, che più hanno avuto influenza su di me, – sostiene Buñuel in uno scritto autobiografico- sono: il mio soggiorno presso i gesuiti -la più grande limitazione- e il mio ingresso nel gruppo surrealista -la libertà più grande- La mia vita si è sviluppata all’ombra di questo conflitto” (cit. in Sánchez Vidal, 1991, p. 82)
A proposito della religione, così altrove si esprime: “La mia infanzia trascorse in una atmosfera quasi medioevale. (…) I due sentimenti basici della mia infanzia che sarebbero continuati sino all’adolescenza inoltrata sono stati un profondo erotismo, all’inizio sublimato in una grande fede religiosa, e una permanente coscienza della morte”. (ibidem, p. 59)

Analisi comparata romanzo-film

Tristana

Si confronteranno ora le opere di questi due autori al fine di osservare come, al di là della sostanziale identità dell’intreccio, si sviluppino divergenze e variazioni, di cui cercheremo di cogliere il senso utilizzando anche lo strumento della psicoanalisi.
Partiamo dall’opera più recente, in quanto consente un percorso, forse più articolato, di cui ci si varrà anche nella lettura di Nazarín.
La storia di Tristana, nelle sue linee essenziali, presenta un intreccio abbastanza elementare, che come tale viene ripreso da Buñuel: ospite in casa dell’anziano don Lope, amico dei suoi defunti genitori, Tristana ne subisce il plagio e ne diviene l’amante. Innamoratasi però a sua volta di un giovane pittore, cerca di liberarsi, senza riuscirvi, del rapporto con don Lope. Alla fine è invece Horacio ad allontanarsi (ed essere allontanato), quando Tristana viene sottoposta, a seguito di una malattia, all’amputazione di una gamba. Il romanzo e il film si concludono in modo difforme. Nel primo, Tristana sposa l’anziano padre-amante e vive con lui in una sorta di rassegnata relazione che forse (questo l’interrogativo, peraltro ironico, con cui termina il libro) non esclude la felicità. Nel secondo si vendica di Don Lope assumendo un’atteggiamento freddo e tirannico, sino a favorirne la morte evitando di chiamare il medico in suo soccorso ed esponendo il vecchio già agonizzante a pericolose correnti d’aria.
Al di là della conclusione, la struttura del romanzo risulta sovvertita dal regista per più ragioni.
In primo luogo diverso è il rapporto, all’interno di film e romanzo, tra intreccio e fabula. Buñuel taglia la prima parte, inerente gli avvenimenti antecedenti la convivenza tra don Lope e Tristana e l’innamoramento di costei per Horacio, così come la corrispondenza epistolare tra questi ultimi due.
A ciò fa eco peraltro il diverso rilievo che i personaggi assumono: se don Lope e Saturna mantengono molto dei loro corrispettivi galdosiani, Buñuel riduce di gran lunga di importanza la figura del pittore, che già nel romanzo assumeva paradossalmente la configurazione di personaggio secondario, in grado, però, almeno di attivare emozioni e mutamenti nell’animo di Tristana. In Buñuel non solo Horacio è decisamente svilito, ma per di più, in netto contrasto con Galdós, senza storia: cosa che ne fa un personaggio mediocre, pronto a ritirarsi frettolosamente nell’ombra.
Questo si riflette anche nella raffigurazione di Tristana. Se nel romanzo ella acquisisce una certa emancipazione, seppur ambigua, attraverso l’amore per Horacio, che fa emergere in lei non solo una coscienza della propria identità femminile e dei propri diritti, ma anche una impensabile vena artistica, in Buñuel il loro rapporto è banalizzato e assolutamente privo di tale funzione maieutica.
Non solo: esso è carente anche di un reale spessore sessuale, in quanto tale livello è pressochè interamente spostato sul rapporto, inesistente nel romanzo, tra Tristana e il figlio sordomuto della sua domestica. E’ una sessualità non solo non attraversata da una corrente affettiva, ma anche incompiuta, volta a sollecitare un desiderio nell’altro (Tristana che a mò di sfida si scopre il seno alla finestra, dinanzi al sordomuto) piuttosto che ad appagare il proprio.
Ciò è peraltro coerente con la raffigurazione buñueliana della protagonista, certo non tormentosamente divisa, come nel testo originario, tra la passione amorosa per Horacio, il riconoscimento per don Lope e l’astio per lo stesso nel momento in cui emerge la coscienza della propria identità femminile. Piuttosto, è una Tristana incapace di provare un genuino coinvolgimento affettivo, in cui si opera invece una conversione dell’iniziale ambiguità e indecisione dei suoi sentimenti verso don Lope in odio e rabbia, laddove l’ambiguità, seppur modificata e sublimata dalla passione musicale, rimane sostanzialmente in primo piano in Galdós.
La violenza dei sentimenti di Tristana è nel film come anticipata, quasi in apertura, dall’inserzione nel tessuto narrativo di un’immagine onirica (la testa di don Lope che pende al posto del battente di una campana) che si confonde con la narrazione stessa. E’ singolare che Buñuel, in questa sua trasformazione radicale del testo galdosiano, al fine di convertire l’ambivalenza di Tristana in odio e manifesto desiderio di morte del suo padre-amante, abbia adottato una tecnica galdosiana per eccellenza, quella della inserzione del sogno, che è però assente proprio in questo (e pochi altri) suoi romanzi.
Come è possibile leggere da un versante psicoanalitico la differenza tra il romanzo e il film? Occorre premettere che, al pari degli altri possibili, anche il vertice teorico qui adottato può rendere solo parzialmente ragione di tali trasformazioni.
Del resto, nel caso specifico, assume notevole rilevanza la dimensione sociale e politica in cui è inserita la narrazione tanto letteraria che filmica esaltata, in Buñuel, da un messaggio di protesta sociale che forse si incarna proprio in Tristana. Ciò a sottolineare come la dimensione polisemica e ambigua propria di ogni opera d’arte la renda anche veicolo ed espressione di una simbologia in un certo senso contraddittoria: così se da un lato Tristana può essere intesa come espressione mascherata di una coscienza sociale evoluta che rifiuta l’ingiustizia di una società arcaica e classista, dall’altro, come qui si vedrà, si fa portatrice di passioni e pulsioni alquanto primitive e mal integrate. Forse questa contrapposizione tra l’aspetto “progressivo” (sul piano sociale) e quello “regressivo” (sul piano affettivo) della protagonista è un effetto prodotto proprio dallo stile surrealista del regista, esito, magari involontario, di una attenzione rivolta soprattutto agli aspetti contraddittori della realtà.
L’aspetto regressivo della Tristana buñueliana rispetto a quella galdosiana lo si può rinvenire nel passaggio da una configurazione emozionale che rimanda alla ambivalenza edipica verso il padre ad un’altra intrisa di odio e rabbia preedipici(2). In Galdós, pressochè contemporaneo di Freud, è in scena un continuo e alternante movimento di distanziamento e avvicinamento della protagonista rispetto a don Lope. Il riconoscimento e la gratitudine di Tristana sottendono palesemente una corrente erotica, che però trova nell’amore per Horacio più adeguati canali di espressione. La costanza di tale movimento oscillatorio sino alle ultime pagine del libro sembra suggerire tra l’altro, in suggestiva concordanza con il pensiero originario di Freud, la difficoltà e la parzialità, per la donna, del superamento del complesso di Edipo. In questo senso, come ricordavo in apertura, il paradigma isterico, che all’Edipo è correlato, è comunque presupposto, seppur non messo in scena nelle sue valenze patologiche.
La Tristana di Buñuel (verrebbe da dire: evocatrice piuttosto di una metapsicologia kleiniana) appare al contrario portatrice di pulsioni sessuali arcaiche, pregenitali, parziali, coartate dalla prevalente presenza di una destrudo, che limita drasticamente la sua capacità di coinvolgimento affettivo sia verso don Lope che Horacio. La fantasticheria erotica (la scena del sogno, lo scambio erotico con Saturnio dal balcone), non si converte in sessualità genitale: al contrario, quasi sembrerebbe che Tristana faccia mostra di una certa indifferenza. E’ singolare, e se si vuole ancora contraddittorio, il fatto che proprio nel film sia invece utilizzata una simbologia che molti, probabilmente a ragione, hanno ritenuto di tipo fallico (la testa di don Lope al posto del pendolo della campana, Tristana che inzuppa il pane nell’uovo), proprio laddove la genitalità è misconosciuta.
Si potrebbe affermare che mentre in Galdós l’accento è posto sulla amputazione-castrazione e sulla configurazione isterica che questa sottende, Buñuel enfatizza piuttosto il momento del recupero: la gamba finta (che nel romanzo la protagonista rifiuta) come pene-feticcio che dota l’eroina di una mascolinità altrettanto posticcia, che si gioca soprattutto sul livello oppressione-dominio(3).
Tristana appare così portatrice di una sessualità perversa, in cui emerge il ruolo centrale dell’aggressività nell’eccitazione erotica, la trasformazione delle relazioni di dipendenza in relazioni aggressivamente distruttive (Meltzer, 1982), lo schiacciante predominio degli impulsi aggressivi su quelli libidici (Kernberg, 1987) e infine la prevalenza delle tendenze sado masochistiche.
Questo aspetto è particolarmente evidente nella Tristana buñueliana. Se in Galdós non vi è risposta alla domanda perchè mai Tristana rinunci alla sua felicità con Horacio, pur non essendo insuperabili gli ostacoli che li separano (Bianchini, 1991), lo stesso quesito trova in Buñuel una chiara risposta nella vocazione autodistruttiva della protagonista. La sua fine rovinosa (l’amputazione della gamba) sembra imputabile ad un destino esterno alla volontà umana, ma in realtà è perfettamente coerente con la rabbia della Tristana della prima parte del film, e con la Tristana dell’ultima parte che rinuncia ad Horacio per “dedicarsi” alla vendetta nei confronti di don Lope. Così, aspetti etero ed autodistruttivi, sadici e masochistici vanno strettamente di pari passo e la malattia fisica diventa quasi un pretesto per mettere in atto e portare alle sue radicali conseguenze questo jeu de massacre.
Così, se l’amputazione che subisce la Tristana di Galdós può rimandare ad una fantasia di castrazione a carattere punitivo nei confronti tanto della sessualità quanto delle sue sublimazioni nell’arte e nell’aspirazione all’indipendenza sociale, in Buñuel Tristana è piuttosto una donna fallica che si riappropria fittiziamente di un’identità maschile attraverso il pene-bastone-gamba di legno. Come si vede, di nuovo uno sconvolgimento della sessualità, una sorta di raffigurazione polimorfa e combinata, maschile e femminile. Ma questo aspetto di indistinzione, oltre che in Tristana di per sé e nella sua sessualità, è ancora più evidente nel rapporto Tristana-don Lope, nel senso che non vi è più differenza tra distruttività e autodistruttività, non vi è più la iniziale ambiguità e differenziazione edipica segnalata dalla costruzione di un rapporto triangolare (Tristana-Horacio-don Lope), piuttosto c’è lo scadere in una perfetta fusionalità tra i due sotto l’egida del reciproco vincolo di morte, come è tipico delle situazioni sadomasochistiche.

Nazarín

In Nazarín, che verrà qui trattato più brevemente, si narra di un giovane sacerdote che sceglie la via della povertà e del sacrificio. Ingiustamente accusato dalla legge, a seguito del suo ingenuo buon cuore che lo porta a proteggere gli umili e i diseredati, inizia una fuga-pellegrinaggio in compagnia di due donne (una prostituta e una giovane afflitta da pene d’amore), prestando ovunque la sua opera di misericordia, ma sempre fallendo o addirittura suscitando involontariamente violenza. Alfine è condotto in carcere, ove è schernito anche dai suoi compagni di cella. Nell’enigmatica scena finale, cadenzata dai tamburi del Venerdì santo, lo si vede colto dal dubbio, angosciato e incerto.
Anche qui Buñuel adotta un procedimento similare a quanto visto in Tristana: attraverso l’esasperazione di certi aspetti pure indubbiamente presenti nel romanzo, ne deriva, a poco a poco, una completa trasfigurazione dell’immagine del protagonista, sì che il discorso religioso si fa blasfemo e irriverente(4). Infatti, non solo Nazarín fallisce, non solo -specie nell’emblematica scena finale(5)- è colto dal dubbio: piuttosto, ovunque passa semina, suo malgrado, morbose passioni erotiche e violenza. Già nella prima parte del film, un’icona di Cristo che ride sguaiatamente anticipa questa corrente che si fa, via via, più evidente: andato umilmente a chiedere lavoro in un cantiere, solleva involontariamente una protesta popolare che si conclude con dei sinistri rumori di arma da fuoco; venerato suo malgrado come un santo finisce col fomentare la superstizione; giunto al capezzale di una giovane morente non riesce a far sì che costei volga il pensiero a Dio e lo distolga dal suo amante, che lo scaccia con violenza; messosi a predicare intorno alla morte, il suo discorso suscita, a mo’ di scherno, il muggire di una vacca; accettata come compagna di peregrinaggio la giovane Beatrice costei, in una crisi mistico-erotica, nega-confessa la sua attrazione sessuale per lui (e torna alfine dal suo antico amante). Infine fallisce anche nel tentativo di redimere il “buon” ladro che lo difende in carcere.
Attraverso queste continue inserzioni, il Nazarín di Buñuel si trasforma così in un seminatore di violenza e di insano desiderio. Ma davvero dell’ingenua figura di Galdós e dell’esortazione alla fede autentica che attraversa il romanzo in contrapposizione al formalismo religioso (problema all’epoca molto sentito) non rimane nulla? In realtà anche il personaggio del film è quanto mai limpido, onesto e generoso. Ma Buñuel muove oltre, e così facendo, sovverte. Anche qui si affiancano due possibili, convergenti letture. La prima, centrata sulla sociologia del fenomeno religioso, evidenzia come non solo la società sia pronta a schernire questo novello Cristo (e qui si arrestava Galdós), ma anche come esista un legame inscindibile tra l’amore che Nazarín predica e l’odio che involontariamente suscita (è il bene stesso a generare il male). La seconda, più giocata sul piano psicologico e psicodinamico, mostra parimenti come sia impossibile separare odio ed amore, Eros e Thanatos. Nazarín e i tanti personaggi “malvagi” che a lui si oppongono (in questo senso potremmo cogliere anche un vago accenno alla tematica del doppio, che emerge invece in modo chiaro, seppur limitato a poche pagine, a un certo punto del romanzo) possono vedersi come rappresentazioni parziali di una realtà psichica (oltre che sociale) composita, in cui lo stretto intreccio tra pulsioni di vita e pulsioni di morte fa sì che dalle une si generino le altre. Tuttavia la dimensione di vita non riesce a trattenere e imbrigliare quella mortifera, così come l’affettività di Tristana veniva adombrata dalla sua distruttività erotizzata.
Da questo punto di vista il film di Buñuel non è tanto irrisorio nei confronti della religione, quanto espressione di un pessimismo più generale, che (per inciso) lo avvicina all’ultimo Freud. Non è l’amore in sè a suscitare il suo contrario, quanto i processi di idealizzazione estrema che lo accompagnano. Da questo punto di vista, Nazarín verrebbe rovinato dal suo Io ideale ipertrofico (senza mezzi termini plasmato sulla figura del Cristo stesso) e questo lo condurrebbe sullo stesso piano dei suoi avversari, che ne sono totalmente privi. Se assumiamo un Io ideale smisurato alla base del fallimento, come anche della involontaria “malvagità” di Nazarín, possiamo forse riunire i fili di letture diverse, volte all’analisi psicodinamica, all’analisi del fenomeno religioso e all’analisi dei possibili esiti di una ideologia umanitaria e progressiva: in tutti e tre i casi l’idealizzazione esasperata può convertire un obiettivo nel suo contrario, l’aspirazione al bene e alla giustizia nel proliferare di nuove malvagità e ingiustizie. Se la storia ce ne dà infiniti esempi, essi non mancano nemmmeno sul piano individuale, ove appunto un ideale smisurato puo convertirsi in una sorta di precursore persecutorio del superIo e soffocare le potenzialità di una persona(6).
Immediata appare la correlazione col problema del misticismo. Più in particolare, potremmo considerare come la disposizione all’impotenza e all’umiliazione di Nazarín possano mascherare un radicale di onnipotenza, che è forse proprio ciò di cui prende atto, rimanendone sconvolto, nella scena finale del film. E’ tale radicale di onnipotenza che genera negli altri quella distruttività di cui è esso stesso intriso, come se serbasse in sè un nucleo demolitivo che si manifesta non direttamente in Nazarín, bensì inducendo, involontariamente, un comportamento malvagio, attraverso una sorta di “identificazione proiettiva”.

Tradurre-tradire

E’ stato soprattutto Paul Ricoeur a collocare la traduzione tra “un desiderio di fedeltà” e “un sospetto di tradimento”, proponendo “l’alternativa fedeltà versus tradimento” e la sua possibile dissoluzione nell’alternativa “traducibile versus intraducibile” (Ricoeur, 2001). Effettivamente la traduzione implica sempre una sorta di aggressione del testo che va di pari passo con la sua comprensione: “un atto di incursione e di estrazione: la comprensione dell’altro come atto intimamente violento” sino a “l’incorporazione dell’altro nel nostro mondo linguistico e culturale”
(Jervolino, 2001).
I segni della violenza della traduzione risultano particolarmente evidenti nelle letture di Buñuel dei testi galdosiani, sebbene a rigore anche la problematica del tradimento risulti difforme nel caso delle traduzioni interlinguistiche rispetto alle intersemiotiche (Jakobson, 1966), tra cui evidentemente vanno ascritte le versione cinematografiche di un testo letterario. A tal proposito c’è una significativa sfumatura di accenti tra la posizione dell’ermeneutica che, sulla base di una sostanziale identità tra il comprendere, l’interpretare e il tradurre, tende a cogliere l’elemento unificante dei diversi tipi di traduzione, e quella linguistica-semiologica che più facilmente sottolinea la diversità tra gli stessi. Così ad esempio Umberto Eco (2003) si mostra scettico circa l’opportunità di definire “traduzione” la variante intersemiotica preferendo piuttosto chiamarla trasmutazione o adattamento. Del resto lo stesso Ricoeur nel riflettere a proposito della traduzione interlinguistica, applicata a due lingue completamente differenti tra loro, parla, citando Detiennes dello “choc dell’incomparabile”. Essa diviene così una sorta di costruzione dei comparabili. In questo modo i testi incommensurabili “sono stati resi commensurabili ad opera della traduzione-costruzione” (Ricoeur, 2003).
La Tristana e Il Nazarín buñueliani paiono particolarmente atti a mostrare come il tradimento anche violento del testo letterario, talora sotteso da una compiaciuta adesione di superficie alla trama narrativa, si dissolva tuttavia esso stesso nell’aspetto “costruttivo”, in quella che sempre Ricoeur chiama “una equivalenza senza identità”. Se dunque le figure di Nazarín o della Tristana di Galdós sono così radicalmente sconvolte in Buñuel attraverso un’opera di cinica decostruzione e ricostruzione, non di meno permane un filo segreto che unisce le une alle altre. Insomma, la vistosità del tradimento cela un’attestazione di fedeltà, che si traduce soprattutto in un’adesione e un’amplificazione della vocazione surrealista di Benito Pérez Galdós.
Se infatti, come qui si è cercato di fare, è possibile cogliere al di là delle similitudini di superficie, una più consistente differenza ed esplicitarne il senso(7), occorrerà anche osservare come, soprattutto su di un piano formale, sia difficile parlare della differenza tra Buñuel e Galdós senza che questa non si converta a sua volta, di nuovo, proprio nel suo contrario: in una poi non troppo latente affinità che testimonia un rapporto a “scatole cinesi” tra i due autori: la somiglianza contiene la differenza e questa a sua volta maschera una nuova somiglianza.
Tale identità, che sottende la differenza, si potrà rinvenire soprattutto nella dimensione perturbante dell’effetto surreale. Etimologicamente, “Unheimliche” rinvia al familiare (“focolare”), al terrificante e, per terzo, al segreto, come ipotetico anello di congiunzione tra i due. Il perturbante nasce insomma dall’iscrizione del terribile nella dimensione della quotidianità, e provoca di conseguenza, come suggerisce Franco Rella (1981), un effetto di “spaesamento”. In tal senso, sia il latente surrealismo di Galdós che quello palese di Buñuel sono giocati sul perturbante: vale a dire sull’inserzione del meraviglioso all’interno di una narrazione e di un linguaggio realista. A ciò si perviene, nella narrazione del primo, attraverso la caratterizzazione minuziosamente verista, ma insieme grottesca ed esasperata di alcuni personaggi, mentre nel cinema del secondo grazie al frequente uso del piano lungo, di una tecnica di montaggio abbastanza tradizionale, di lunghezze focali medie. Tutto ciò vien quasi a contrassegnare un predominio dell’ovvio, da cui improvvisamente emerge senza soluzione di continuità l’Unheimliche, nella forma del paradosso, del sogno, della sovversione tecnica (grandangoli, sfocature, inquadrature inconsuete dal basso o dall’alto), della incertezza e contraddittorietà del senso, che raggiungono il loro acme nella scena finale di Nazarín, cadenzata dal suono dei tamburi di Calanda.

Bibliografia

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Sánchez Vidal A.: Luis Buñuel, Cátedra, Madrid, 1991.

Note:

1) Per tale aspetto si rimanda a Jiménez Naharro M.: I personaggi squilibrati nell’opera di Galdòs.
2) Con tali termini ci si riferisce solitamente a sentimenti alquanto primitivi, a carattere fondamentalmente aggressivo, che precedono il riconoscimento dell’altro come possibile oggetto d’amore (che è invece centrale nella fase edipica, ove le due correnti, di amore e di odio, si scontrano e integrano al tempo stesso)
3) Scrive Buñuel a proposito della sua opera: “Non avendolo mai rivisto, mi è difficile parlare del film oggi, ma ricordo che mi era piaciuta la seconda parte, quella del ritorno della giovane donna con la gamba tagliata. Sento ancora il suo passo nel corridoio, il rumore delle stampelle e la conversazione infreddolita dei preti intorno alle tazze di cioccolata” (Dei miei sospiri estremi,p.257)
4) “Ho mantenuto l’essenza del personaggio di Nazarín- scrive Buñuel- come lo ha scritto Galdós, ma adattando alla nostra epoca delle idee formulate cent’anni fa, o quasi. Alla fine del libro Nazarín sogna di celebrare una messa. Ho sostituito quel sogno con la scena dell’elemosina. Inoltre, ho inserito nuovi elementi nello svolgimento della storia, lo sciopero per esempio, e durante l’epidemia di peste la scena con la moribonda-ispirata dal Dialogo fra un prete e un moribondo di Sade- dove la donna invoca l’amante e rifiuta Dio” (Dei miei sospiri estremi, pp.227-8)
5) Qui Buñuel riprende, nella colonna sonora, il tema dei tamburi di Calanda del Venerdì santo, perturbante reminescenza degli anni della sua giovinezza: “Ignoro la causa di questa emozione che rassomiglia abbastanza a quella provocata talvolta dalla musica. Probabilmente e’ dovuta alle pulsazioni di un ritmo segreto, che ci colpisce dall’esterno trasmettendoci una specie di brivido fisico, al di la’ di ogni ragione (…) Fenomeno straordinario, potente, cosmico, riguardante il nostro inconscio collettivo, i tamburi fanno tremare la terra sotto i piedi (Dei miei sospiri estremi, pp.29-30)
6) Si rammenta come nella letteratura psicoanalitica si opera di solito una distinzione tra Io ideale e Ideale dell’Io. Se il secondo rimanda al SuperIo ed è dunque espressione di uno psichismo più evoluto, il primo è correlato al narcisismo infantile e implica piuttosto una negazione dell’altro. Infatti, notano Laplanche e Pontalis, “il testo in cui Freud introduce il termine (Io ideale) pone, all’origine della fomazione delle istanze ideali della personalità, il processo di idealizzazione con cui il soggetto si propone di conquistare lo stato detto di onnipotenza del narcisismo infantile” (1981, p. 270)
7) Se volessimo ridurre tale differenza in una formula, si potrebbe sostenere che, come in Tristana l’accento di Buñuel e’ posto sulla sessualità pregenitale e perversa e non su quella edipica (il paradigma isterico di Galdós), così, in Nazarín, l’accento viene posto sull’Io ideale e non sull’ideale dell’Io

Indirizzo e qualifica degli Autori:

Magdalena Jiménez Naharro, psicologa, lettore di lingua spagnola, Università Roma Tre
Giuseppe Martini, psicoanalista SPI, primario psichiatra DSM Roma E; giusmart@iol.it

http://www.psychomedia.it/pm/culture/liter/jimenez-martini.htm

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