Breyten Breytenbach di Gialuigi Ricuperati

 

Ti chiami Breyten Breytenbach, hai circa trentacinque anni e sei un poeta sudafricano. Sei sposato con una donna vietnamita che hai conosciuto a Parigi. Sono i primi anni settanta, un’era d’incubo geopolitico diffuso. Vivi lontano. Il paese che hai lasciato alle spalle è scivolato in un pozzo nero di follia razzista. Soffri di un’intollerabile nostalgia della terra, del paesaggio, della luce – ma il regime ha negato il visto a tua moglie, bollando il matrimonio di un bianco e un’asiatica come contrario alle leggi dell’apartheid. I tuoi versi – scritti in un afrikaan denso e infiammabile, mai così vivo fino a quel momento – puntano sempre più recisamente verso la denuncia degli orrori politici di Pretoria. Sono attacchi frontali e senza requie, che giungono a irridere persino il primo ministro del tuo paese, Balthazar John Vorster. Che se ne accorge. Perché se ne accorge anche il resto della popolazione. In patria sei diventato una celebrità amata, odiata e rispettata. Alzi la posta dello scontro. Il visto di tua moglie alla fine arriva, ma la tensione della lotta non si affievolisce. Vieni seguito. Ti viene consigliato di lasciar perdere. Ti viene concessa ancora una volta la possibilità di espatriare. In Europa cambi volto e generalità: i tuoi documenti portano ora il nome di Christian Galaska. Nel 1975 t’imbarchi su un Boeing della South African Airlines e poche ore dopo atterri a Jan Smuts, l’aeroporto di Johannesburg. Qualche settimana dopo, mentre goffamente cerchi di tenere insieme i panni del ricercato speciale, dell’intellettuale e dell’agente sotto falso nome, realizzi che la sola via d’uscita è scappare. Nel giorno della tua partenza, loro lo sanno ma tu no, è previsto anche l’arrivo di Vorster da un proverbiale viaggio di stato in America Latina. L’aeroporto pullula di soldati, mitra, ispezioni. All’improvviso senti una mano sulla spalla, un signore, dietro di te, domanda:

«È lei il signor Galaska?».
«Il nome che vedrà in fondo a questo documento è Breyten Breytenbach. È il mio nome. Non è il solo; dopotutto, cos’è un nome?» – così iniziano Le confessioni di un terrorista albino, di Breyten Breytenbach, appena riproposto da Alet (18.00 euro, traduzione di Maria Teresa Carbone). Non è solo un nome: c’è un cambio di persona. Il signor Galaska smette di esistere e la vita del poeta diviene un tetro reticolo di interrogatori, segreti, trappole linguistiche, delazioni, speranze, e un processo che in pochi giorni vede l’imputato cercare la pietà della corte, ritrattare tutto, auspicando la pena minima. La condanna è invece massima – nove anni. Pare che il giudice, tra la fine del processo e la pronuncia della sentenza, abbia ricevuto una chiamata dal primo ministro in persona. Due anni a Pretoria, nel braccio della morte, massima sicurezza. A Breytenbach vengono vietati il disegno e la pittura, ma essendo un celebre virtuoso della lingua nazionale, gli viene concesso di scrivere e addirittura pubblicare. Il flusso di parole, i versi e missive, sembra incagliarsi nel delirio della cattività allo stesso modo in cui le creature acquatiche finiscono sulle spiagge, esanimi e incapaci di agire. L’abisso della disperazione viene toccato quando il prigioniero scrive alle autorità offrendo la propria collaborazione alla polizia segreta. L’offerta viene rifiutata, e passa più di un anno prima del trasferimento al più mite penitenziario di Ploosmoor. Nelle Confessioni il ‘signor Investigatore’, ripetuto in guisa di elemento ritmico, funziona da motore mobile della prosa e della narrazione, nel microspazio per cui ogni elemento fenomenico, un rituale, il rimbalzo di una luce o l’assenza degli specchi, diventa occasione per accelerare il senso: rallentare, dilatare, espandere, cristallizzare, modulare le relazioni instabili tra il quasi-niente che lo circonda e il moltissimo che lo ha condotto fin lì. Le Confessioni sono un capolavoro del memoir: per la qualità della prosa – battente lirica ricorsiva; la complessa, ricca disseminazione strutturale; la varietà di caratteri, scene, affondi; l’intensa progressione emotiva verso la fine del tunnel.
Che arriva in un pomeriggio di dicembre del 1982, lo stesso anno in cui l’altro brutale regime dell’emisfero australe, la junta argentina, cade per gli effetti della guerra alle isole Falkland. Il primo ministro non è più Vorster, e le condizioni esterne e interne sembrano più favorevoli alla clemenza anticipata. Ecco il terrorista albino finalmente libero, diretto a Occidente, dove potrà riprendere a scrivere e dipingere: «Confusione quando arriva il carrello del pasto: non riesco a ricordare come si usano coltello e forchetta, in quale ordine i piatti. Ho usato solo il cucchiaio, tanto a lungo. Tanto a lungo. Non una parola, no. L’Africa che va. Yolande, Lady One, Hoang Lien ha una mano fra le mie. Poi si addormenta. Per dormire il sonno dei molto, molto stanchi. Inserisco le cuffie. Handel: Concerto pour orgue en Fa majeur: ‘Le Coucou et le rossignol’. Arriveremo a Roisy-Charles de Gaulle alle 21,40. Pioverà. È finita…»
Qualche anno dopo, a New York, Breytenbach visiterà assieme a Lawrence Weschler il Metropolitan Museum. Si avvicinerà alla Donna con una brocca d’acqua di Vermeer, dipinto ad olio nel 1664. Il volto teso, l’occhio analitico, nessuna parola. Poi, indicando la mappa alle spalle della figura femminile, immersa nel bassorilievo di luce perfetta, dirà al suo amico: strano, come da questa apparente serenità possano essere venuti fuori i Boeri. Eccoli, li vedi, partono per l’Africa.

 

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