….Un episodio riferitoci da Terenzio Mamiani può essere assunto come il simbolo della solitudine leopardiana nella cultura italiana di allora: mentre il Manzoni è onorato e vezzeggiato perché rappresenta idee largamente diffuse e favorite, moderate e non rivoluzionarie, il Leopardi con il suo estremismo ideologico non incontra simpatie e rimane confinato ai margini.
«Spesso il Leopardi assisteva a coteste apoteosi [del Manzoni]. Ed io vedutolo una sera rincantucciato e solo, mentre il fiore de’ letterati e degli studiosi affollavasi intorno al Manzoni, lo incitai a manifestarmi quello che gliene paresse » [28].
Questo isolamento fece rinascere in lui quello spirito antagonistico proprio della sua gioventù, quando esaltava gli eroi che soli combattevano contro il fato. Uno sdegno accumulato negli anni sospinse il poeta oltre la soglia della passione polemica e del disprezzo. Nelle Canzoni giovanili aveva incitato all’azione eroica; ora s’impegna in una strenua battaglia ideologica. Aveva sempre avuto bisogno di una fede con cui buttarsi allo sbaraglio, anche contro tutti. Alla nuova fede sarà fedele fino alla morte.
Le due operette che scrisse nel 1827 rivelano una carica polemica che le distingue da quelle del 1824. Il suo materialismo è dichiarato in alcune note nello Zibaldone dello stesso anno, in una delle quali sostiene che non è affatto un paradosso affermare che la materia pensa. «Che la materia pensi, è un fatto» [29].
Il Copernico è una lontana anticipazione della Ginestra: nella teoria copernicana il poeta ravvisa la demolizione definitiva della vecchia metafisica e l’inizio del pensiero moderno che elimina il dualismo fra cielo e terra; tanto che è possibile prospettare l’ipotesi della abitabilità di infiniti altri pianeti. Dalla teoria copernicana scaturisce l’esigenza di una nuova visione dell’universo, che il Leopardi ritiene inconciliabile con la vecchia credenza antropocentrica che voleva l’uomo signore dell’intero creato; alla quale credenza però l’uomo rimane inevitabilmente legato finché crede d’essere l’unica creatura razionale e che Dio in persona sia sceso su questo infimo pianeta per amore degli uomini. Così parla Copernico al Sole: «Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi [del moto della terra] non appartengono alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi della dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere» [30].
La scienza, dunque, è nemica d’ogni principio d’autorità e distrugge tutte le costruzioni fantastiche. Gli uomini si troveranno ad essere roba diversa da quello che hanno immaginato di essere: così dice il Leopardi. Intendeva: si accorgeranno, se vorrano ragionare rettamente, di non essere individui creati da Dio a sua immagine e somiglianza…..
http://www.classicitaliani.it/leopardi/critica/Biral_posizione_storica_Leopardi.htm
IL COPERNICO: DIALOGO
Scena prima.
L’Ora prima e il Sole
Ora prima. Buon giorno, Eccellenza.
Sole. Sì: anzi buona notte.
Ora prima. I cavalli sono in ordine.
Sole. Bene.
Ora prima. La diana è venuta fuori da un pezzo.
Sole. Bene: venga o vada a suo agio.
Ora prima. Che intende di dire vostra Eccellenza?
Sole. Intendo che tu mi lasci stare.
Ora prima. Ma, Eccellenza, la notte già è durata tanto, che non può durare più; e se noi c’indugiassimo, vegga, Eccellenza, che poi non nascesse qualche disordine.
Sole. Nasca quello che vuole, che io non mi muovo.
Ora prima. Oh, Eccellenza, che è cotesto? si sentirebbe ella male?
Sole. No no, io non mi sento nulla; se non che io non mi voglio muovere: e però tu te ne andrai per le tue faccende.
Ora prima. Come debbo io andare se non viene ella, ché io sono la prima Ora del giorno? e il giorno come può essere, se vostra Eccellenza non si degna, come è solita, di uscir fuori?
Sole. Se non sarai del giorno, sarai della notte; ovvero le Ore della notte faranno l’uffizio doppio, e tu e le tue compagne starete in ozio. Perché, sai che è? io sono stanco di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono In su un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di non volere altra fatica per questo; e che se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i loro fuochi accesi, o proveggano in altro modo.
Ora prima. E che modo, Eccellenza, vuole ella che ci trovino i poverini? E a dover poi mantenere le loro lucerne, o provvedere tante candele che ardano tutto lo spazio del giorno, sarà una spesa eccessiva. Che se fosse già ritrovato di fare quella certa aria da servire per ardere, e per illuminare le strade, le camere, le botteghe, le cantine e ogni cosa, e il tutto con poco dispendio; allora direi che il caso fosse manco male. Ma il fatto è che ci avranno a passare ancora trecento anni, poco più o meno, prima che gli uomini ritrovino quel rimedio: e intanto verrà loro manco l’olio e la cera e la pece e il sego; e non avranno più che ardere.
Sole. Andranno a caccia delle lucciole, e di quei vermicciuoli che splendono.
Ora prima. E al freddo come provvederanno? che senza quell’aiuto che avevano da vostra Eccellenza, non basterà il fuoco di tutte le selve a riscaldarli. Oltre che si morranno anco dalla fame: perché la terra non porterà più i suoi frutti. E così, in capo a pochi anni, si perderà il seme di quei poveri animali: che quando saranno andati un pezzo qua e là per la Terra, a tastone, cercando di che vivere e di che riscaldarsi; finalmente, consumata ogni cosa che si possa ingoiare, e spenta l’ultima scintilla di fuoco, se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come pezzi di cristallo di roccia.
Sole. Che importa cotesto a me? che, sono io la balia del genere umano; o forse il cuoco, che gli abbia da stagionare e da apprestare i cibi? e che mi debbo io curare se certa poca quantità di creaturine invisibili, lontane da me i milioni delle miglia, non veggono, e non possono reggere al freddo, senza la luce mia? E poi, se io debbo anco servir, come dire, di stufa o di focolare a questa famiglia umana, è ragionevole, che volendo la famiglia scaldarsi, venga essa intorno del focolare, e non che il focolare vada dintorno alla casa. Per questo, se alla Terra fa di bisogno della presenza mia, cammini ella e adoprisi per averla: che io per me non ho bisogno di cosa alcuna dalla Terra, perché io cerchi di lei.
Ora prima. Vostra Eccellenza vuol dire, se io intendo bene, che quello che per lo passato ha fatto ella, ora faccia la Terra.
Sole. Sì: ora, e per l’innanzi sempre.
Ora prima. Certo che vostra Eccellenza ha buona ragione in questo: oltre che ella può fare di sé a suo modo. Ma pure contuttociò, si degni, Eccellenza, di considerare quante cose belle è necessario che sieno mandate a male, volendo stabilire questo nuovo ordine. Il giorno non avrà più il suo bel carro dorato, co’ suoi bei cavalli, che si lavavano alla marina: e per lasciare le altre particolarità, noi altre povere Ore non avremo più luogo in cielo, e di fanciulle celesti diventeremo terrene; se però, come io aspetto, non ci risolveremo piuttosto in fumo. Ma sia di questa parte come si voglia: il punto sarà persuadere alla Terra di andare attorno; che ha da esser difficile pure assai: perch’ella non ci è usata; e le dee parere strano di aver poi sempre a correre e affaticarsi tanto, non avendo mai dato un crollo da quel suo luogo insino a ora. E se vostra Eccellenza adesso, per quel che pare, comincia a porgere un poco di orecchio alla pigrizia; io odo che la Terra non sia mica più inclinata alla fatica oggi che in altri tempi.
Sole. Il bisogno, in questa cosa, la pungerà, e la farà balzare e correre quanto convenga. Ma in ogni modo, qui la via più spedita e la più sicura è di trovare un poeta ovvero un filosofo che persuada alla Terra di muoversi, o che quando altrimenti non la possa indurre, la faccia andar via per forza. Perché finalmente il più di questa faccenda è in mano dei filosofi e dei poeti; anzi essi ci possono quasi il tutto. I poeti sono stati quelli che per l’addietro (perch’io era più giovane, e dava loro orecchio), con quelle belle canzoni, mi hanno fatto fare di buona voglia, come per un diporto, o per un esercizio onorevole, quella sciocchissima fatica di correre alla disperata, così grande e grosso come io sono, intorno a un granellino di sabbia. Ma ora che io sono maturo di tempo, e che mi sono voltato alla filosofia, cerco in ogni cosa l’utilità, e non il bello; e i sentimenti dei poeti, se non mi muovono lo stomaco, mi fanno ridere. Voglio, per fare una cosa, averne buone ragioni, e che sieno di sostanza: e perché io non trovo nessuna ragione di anteporre alla vita oziosa e agiata la vita attiva; la quale non ti potria dar frutto che pagasse il travaglio, anzi solamente il pensiero (non essendoci al mondo un frutto che vaglia due soldi); perciò sono deliberato di lasciare le fatiche e i disagi agli altri, e io per la parte mia vivere in casa quieto e senza faccende. Questa mutazione in me, come ti ho detto, oltre a quel che ci ha cooperato l’età, l’hanno fatta i filosofi; gente che in questi tempi è cominciata a montare in potenza, e monta ogni giorno più. Sicché, volendo fare adesso che la Terra si muova, e che diasi a correre attorno in vece mia; per una parte veramente sarebbe a proposito un poeta più che un filosofo: perché i poeti, ora con una fola, ora con un’altra, dando ad intendere che le cose del mondo sieno di valuta e di peso, e che sieno piacevoli e belle molto, e creando mille speranze allegre, spesso invogliano gli altri di faticare; e i filosofi gli svogliano. Ma dall’altra parte, perché i filosofi sono cominciati a stare al di sopra, io dubito che un poeta non sarebbe ascoltato oggi dalla Terra, più di quello che fossi per ascoltarlo io; o che, quando fosse ascoltato, non farebbe effetto. E però sarà il meglio che noi ricorriamo a un filosofo: che se bene i filosofi ordinariamente sono poco atti, e meno inclinati, a muovere altri ad operare; tuttavia può essere che in questo caso così estremo, venga loro fatta cosa contraria al loro usato. Eccetto se la Terra non giudicherà che le sia più espediente di andarsene a perdizione, che avere a travagliarsi tanto: che io non direi però che ella avesse il torto: basta, noi vedremo quello che succederà. Dunque tu farai una cosa: tu te n’andrai là in Terra; o pure vi manderai l’una delle tue compagne, quella che tu vorrai: e se ella troverà qualcuno di quei filosofi che stia fuori di casa al fresco, speculando il cielo e le stelle; come ragionevolmente ne dovrà trovare, per la novità di questa notte così lunga; ella senza più, levatolo su di peso, se lo gitterà in sul dosso; e così torni, e me lo rechi insin qua: che io vedrò di disporlo a fare quello che occorre. Hai tu inteso bene?
Ora prima. Eccellenza sì. Sarà servita.
Scena seconda.
Copernico in sul terrazzo di casa sua, guardando in cielo a levante, per mezzo d’un cannoncello di carta; perché non erano ancora inventati i cannocchiali.
Gran cosa è questa. O che tutti gli oriuoli fallano, o il sole dovrebbe esser levato già è più di un’ora: e qui non si vede né pure un barlume in oriente; con tutto che il cielo sia chiaro e terso come uno specchio. Tutte le stelle risplendono come fosse la mezza notte. Vattene ora all’Almagesto o al Sacrobosco, e dì che ti assegnino la cagione di questo caso. Io ho udito dire più volte della notte che Giove passò colla moglie d’Anfitrione: e così mi ricordo aver letto poco fa in un libro moderno di uno Spagnuolo, che i Peruviani raccontano che una volta, in antico, fu nel paese loro una notte lunghissima, anzi sterminata; e che alla fine il sole uscì fuori da un certo lago, che chiamano di Titicaca. Ma insino a qui ho pensato che queste tali, non fossero se non ciance; e io l’ho tenuto per fermo; come fanno tutti gli uomini ragionevoli. Ora che io m’avveggo che la ragione e la scienza non rilevano, a dir proprio, un’acca; mi risolvo a credere che queste e simili cose possano esser vere verissime: anzi io sono per andare a tutti i laghi e a tutti i pantani che io potrò, e vedere se io m’abbattessi a pescare il sole. Ma che è questo rombo che io sento, che par come delle ali di uno uccello grande?
Scena terza.
L’Ora ultima e Copernico
Ora ultima. Copernico, io sono l’Ora ultima.
Copernico. L’ora ultima? Bene: qui bisogna adattarsi. Solo, se si può, dammi tanto di spazio, che io possa far testamento, e dare ordine a’ fatti miei, prima di morire.
Ora ultima. Che morire? io non sono già l’ora ultima della vita.
Copernico. Oh, che sei tu dunque? l’ultima ora dell’ufficio del breviario?
Ora ultima. Credo bene io, che cotesta ti sia più cara che l’altre, quando tu ti ritrovi in coro.
Copernico. Ma come sai tu cotesto, che io sono canonico? E come mi conosci tu? che anche mi hai chiamato dianzi per nome.
Ora ultima. Io ho preso informazione dell’esser tuo da certi ch’erano qua sotto, nella strada. In breve, io sono l’ultima ora del giorno.
Copernico. Ah, io ho inteso: la prima Ora è malata; e da questo e che il giorno non si vede ancora.
Ora ultima. Lasciami dire. Il giorno non è per aver luogo più, né oggi né domani né poi, se tu non provvedi.
Copernico. Buono sarebbe cotesto; che toccasse a me il carico di fare il giorno.
Ora ultima. Io ti dirò il come. Ma la prima cosa, è di necessità che tu venga meco senza indugio a casa del Sole, mio padrone. Tu intenderai ora il resto per via; e parte ti sarà detto da sua Eccellenza, quando noi saremo arrivati.
Copernico. Bene sta ogni cosa. Ma il cammino, se però io non m’inganno, dovrebbe esser lungo assai. E come potrò io portare tanta provvisione che mi basti a non morire affamato qualche anno prima di arrivare? Aggiungi che le terre di sua Eccellenza non credo io che producano di che apparecchiarmi solamente una colazione.
Ora ultima. Lascia andare cotesti dubbi. Tu non avrai a star molto in casa del Sole; e il viaggio si farà in un attimo; perché io sono uno spirito, se tu non sai.
Copernico. Ma io sono un corpo.
Ora ultima. Ben bene: tu non ti hai da impacciare di cotesti discorsi, che tu non sei già un filosofo metafisico. Vien qua: montami in sulle spalle; e lascia fare a me il resto.
Copernico. Orsù: ecco fatto. Vediamo a che sa riuscire questa novità.
Scena quarta.
Copernico e il Sole
Copernico. Illustrissimo Signore.
Sole. Perdona, Copernico, se io non ti fo sedere; perché qua non si usano sedie. Ma noi ci spacceremo tosto. Tu hai già inteso il negozio dalla mia fante. Io dalla parte mia, per quel che la fanciulla mi riferisce della tua qualità, trovo che tu sei molto a proposito per l’effetto che si ricerca.
Copernico. Signore, io veggo in questo negozio molte difficoltà.
Sole. Le difficoltà non debbono spaventare un uomo della tua sorte. Anzi si dice che elle accrescono animo all’animoso. Ma quali sono poi, alla fine, coteste difficoltà?
Copernico. Primieramente, per grande che sia la potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia grande tanto, da persuadere alla Terra di darsi a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; e darsi ad affaticare, in vece di stare in ozio: massime a questi tempi; che non sono già i tempi eroici.
Sole. E se tu non la potrai persuadere, tu la sforzerai.
Copernico. Volentieri, illustrissimo, se io fossi un Ercole, o pure almanco un Orlando; e non un canonico di Varmia.
Sole. Che fa cotesto al caso? Non si racconta egli di un vostro matematico antico, il quale diceva che se gli fosse dato un luogo fuori del mondo, che stando egli in quello, si fidava di smuovere il cielo e la terra? Or tu non hai a smuovere il cielo; ed ecco che ti ritrovi in un luogo che è fuor della Terra. Dunque, se tu non sei da meno di quell’antico, non dee mancare che tu non la possa muovere, voglia essa o non voglia.
Copernico. Signor mio, cotesto si potrebbe fare: ma ci si richiederebbe una leva; la quale vorrebbe essere tanto lunga, che non solo io, ma vostra signoria illustrissima, quantunque ella sia ricca, non ha però tanto che bastasse a mezza la spesa della materia per farla, e della fattura. Un’altra difficoltà più grave è questa che io vi dirò adesso; anzi egli è come un groppo di difficoltà. La Terra insino a oggi ha tenuto la prima sede del mondo, che è a dire il mezzo; e (come voi sapete) stando ella immobile, e senza altro affare che guardarsi all’intorno, tutti gli altri globi dell’universo, non meno i più grandi che i più piccoli, e così gli splendenti come gli oscuri, le sono iti rotolandosi di sopra e di sotto e ai lati continuamente; con una fretta, una faccenda, una furia da sbalordirsi a pensarla. E così, dimostrando tutte le cose di essere occupate in servizio suo, pareva che l’universo fosse a somiglianza di una corte; nella quale la Terra sedesse come in un trono; e gli altri globi dintorno, in modo di cortigiani, di guardie, di servitori, attendessero chi ad un ministero e chi a un altro. Sicché, in effetto, la Terra si è creduta sempre di essere imperatrice del mondo: e per verità, stando così le cose come sono state per l’addietro, non si può mica dire che ella discorresse male; anzi io non negherei che quel suo concetto non fosse molto fondato. Che vi dirò poi degli uomini? che riputandoci (come ci riputeremo sempre) più che primi e più che principalissimi tra le creature terrestri; ciascheduno di noi se ben fosse un vestito di cenci e che non avesse un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto per certo di essere uno imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania, ovvero della metà della Terra, come erano gl’imperatori romani, ma un imperatore dell’universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di tutte le cose. Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli, che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; in fine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar l’impero; restandosene però tuttavia co’ loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche.
Sole. Che vuol conchiudere in somma con cotesto discorso il mio don Niccola? Forse ha scrupolo di coscienza, che il fatto non sia un crimenlese?
Copernico. No, illustrissimo; perché né i codici, né il digesto, né i libri che trattano del diritto pubblico, né del diritto dell’Imperio, né di quel delle genti, o di quello della natura, non fanno menzione di questo crimenlese, che io mi ricordi. Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere.
Sole. Figliuol mio, coteste cose non mi fanno punto paura: ché tanto rispetto io porto alla metafisica, quanto alla fisica, e quanto anche all’alchimia, o alla negromantica, se tu vuoi. E gli uomini si contenteranno di essere quello che sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano: che essi ne staranno più consolati, e a me con questi loro giudizi non daranno un dispiacere al mondo.
Copernico. Orsù, lasciamo degli uomini e della Terra. Considerate, illustrissimo, quel ch’è ragionevole che avvenga degli altri pianeti. Che quando vedranno la Terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così deserti e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le piante, e fra le altre cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come funghi.
Sole. E tu le lascerai che vengano; e sieno quante sapranno essere: ché la mia luce e il calore basterà per tutte, senza che io cresca la spesa però; e il mondo avrà di che cibarle, vestirle, alloggiarle, trattarle largamente, senza far debito.
Copernico. Ma pensi vostra signoria illustrissima un poco più oltre, e vedrà nascere ancora un altro scompiglio. Che le stelle, vedendo che voi vi siete posto a sedere, e non già su uno sgabello, ma in trono; e che avete dintorno questa bella corte e questo popolo di pianeti; non solo vorranno sedere ancor esse e riposarsi, ma vorranno altresì regnare: e chi ha da regnare, ci hanno a essere i sudditi: però vorranno avere i loro pianeti, come avrete voi; ciascuna i suoi propri. I quali pianeti nuovi, converrà che sieno anche abitati e adorni come è la Terra. E qui non vi starò a dire del povero genere umano, divenuto poco più che nulla già innanzi, in rispetto a questo mondo solo; a che si ridurrà egli quando scoppieranno fuori tante migliaia di altri mondi, in maniera che non ci sarà una minutissima stelluzza della via lattea, che non abbia il suo. Ma considerando solamente l’interesse vostro, dico che per insino a ora voi siete stato, se non primo nell’universo, certamente secondo, cioè a dire dopo la Terra, e non avete avuto nessuno uguale; atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in questo nuovo stato dell’universo avrete tanti uguali, quante saranno le stelle coi loro mondi. Sicché guardate che questa mutazione che noi vogliamo fare, non sia con pregiudizio della dignità vostra.
Sole. Non hai tu a memoria quello che disse il vostro Cesare quando egli, andando per le Alpi, si abbatté a passare vicino a quella borgatella di certi poveri Barbari: che gli sarebbe piaciuto più se egli fosse stato il primo in quella borgatella, che di essere il secondo in Roma? E a me similmente dovrebbe piacer più di esser primo in questo mondo nostro, che secondo nell’universo. Ma non è l’ambizione quella che mi muove a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l’amor della quiete, o per dir più proprio, la pigrizia. In maniera che dell’avere uguali o non averne, e di essere nel primo luogo o nell’ultimo, io non mi curo molto: perché, diversamente da Cicerone, ho riguardo più all’ozio che alla dignità.
Copernico. Cotesto ozio, illustrissimo, io per la parte mia, il meglio che io possa, m’ingegnerò di acquistarvelo. Ma dubito, anche riuscendo la intenzione, che esso non vi durerà gran tempo. E prima, io sono quasi certo che non passeranno molti anni, che voi sarete costretto di andarvi aggirando come una carrucola da pozzo, o come una macina; senza mutar luogo però. Poi, sto con qualche sospetto che pure alla fine, in termine di più o men tempo, vi convenga anco tornare a correre: io non dico, intorno alla Terra; ma che monta a voi questo? e forse che quello stesso aggirarvi che voi farete, servirà di argomento per farvi anco andare. Basta, sia quello che si voglia; non ostante ogni malagevolezza e ogni altra considerazione, se voi perseverate nel proposito vostro, io proverò di servirvi; acciocché, se la cosa non mi verrà fatta, voi pensiate ch’io non ho potuto, e non diciate che io sono di poco animo.
Sole. Bene sta, Copernico mio: prova.
Copernico. Ci resterebbe una certa difficoltà solamente.
Sole. Via, qual è?
Copernico. Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato vivo, a uso della fenice: perché accadendo questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie ceneri come fa quell’uccello, e di non vedere mai più, da quell’ora innanzi, la faccia della signoria vostra.
Sole. Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per l’ultima volta, e che per la memoria di quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse, dopo te ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile; ma che tu per conto di questa impresa, a quel ch’io posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere più sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo proposito, dedicarlo al papa. In questo modo, ti prometto che né anche hai da perdere il canonicato.
http://rebstein.wordpress.com/2008/01/22/il-copernico-dialogo-di-giacomo-leopardi/
GIACOMO LEOPARDI, Materialismo e religione cristiana, a cura di PonSinMor, Gassino Torinese, 2011,cm 14×21, pp.100. Offerta € 10
Introduzione
Quella che presentiamo al lettore è una raccolta di scritti di Giacomo Leopardi sul materialismo e sulla religione cristiana, tratta prevalentemente dallo Zibaldone, opera non destinata alla pubblicazione. Non pretende di essere esaustiva ma abbastanza ampia e ragionata. I testi documentano connessioni fra temi che mostrano nel grande poeta di Recanati la fecondità di una riflessione ispirata alle fonti del sensismo inglese e soprattutto al materialismo francese del secolo XVIII, non senza echi dell’antica riflessione che dai fisici della Ionia arriva fino all’epicureismo, alla scienza alessandrina e al Rinascimento. Né è compito di questa nota ricostruire filologicamente le fonti e la genesi di questa riflessione, né di discuterne criticamente l’originalità. Vogliamo offrire al lettore la possibilità di leggere e apprezzare, raccolti insieme in un volume, scritti che, sparsi come sono nelle migliaia di pagine di un’opera così vasta ed eterogenea per contenuti ed articolazioni, seguiterebbero a restare ad uso degli studiosi che, in genere, non li degnano di molta considerazione, se si eccettuano autori come il Luporini (1947) e il Timpanaro (1965), che segnarono una svolta negli studi del pensiero leopardiano, mai più degnamente riprese e sviluppate.
Leopardi sviluppa la sua riflessione filosofica in maniera frammentaria, con annotazioni su argomenti disparati che si addensano dal 1820 al 1825 ma con una forte propensione alla sistematicità. Pur nell’ampiezza e varietà dei temi affrontati, da quelli eruditi e linguistici, soprattutto grammaticali ed etimologici, a quelli artistici in senso ampio, letterari, estetici e di poetica, a quelli sociali e politici, a quelli gnoseologici e ontologici, è possibile rintracciare un filo conduttore che offre un denso tessuto connettivo dei suoi pensieri, una visione del mondo che non esitiamo a collocare, pur con limiti soggettivi derivanti dall’isolamento, e oggettivi, relativi alle fonti utilizzate, e talvolta con qualche contraddizione, nella grande tradizione materialista. Questo filo conduttore si snoda intorno alla percezione dolorosa della condizione di infelicità in cui versa la specie umana nel progressivo allontanamento da un’esistenza, che egli connota come «naturale», fino al processo di «incivilimento». Questo allontanamento, che in genere dall’ ideologia dominante anche nella sua epoca veniva esaltato magnificando le conquiste della civiltà, in realtà merita ironia e disprezzo per Leopardi, che ne addita sdegnosamente la perdita secca in termini di condizione esistenziale, di felicità perduta e infelicità acquisita. Quella che Leopardi definisce la «spiritualizzazione» dell’uomo e di ogni cosa naturale, ossia le sedimentazioni ideologiche artificiali che corrompono a vari livelli la natura e l’umanità, hanno prodotto il sopravvento di una «ragione» non più naturale ma degenerata e il predominio dello spirito sulla materia, della vita interiore sull’esistenza reale, dell’anima sul corpo, dell’interiorità e contemplatività sull’attività operosa sensitiva esterna. La tanto esaltata «civiltà», le ironizzate «magnifiche sorti e progressive», in realtà non sono che corruzione, dissipazione e degrado, anche perché quello che Leopardi, echeggiando d’Holbach, chiama «amor di sè» viene sopraffatto dall’egoismo. Da qui il paradosso di una società civile più infelice che la società selvaggia ma in cui, ipocritamente, solo per via di sofisma, i «mezzi filosofi» alla moda sanno abbellire di orpelli spirituali tutto quello che in realtà ha profonde radici materiali. Da questo punto di vista, la fonte principale dell’orientamento materialista del Leopardi deriva direttamente dall’orientamento «sociale» e «morale» innestato dai francesi sul sensismo inglese, da Helvétius a Lamettrie a Holbach e al Rousseau, senza tuttavia confondersi nel coro del mito del buon selvaggio e dell’impossibile «ritorno» puro e semplice alla natura. Marx osservava su questo materialismo, ne La sacra famiglia:
«Come il materialismo cartesiano va a finire nella scienza naturale vera e propria, cosi l’altro orientamento del materialismo francese sfocia direttamente nel socialismo e nel comunismo. Se si muove dalle dottrine del materialismo sulla bontà originaria degli uomini e sulla loro eguale capacità intellettuale, sull’onnipotenza dell’esperienza, dell’abitudine, dell’educazione, sull’influsso delle circostanze esterne sull’uomo, sulla grande importanza dell’industria(1), sul diritto al godimento ecc., non occorre una grande acutezza per cogliere la connessione necessaria del materialismo con il comunismo e il socialismo. Se l’uomo si forma ogni conoscenza, ogni percezione ecc., dal mondo sensibile e dall’esperienza nel mondo sensibile, ciò che importa allora e ordinare il mondo empirico in modo che l’uomo, in esso, faccia esperienza di ciò – e prenda abitudine a ciò – che è veramente umano, in modo che l’uomo faccia esperienza di sè come uomo. Se l’interesse bene inteso è il principio di ogni morale, ciò che importa è che l’interesse privato dell’uomo coincida con l’interesse umano» (2).
In questo sintetico passo di Marx sono elencati tutti gli elementi di una concezione materialistica che ricorrono insistentemente nei frammenti leopardiani: la positività delle origini naturali di tutti gli esseri, le condizioni di uguaglianza in termini di capacità e possibilità intellettive, il ruolo centrale dell’esperienza, dell’esercizio, dell’abitudine (che Leopardi chiama anche assuefazione), dell’educazione, delle circostanze esterne, della laboriosità e industriosità, del diritto al soddisfacimento dei bisogni naturali o godimento, dell’amor di sè inteso come naturale e non come eccesso egoistico (amor proprio) e in quanto tale come molla di ogni principio morale. Se si aggiunge, pur nei limiti delle conoscenze scientifiche del tempo e sue personali, un modo di affrontare il problema della conoscenza, il problema del rapporto tra la realtà e il pensiero, tra materia e spirito, anche su questo piano sussistono in Leopardi alcuni capisaldi che lo collocano tendenzialmente nel campo del materialismo e, sia pur con qualche incertezza e contraddizione, fuori dall’empirismo più piatto e dall’innatismo platonico o cartesiano.
La lettura di questi testi così riuniti riteniamo possa fornire non pochi elementi per superare certi schematismi, divenuti pregiudizi scolastici, circa un preteso pessimismo, di volta in volta connotato come pessimismo storico o come pessimismo cosmico. Leopardi mette in guardia dal ruolo nefasto della superstizione, non solo religiosa, delle manipolazioni ideologiche, delle illusioni non naturali ma artefatte, di ogni genere d’impostura che distoglie dalla presa di coscienza del senso tragico e insieme eroico dell’esistenza. Addita nello spiritualismo il delirio del secolo, un secolo in cui marciano mostruosamente insieme scienza e superstizione, una delle innumerevoli follie dovute non certo all’ignoranza, ma proprio alla scienza, dal momento che deliri del genere non albergano nella testa di un bambino o di un selvaggio. Le illusioni dell’uomo naturale sono potenza attiva, immaginativa e creativa dell’uomo ancora ignorante, laddove le illusioni dell’uomo «civilizzato» sono menzogna e inganno. E coraggiosamente attacca il Cristianesimo e insieme ad esso l’ottimismo del secolo dei lumi. In particolare attacca la religione cristiana, più adatta ad atterrire che a rallegrare, responsabile di quel mostruoso capovolgimento di valori che induce gli esseri umani a vedere il peccato in ciò che è bello, buono, naturale e a condannare il piacere di vivere esaltando la sofferenza. Venti anni prima della pubblicazione dell’opera di L. Feuerbach, Leopardi sottolineava, come Senofane, il contenuto «umano» dell’essenza di ogni religione. Ed è altresì un luogo comune che Leopardi contrapponga la natura alla ragione. Più volte sottolinea, non diversamente da tanti illuministi, come la ragione è data dalla natura e questa non può contraddirsi. Come la civiltà non è che una degenerazione dello stato selvaggio, così la religione e l’ideologia filosofica non sono che degenerazione della razionalità naturale. È dunque quella «ragione», che si allontana dalla natura e dalla vera e naturale umanità e da essa degenera, che egli fustiga spietatamente. Anche in questo senso il Cristianesimo è lo specchio di una ragione filosofica degenerata. È dunque comprensibile che la religione cristiana e la ragione filosofica degenerata si prendessero la rivincita sul gobbo deforme e ≪pessimista≫ di Recanati. Incensandolo, ovviamente, ed esaltandone la sensibilità sofferta, non potendo sfuggire la straripante bellezza, la delicatezza, la grazia, la serenità del suo dialogo interiore con la natura e col mondo. Ma distogliendo l’attenzione dal versante più critico del suo pensiero.
Abbiamo segnalato in nota alcune aporie della riflessione leopardiana nell’affrontare il problema della conoscenza, in particolare nell’impostare il problema della formazione delle idee astratte nella mente, tra cui certi concetti matematici e quelli di tempo e spazio. In più occasioni, Leopardi ribadisce il fondamento materiale di tutte le idee nella realtà esistente indipendentemente dal soggetto conoscente. Non esistono idee assolute, innate e preesistenti, prive di relazioni con le cose. Ogni facoltà umana è acquisita, compreso il linguaggio e la ragione, non restando di naturale che la pura e semplice possibilità o adattabilità o disposizione. Ed è un fatto constatabile che la materia pensa e sente. Per converso, egli è per lo più indotto a rigettare ogni concezione tendente a presupporre l’esistenza di congegni mentali archetipici che presiedano alla formazione di concetti e idee indipendenti dal mondo materiale. Ciò nonostante, egli afferma [1075] per esempio che «la parola due significa un’idea la cui forma non sussiste se non che nel nostro intelletto, quando anche sussistano fuori di esso le cose che compongono questa quantità, colla quale tuttavia non hanno alcuna relazione sensibile, materiale, intrinseca o propria loro, ed estrinseca alla concezione umana». Ma, come già notava Engels, «Il fatto che questa materia si presenti in una forma estremamente astratta, solo superficialmente può nascondere la sua origine dal mondo esterno» (cfr. note 8 e 14).
Un’ultima avvertenza su questa edizione: i numeri in parentesi quadra riprendono la numerazione delle pagine dello Zibaldone. I titoli ad ogni brano sono redazionali, ma per lo più desunti dalle stesse frasi dell’autore. L’edizione dello Zibaldone a cui abbiamo attinto è quella a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti, Sansoni Firenze 1969, che abbiamo qua e là snellito nella punteggiatura.
Dante Lepore
1 ≪industria≫ nel senso di industriosità, attività. Cosi in Leopardi.
2 MARX-ENGELS, Opere Complete, vol. IV, Roma 1972, p.145.